Nanchino, i Giapponesi e l’arte della guerra

Si narra che Archimede, durante l’assedio di Siracusa da parte dei Romani nel 212 a.C., utilizzò dei giganteschi specchi per incendiare le navi degli invasori al largo del porto, riflettendo e concentrando su esse i raggi solari.

 

Si tratta chiaramente di una leggenda: è praticamente impossibile creare specchi di dimensioni e precisione tali da concentrare la luce al punto da incendiare una nave, soprattutto se questa è distante chilometri. Ciononostante si tratta di una storia estremamente affascinante e con un fondo (scientifico) di verità: una luce posta dinanzi ad uno specchio parabolico in un punto particolare (chiamato fuoco) viene riflessa in raggi paralleli, e, nel senso opposto, uno specchio parabolico che riceve raggi luminosi paralleli (come quelli della luce solare) li concentra tutti sempre in quest’unico punto. La nostra mostra Agorà, trattando in gran parte di Archimede, non poteva di certo ignorare la leggenda degli Specchi Ustori ed ecco allora un exhibit interamente dedicato a questo esperimento e alle proprietà matematiche delle parabole, che invece con ogni probabilità furono realmente studiate dal grande scienziato siracusano.

Due specchi parabolici di circa mezzo metro di diametro sono posti uno di fronte all’altro: nel fuoco di uno si trova una piccola lampadina a led di 15 Watt, montata su un braccio fisso. Di fronte all’altro specchio è invece posizionato un braccio mobile montato su un piccolo binario; sulla cima di questo c’è un termometro che rileva la temperatura con grande precisione e la mostra in un display. Muovendo il braccio mobile e verificando se la temperatura aumenta, il visitatore può trovare il punto esatto in cui si trova il fuoco della seconda parabola, ovvero dove il secondo specchio concentra tutti i raggi luminosi che riceve dal primo. E la temperatura sale, eccome! Con la giusta messa a punto si possono toccare e superare i 120°C, tutti concentrati in un’area di pochi millimetri. Si tratta di uno dei miei exhibits preferiti di Agorà, per la chiarezza con cui il concetto viene spiegato, perché permette di capire quali sono le caratteristiche che rendono così utili le parabole, ma anche perché fa vedere il punto esatto in cui si trova il loro fuoco che non è comunque un concetto semplicissimo, soprattutto per chi le parabole non le ha mai studiate!

Per la maggior parte degli storici Archimede perfezionò e mise a punto alcune altre armi già esistenti con lo scopo di difendere Siracusa dagli invasori. Tra queste la più celebre è sicuramente la catapulta, che era in grado di scagliare massi di grandi dimensioni a distanza di centinaia di metri. Agorà mette a disposizione dei visitatori una riproduzione in scala dell’originale, secondo una ricostruzione il più possibile fedele ai dati che ci sono pervenuti su quest’arma.

 

Verrebbe da definirla una balestra più che una catapulta, in quanto nell’immaginario collettivo solitamente associamo tale nome ad una sorta di leva con un braccio meccanico a sollevamento verticale (che è una sua versione più recente), mentre qui la propulsione viene data da due gruppi di corde posti lateralmente e tenuti in tensione, che forniscono la spinta ad un’altra fune posta secondo un asse orizzontale che lancia il proiettile. Ovviamente non c’è alcun rischio per chi vuole provare l’arma dato che come proiettile viene utilizzata una pallina di gommapiuma e in ogni caso l’exhibit è posto sotto il controllo costante di un animatore. Ciononostante testando il modellino con una tensione poco più forte e utilizzando proiettili un po’ più robusti come ad esempio una pallina da tennis si possono raggiungere distanze di gittata notevoli, anche di 30-40 m, a dimostrare l’efficacia di questa tecnologia vecchia di oltre duemila anni.

Il genio di questi grandi scienziati dell’Antichità spesso si esprimeva nella creazione e nello sviluppo di armi sempre più efficaci ed elaborate, solitamente per ottenere le grazie dei potenti e ottenere in cambio ricchezza, protezione e i mezzi necessari per continuare ed approfondire i propri studi. Ciononostante il fatto che l’intelligenza di scienziati e ingegneri sia stata investita per millenni al fine di creare oggetti volti a ferire o uccidere gli altri uomini invece che ad aiutarli mi ha sempre dato fastidio, mi è parso un controsenso dato che in fondo lo scopo dello Scienziato è uno e soltanto uno: migliorare le condizioni di vita dell’Umanità. Allo stesso modo ho sempre ritenuto l’espressione ‘Arte della Guerra’ una contraddizione di termini, un ossimoro: come può essere un’arte, ovvero qualcosa volto unicamente a rendere la vita bella e degna di essere vissuta, un’entità come la guerra, che la stessa vita annienta, distrugge?

Questa digressione non è fine a se stessa ma è motivata da una visita che ho fatto nei giorni scorsi nella città di Nanjing, o, come la chiamiamo noi, Nanchino.

  

La nobilissima Capitale del Sud (Nan=Sud, Jing=Capitale, contrapposto a Beijing-Pechino, la capitale del nord, dove Bei=Nord) è stata più volte la prima città dell’Impero Celeste, fino al definitivo trasferimento a Pechino da parte della dinastia manciù dei Qing. Nonostante tutte le vicissitudini storiche la bellezza e la maestosità dei fasti del passato sono rimasti intatti: enormi viali alberati a offrire riparo dal sole cocente che può portare le temperature estive oltre i 40° C, grandi laghi artificiali, gli imponenti resti della dinastia Ming che qui aveva posto la roccaforte del proprio impero, con le bellissime mura cittadine, i resti del palazzo imperiale e le tombe monumentali, e infine il mausoleo del primo presidente della Repubblica Democratica Cinese, l’amatissimo Sun Yatsen.

   

L’attuale capitale dello Jiangsu ospita però un altro luogo di assoluto interesse, che poi è stato il motivo principale della mia visita: il Memoriale del Massacro di Nanchino (Datusha Jinianguan): un posto cupo, inquietante, difficile da dimenticare ma che va assolutamente visitato, così come andrebbero visti da tutti luoghi come Dachau o Auschwitz, per capire, imparare, non dimenticare mai.

In questo caso l’evento da ricordare è tra i più tragici e sanguinosi della storia recente della Cina: nel dicembre del 1937, durante l’invasione da parte dei Giapponesi di Hiro Hito che cercava, dopo la conquista della Manciuria del 1931, di impossessarsi di altre regioni di una nazione indebolita dalla caduta dell’impero e dalla guerra civile, le truppe nipponiche approfittarono del ritiro degli uomini di Chiang Kaishek e occuparono la città; per tre settimane sfogarono la loro voglia di vendetta, causata dalle perdite subite, contro la popolazione inerme, compiendo indicibili atrocità che sono tuttora ricordate come il Massacro di Nanchino.

   

Più volte all’interno del museo appare la scritta ‘300000’, a indicare la stima delle barbare uccisioni di uomini, donne, bambini subite dalla popolazione civile di Nanjing da parte degli invasori, spesso condite da nefandezze e violenze gratuite del tutto raccapriccianti. Nonostante la presenza di numerose prove e testimonianze (circa 400 testimoni oculari ancora vivi, fotografie scattate dagli stessi soldati giapponesi, filmati di alcuni missionari americani e la testimonianza di un uomo d’affari tedesco presente a Nanchino in quei giorni) esiste ancora una schiera di politici giapponesi, principalmente ultranazionalisti e xenofobi, che ha negato per anni e rifiuta tuttora l’esistenza degli eventi del dicembre 1937, o cerca di ridimensionarne le cifre, ricoprendo quell’orribile ruolo di ‘negazionisti’ che purtroppo è presente anche in Europa per l’Olocausto.

 

Ciò che però è veramente doloroso per i Cinesi è il fatto che da parte delle autorità nipponiche non siano mai arrivate scuse ufficiali, né da Hiro Hito o i suoi discendenti, né tantomeno dai governi che si sono succeduti in questi ultimi decenni in Giappone. Questo è il motivo fondamentale per cui per decenni le relazioni tra i due paesi sono state tese e non si sono ancora del tutto appianate, neanche in seguito ad un trattato del 1972 in cui veniva finalmente riaperto il dialogo. Questo evento ha amplificato ulteriormente alcuni secoli di ostilità tra i due paesi, vissuti principalmente durante la dinastia degli imperatori Qing, originari della Manciuria e odiati da buona parte della popolazione in quanto tirannici e sanguinari oltre che legati a usi, costumi e tradizioni medievali, mentre il vicino Giappone subiva un rapido processo di modernizzazione durante il regno dell’imperatore Meiji. La Cina combatté il Giappone in una guerra (persa) per il controllo di Corea e Taiwan alla fine del XIX Secolo e negli anni ’30 subì l’invasione nipponica del Dongbei Pingyuan (“Manciuria” è un termine giapponese, mal visto in patria) con successiva creazione dello stato fantoccio del Manciukuò, ben fotografata dall’Ultimo Imperatore di Bertolucci. Fu proprio l’ultimo imperatore della Cina, Aisin Gioro Pu Yi, a governare questa nazione  sotto il controllo diretto dei Giapponesi, fino alla loro sconfitta al termine della II Guerra Mondiale.

  

Tutto questo è molto triste anche perché storicamente e culturalmente (oltre che geograficamente) Cina e Giappone sono sempre state nazioni vicine: dal Buddhismo Zen al Confucianesimo, dalla calligrafia alla pittura, dall’architettura tradizionale al kimono, gran parte degli elementi che costituiscono la cultura nipponica hanno origini cinesi, e tra i due popoli c’è sempre stata amicizia e comprensione; ancora al giorno d’oggi tanti Giapponesi vivono e lavorano in Cina e viceversa, qui si guidano soprattutto macchine nipponiche e le grandi aziende elettroniche del Sol Levante danno lavoro a ingegneri e tecnici cinesi.

E allora come si spiegano eventi così incommensurabilmente vergognosi e atroci come il Massacro di Nanchino del ’37? La risposta è sempre la stessa, la colpa è dei potenti, dei politici, di quelli che associano il termine ‘Arte’ al termine ‘guerra’ (volutamente minuscolo). Speriamo che ricordare e documentare errori del genere aiuti ad evitare il loro ripetersi in futuro, e che gli scienziati possano finalmente e unicamente lavorare per la loro missione, il bene comune degli uomini. Di tutti loro.

Zaijian,

fonso

7 pensieri su “Nanchino, i Giapponesi e l’arte della guerra

  1. Concordo con la parte didattica, notevole….
    Per quanto riguarda la parte storica è una parte che non avevo mai approfondito, spiegata in maniera chiara e dettagliata…complimenti davvero!
    Al ritorno ti chiamerò Wikifonso……
    Zaijian,
    Paolo

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  2. Grazie a entrambi! 🙂 Il fatto è che si tratta di argomenti delicati, e vanno affrontati con attenzione… comunque di questi eventi storici non se ne parla quasi mai, né a scuola né altrove, e il motivo è sicuramente che della Cina a noi occidentali ci è sempre importato ben poco, almeno fino a qualche anno fa…

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