The Lazarus syndrome, ovvero il ritorno dei mai-estinti

Una brulla, arida e frastagliata colonna di roccia alta oltre cinquecento metri si erge, imponente e solitaria, dalle acque del Pacifico, a circa seicento chilometri a est delle coste australiane. Questo isolato sperone di roccia prende il nome di Ball’s pyramid, la piramide di Ball. Si trova all’incirca a metà strada tra Australia e Nuova Zelanda, nel Mar di Tasman e, grazie ai suoi 562 metri di quota raggiunti dalla sua vetta, detiene il primato di faraglione più alto del mondo.

Ma non è per questo insolito record che Ball’s pyramid è conosciuta in tutto il mondo. Qui, nel febbraio 2001, i due scienziati australiani David Priddel e Nicholas Carlile, insieme ad altri due compagni di viaggio, si avventurarono sulle sue ripidissime pareti nella speranza di rinvenire un piccolo tesoro ritenuto ormai perduto da decenni.

L’obiettivo della ricerca non era ritrovare una gemma preziosa, bensì un organismo vivente: la cosiddetta “aragosta di terra”, in realtà un insetto dell’ordine dei Fasmidi, l’insetto stecco dell’isola di Lord Howe (Dryococelus australis), animale dalle dimensioni sorprendenti (fino a 25 grammi di peso e 15 centimetri di lunghezza), ritenuto estinto dal 1920. La sua scomparsa era stata causata dall’arrivo dei ratti neri sull’isola, che non avevano avuto difficoltà a predare l’insetto, lento e non abituato a questo tipo di predatori. L’arrivo dei roditori era indirettamente legato all’uomo: infestavano la nave da rifornimenti Makambo, e invasero rapidamente l’isola in seguito al suo arenaggio.

Questo insetto in effetti era una specie esclusiva dell’isola da cui prende il nome, un affascinante polo di straordinaria biodiversità, distante pochi chilometri dal desolato faraglione di Ball’s pyramid, dove, oltre all’insetto gigante, si possono tuttora incontrare molti altri endemismi, tra cui circa metà delle specie di piante presenti e un uccello incapace di volare (caratteristica tipica di molte specie insulari), il rallo di Lord Howe (Gallirallus sylvestris).

I due scienziati australiani si avventurarono sulle ripide pareti del faraglione, spinti dalla speranza di ritrovare ancora qualche esemplare vivente. Nel 1964 alcuni scalatori avevano trovato su Ball’s pyramid il resto di un esemplare ormai essiccato da tempo e cinque anni dopo ne erano stati rinvenuti altri due. Questi ritrovamenti casuali davano ancora una flebile speranza a Priddel e Carlile, sebbene fosse estremamente improbabile ipotizzare la presenza di un insetto vegetariano, tipico abitante del sottobosco, in un ambiente così arido e inospitale.

L’ascesa fu improduttiva, se non per il rinvenimento di un piccolo crepaccio nella roccia, a circa 70 metri di quota, popolato da una fitta vegetazione dove era presente un unico arbusto di Melaleuca, habitat ideale dell’animale; al ritorno al campo base un’intuizione di David Priddel fu però fondamentale: l’insetto stecco era un animale notturno, bisognava pertanto ritornare in quella piccola oasi nel pieno della notte. Così venne fatto, e il sorprendente rinvenimento di circa trenta esemplari, questa volta vivi, tutti assiepati sotto quell’unico arbusto, tramutò la spedizione in un autentico successo. In breve, grazie al grande clamore suscitato dalla scoperta, venne dato il via a un programma di conservazione e recupero della specie, definita “l’insetto più raro del mondo” dai media, che è tuttora in atto. Dopo anni di tentativi, a partire da pochissimi esemplari prelevati con la massima cura dal faraglione, gli insetti stecco giganti si sono ora riprodotti con successo in cattività sia in Australia (a Melbourne e Sydney), sia nello zoo di San Antonio in Texas, ed è ora in corso un programma di reintroduzione nella loro isola originaria in un ambiente controllato, insieme all’avanzamento di un programma di eradicazione del ratto nero.

Le sorprendenti vicissitudini del fasmide ci offrono lo spunto per scoprire quei rari casi in cui, secondo la cosiddetta Lazarus syndrome, alcune specie ritenute ormai estinte vengano riscoperte in natura. I casi sono pochi ma possono aiutarci a tenere accesa la fiammella della speranza, sia per quelle specie di cui ormai si è persa traccia, sia per quelle ancora esistenti, ma a un passo dall’estinzione.

Un altro esempio recente è dato dal “ferreret” o rospo delle Baleari (Alytes muletensis), descritto e identificato sulla base di resti fossili nel 1977, e ritenuto estinto fino a due anni dopo, quando alcuni animali vivi vennero riscoperti in aree particolarmente impervie di Maiorca, isola di cui è endemico. Anche in questo caso, un programma di recupero in cattività e reintroduzione sull’isola ha condotto al recupero della specie, ora considerata come “vulnerabile” dalla Lista Rossa IUCN, elenco che raccoglie le informazioni sullo stato di conservazione di animali e vegetali di tutto il mondo.

Da non dimenticare il petrello di Madera (o petrello di Zino, Pterodroma madeira), ritenuto uno degli uccelli più rari d’Europa, endemico dell’isola portoghese di Madera e riscoperto nel 1969 dopo che per quasi trent’anni se ne erano perse quasi totalmente le tracce e che ora è rigidamente protetto e costantemente monitorato, e la wollemia (Wollemia nobilis), una conifera della famiglia Araucariacee, di cui si conoscevano solamente esemplari fossili e che fu riscoperta nel 1994 in un remoto canyon del Wollemi National Park, nel Nuovo Galles del Sud in Australia, dal guardaparco David Noble, da cui prese il nome. Prima di allora, le uniche tracce conosciute di questa pianta erano resti fossili risalenti a circa novanta milioni di anni fa. Un sorprendente programma di commercializzazione e distribuzione dei semi, con lo scopo di finanziare autonomamente il recupero della specie in natura, ha condotto al salvataggio di una pianta che era sull’orlo dell’estinzione con soltanto un centinaio di esemplari, e che rappresentava, e rappresenta tuttora, un incredibile esempio di fossile vivente, ossia di specie rimasta immutata (o quasi) per milioni di anni.

Ma il caso più conosciuto di specie ritornata dal mondo dei “non-estinti” è, senz’ombra di dubbio, il celacanto, ultimo rappresentante della più antica linea evolutiva di pesci conosciuta, risalente addirittura al Devoniano, circa 390 milioni di anni fa.

L’animale venne scoperto nel 1938 dalla curatrice del museo di East London in Sudafrica Marjorie Courtenay-Latimer, in mezzo al raccolto di alcuni pescatori locali. Non ritenendola ascrivibile a nessuna specie conosciuta, mostrò l’esemplare ormai imbalsamato al professor James Leonard Brierley Smith, che lo identificò come il celacanto, una specie conosciuta soltanto in forma fossile, ritenuta estinta dal Cretaceo. Dalla sua scopritrice e dal luogo del ritrovamento (la foce del fiume Chalumna, nell’Oceano Indiano) prese il nome scientifico, essendo chiamato Latimeria chalumnae. Oggi nella sala centrale del Museo di Storia Naturale di Londra fanno bella mostra di sé due esemplari di celacanto, uno fossile e vecchio di milioni di anni, l’altro pescato nel 1960.

In realtà sarebbe più corretto parlare di “celacanti” al plurale, dato che in tempi recenti (1999) è stata identificata una seconda specie, chiamata Latimeria menadoensis, il celacanto indonesiano, distinta dalla prima specie, il celacanto delle Comore.

Nonostante i severi regolamenti di conservazione e l’incredibile notorietà portata dalla sua riscoperta, il celacanto, essendo spesso vittima di battute di pesca che hanno come obiettivo ben altre specie, è tuttora in grave rischio: Latimeria chalumnae è gravemente minacciato, mentre Latimeria menadoensis è ritenuto vulnerabile dall’IUCN. Il motivo è presto detto: l’impoverimento dei mari e il conseguente spingersi delle reti dei pescatori verso acque sempre più profonde, mai raggiunte in passato, colpisce in pieno l’habitat del celacanto, pesce che vive abitualmente oltre i cento metri di profondità.

Una testimonianza viva e profonda di come sia possibile modificare la natura fino a colpire gravemente anche specie note al grande pubblico e fortemente tutelate, ma anche di come sia sempre necessario tenere duro fino all’ultimo: per recuperare una specie dal baratro dell’estinzione bastano a volte pochissimi esemplari, persino, in certi rari casi, quando è stato persino superato il confine della stimata MVP (Popolazione Minima Vitale), sotto la quale, teoricamente, nessuna specie può sopravvivere. Un promemoria da tenere sempre a mente, per ricordarci che gli sforzi per conservare le specie che popolano il nostro pianeta non sono mai inutili.

Un fragile paradiso

GreatBarrierReef-EO

La Grande barriera corallina australiana (NASA/Wikimedia Commons)

Non passa giorno senza che sui mezzi di informazione generalisti si parli di cambiamento climatico. Gran parte di questi titoli e titoloni però affrontano il problema come se fosse un qualcosa di lontano nel tempo, delle cui conseguenze dovranno preoccuparsi i nostri nipoti e pronipoti. Poco invece viene detto sui danni che il riscaldamento globale ha già fatto e sta facendo in questi anni, a meno che non si tratti di eventi strettamente legati all’uomo come carestie, migrazioni o guerre (e sì, a quanto pare ci sono già stati conflitti causati dai cambiamenti climatici). Ma esiste un esempio che è impossibile da ignorare e che merita di essere visto con attenzione, perché riguarda uno degli ambienti marini più vari e, perché non dirlo, anche più belli del nostro pianeta: la Grande barriera corallina australiana. Un autentico paradiso generato da quei piccolissimi animali, i polipi del corallo, che in migliaia di anni hanno creato una struttura che oggi funge da casa e nursery a migliaia di specie di pesci, mammiferi e invertebrati marini.

Scoperta nel 1768 da Louis de Bougainville e attraversata nel 1770 dal capitano James Cook, la Grande barriera, che è anche la più grande struttura realizzata da un unico organismo vivente, è diventata simbolo di paradiso tropicale e di bellezza naturale incontaminata. Le colonie di coralli, popolate da migliaia di specie di organismi marini di ogni genere e immerse in acque cristalline, sono stimate essere il frutto di oltre 15.000 anni di lavoro di costruzione dei piccoli polipi sessili. Oggi la Grande barriera corallina rappresenta anche una delle maggiori attrazioni turistiche della nazione australiana, ma soprattutto ha fornito un esempio lampante di quanto fragili possano essere questi ecosistemi: nonostante le enormi dimensioni, con oltre 2300 Km di lunghezza, 344.000 Km2 di estensione e circa 900 isole a farne parte, i parametri di temperatura, profondità e salinità delle acque, da cui la colonia dipende per sopravvivere, non possono subire grandi variazioni senza che tutto il sistema venga pesantemente danneggiato o, nei casi peggiori, collassi.

E così, tra riscaldamento globale antropogenico e l’evento periodico di El Niño a causare un ulteriore innalzamento delle temperature marine, le acque della Grande barriera sono diventate sempre più calde e inospitali per le madrepore che sono alla base della vita di tutta la colonia. Si è così verificato un evento, lo sbiancamento dei coralli, che già aveva colpito drammaticamente l’ecosistema nel periodo 1998-2002, e che ora sembra riproporsi in forma ancora più grave: alcune fonti parlano del 35% di coralli morti, e di un incredibile 93% di barriera colpita, in maniera più o meno sensibile, dall’evento. Ironicamente, solo l’arrivo di un ciclone potrebbe essere d’aiuto, abbassando le temperature e rallentando così l’estensione del fenomeno, che comunque si ripropone a livelli meno intensi ad ogni estate, ormai da 18 anni.

Ma come si verifica questo sbiancamento? Facciamo un passo indietro. La struttura di base delle barriere coralline è data dalle colonie di madrepore, la forma polipoide (e quindi sessile, ossia attaccata al substrato) dei coralli, che, ricordiamolo, sono animali e appartengono al phylum degli Cnidaria, classe antozoa. Le loro strutture calcaree, create in migliaia di anni con la crescita della colonia, fanno da base per tutto l’ecosistema che si viene a formare attorno. I polipi dei coralli sono abitati da alghe unicellulari fotosintetizzanti della famiglia delle Zooxanthellae, con cui gli antozoi vivono in simbiosi: forniscono loro diossido di carbonio di scarto e da loro traggono gran parte dei nutrienti necessari al loro sostentamento.

Bent_Sea_Rod_Bleaching_(15011207807)

Sbiancamento di un corallo in Florida (Kelsey Roberts, USGS/Wikimedia Commons)

In situazioni di stress, di cui l’innalzamento della temperatura dell’acqua è l’esempio più lampante, le alghe simbionti vengono espulse dai polipi, causando così lo sbiancamento del corallo. Il colore della struttura calcarea dipende infatti dalle alghe e più è alta la loro concentrazione, più intenso è il colore. In seguito allo sbiancamento, i polipi dei coralli diventano trasparenti e quello che appare all’osservatore è la struttura calcarea sottostante. Le colonie diventano così più o meno grigie e, nei casi più estremi, del tutto bianche. Se la situazione ambientale ritorna alla normalità nel giro di pochi giorni, le alghe vengono di nuovo inglobate dai polipi e si ritorna così alla condizione originaria. Se invece il periodo di stress si prolunga le colonie sono destinate alla morte. Una volta scomparsi gli animali, gli scheletri calcarei della struttura si disgregano rapidamente ad opera del moto ondoso e degli animali che se ne nutrono, come gli scaridi, i pesci pappagallo. In breve tempo tutti i detriti generati dalla distruzione della colonia vanno a depositarsi sul fondo della piattaforma carbonatica, che è la struttura di base della barriera. Questa, se le condizioni torneranno favorevoli, farà da basamento per nuove colonie di madrepore. Le cause evolutive all’origine di questo fenomeno non sono del tutto chiare, ma una delle ipotesi più accreditate suggerisce che questo comportamento dei polipi si verifichi in risposta ai cambiamenti del livello delle acque, in modo che le colonie si accrescano e proliferino solo in condizioni ottimali di temperatura, profondità e illuminazione solare. Sta di fatto che il 2016 sembra destinato a diventare l’annus horribilis della Grande barriera australiana, e la causa è in buona parte l’innalzamento delle temperature globali causato dall’uomo.

Già così lo scenario appare piuttosto inquietante, sia perché dall’ecosistema della barriera dipendono migliaia di specie marine, sia perché le previsioni attuali sembrano far intuire che in futuro, almeno a livello di temperature, andrà sempre peggio e la sopravvivenza delle madrepore sarà sempre più a rischio, e non solo in Australia. Molti scienziati stanno cercando da tempo di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul problema e pare non siano mancate le polemiche: a un iniziale disinteresse da parte dell’UNESCO nell’inserire la Grande barriera corallina tra gli ambienti a rischio a causa dei cambiamenti climatici sono infatti seguite pressioni da parte del governo australiano per evitare che i drammatici risultati dello sbiancamento venissero resi pubblici dalla stessa organizzazione, forse per paura di ripercussioni sul turismo.

Bramble-cay-melomy

Melomys rubicola (Ian Bell, EHP, State of Queensland/Wikimedia Commons)

E purtroppo le cattive notizie non finiscono qui: è infatti di pochi giorni fa la notizia della prima estinzione documentata di un mammifero a causa del riscaldamento globale antropogenico. E l’ambiente era sempre quello delle barriere coralline: il piccolo roditore Melomys rubicola popolava infatti una piccola isola corallina chiamata Bramble Cay, che si trova a metà strada tra Nuova Guinea e Australia, nello Stretto di Torres. Evitiamo l’errore di considerare ambiente corallino soltanto quello che si trova al di sotto della linea delle acque: ci sono atolli, isole coralline (cays), lingue di terra che sono state originate dall’attività delle madrepore, hanno la stessa origine delle strutture sottomarine e sono ecosistemi ugualmente fragili. Il nostro topolino, chiamato in inglese Bramble Cay melomys o Mosaic-tailed rat, fu osservato sull’isola per l’ultima volta nel 2009, grazie alla testimonianza di un osservatore casuale, un pescatore. Dopo una lunga ricerca condotta nel 2014 (qui è possibile scaricare il report completo, con immagini dell’isola e degli ambienti che un tempo erano l’habitat naturale del roditore) in cui non è stata trovata traccia dell’animale, questo è stato dichiarato estinto. La causa della sua scomparsa è stato l’innalzamento del livello delle acque, che ha ridotto drammaticamente la porzione di isola non sommersa dall’alta marea (da 4 a 2,2 ettari) e, soprattutto, ha fatto quasi totalmente svanire la sua copertura vegetale: dai 2,2 ettari del 2004 ai ridicoli 0,065 ettari del 2014, ovvero il 97% in meno. Purtroppo la piccolissima cay corallina, lunga 340 e larga 150 metri, rappresentava la totalità del territorio dell’animale, che era di conseguenza uno dei mammiferi dall’areale meno esteso al mondo. Con la scomparsa pressoché totale del suo habitat naturale, per Melomys rubicola non c’è stata più speranza.

Purtroppo, pur trattandosi di un caso limite, la vicenda del piccolo roditore è significativa: al giorno d’oggi si stima che una specie su sei sia a rischio di estinzione a causa dei cambiamenti climatici, e gli ambienti corallini sono forse il caso più eclatante. Oltre al rischio per i polipi corallini dato dal riscaldamento delle acque, anche le strutture da loro originate corrono un grande pericolo a causa dell’innalzamento del livello marino: si stima che dal 1901 al 2010, a livello globale, questo si sia sollevato mediamente di 20 centimetri, un valore superiore a qualsiasi variazione registrata nei 6000 anni precedenti. Purtroppo gran parte di questi atolli e isole coralline si elevano di pochi metri dal livello del mare e quindi, oltre al rischio di scomparsa sotto le acque, anche l’infiltrazione di acqua salina nel sottosuolo può portare gravissimi danni alla vegetazione e ai terreni coltivati, con pesanti ripercussioni anche sull’uomo. L’arcipelago di Kiribati ad esempio, che si trova a nord-est dell’Australia e nel cuore del Pacifico meridionale, sta progressivamente svanendo a causa dell’innalzamento del livello delle acque. Questo evento sta causando la progressiva scomparsa delle riserve di acqua potabile e delle aree coltivabili che concorrono al sostentamento di circa centomila abitanti, che al giorno d’oggi non sanno dove andare nel caso la situazione diventasse insostenibile. Quindi non dimentichiamo mai che il riscaldamento globale è reale e non è qualcosa di preoccuparci soltanto in un futuro non meglio definito, tanto più che è causato anche dall’uomo e già oggi sta generando danni enormi. Danni che si dovranno fronteggiare con ogni mezzo per salvare alcuni tra gli ambienti più belli, affascinanti e fragili del nostro pianeta.

Abbiamo ancora bisogno degli zoo?

13 settembre 2011 Shanghai zoo 201

Un gorilla di pianura allo zoo di Shanghai

Se siete anche solo in parte interessati alle vicende della natura, quanto è successo alcuni giorni fa allo zoo di Cincinnati non vi è sicuramente sfuggito, così come il lunghissimo strascico di polemiche che ne è seguito: un bambino di 4 anni si è gettato nel recinto di un gorilla di pianura. L’animale, il diciassettenne Harambe, era un maschio adulto da sempre vissuto in cattività e inserito in un programma di captive breeding, con lo scopo di garantire un sufficiente pool genetico per la sopravvivenza della specie, sempre più a rischio e di difficile gestione nel suo habitat naturale. Il bambino, secondo quanto riportato da alcuni testimoni, aveva ripetutamente espresso il desiderio di raggiungere l’animale all’interno del recinto, e aveva avuto ben pochi problemi nello scavalcare il muretto di protezione per gettarsi nel fossato, profondo solo alcuni metri. Le reazioni del gorilla alla vista dell’inatteso ospite sono state poco decifrabili. Ha infatti alternato atteggiamenti difensivi e forse anche protettivi ad altri ben più violenti: a un certo punto ha afferrato il bambino per una gamba e lo ha trascinato a grande velocità nell’acqua che si trovava in mezzo al recinto per alcuni metri. Alla fine, dopo alcuni minuti di panico, è arrivata la decisione da parte dei responsabili su cosa fare: il gorilla è stato ucciso con un colpo di fucile e il bambino tratto in salvo quasi illeso, con solo alcune ferite superficiali. Le reazioni alla notizia sono arrivate da ogni parte, e non sono mancate le polemiche, a partire da tutti quelli che si sono domandati se non si sarebbe potuto operare diversamente, ad esempio allontanando tutti i curiosi e lasciando spazio solo ai responsabili dello zoo, che forse sarebbero riusciti a distrarre l’animale e a calmarlo. Oppure semplicemente sedandolo. In quest’ultimo caso, la scelta è stata spiegata dallo stesso direttore dello zoo, che ha fatto notare come un dardo con del sedativo non avrebbe agito immediatamente ma solo dopo alcuni minuti, e i quegli attimi le reazioni dell’animale, divenuto a questo punto ancora più spaventato e meno lucido, sarebbero state del tutto imprevedibili. Senza dimenticare la mole dell’animale, che sarebbe potuto collassare addosso al bambino.

E così, le iniziali polemiche su quanto accaduto sono cambiate nel giro di poche ore: inizialmente la diatriba riguardava la scelta di uccidere l’animale, ma in questo caso il pensiero dominante è stato quello di affermare che “se fosse capitato a mio figlio, non ci avrei pensato due volte”. A mio avviso, però, non bisogna mai fare in modo che scelte cruciali come questa vengano dettate dalla pancia: deve esistere un protocollo rigido, immutabile, che vada seguito alla lettera quando si presenta una situazione del genere, anche per poter operare le scelte giuste nel giro di pochi secondi. In ogni caso, lo stesso direttore dello zoo ha affermato che, se dovesse tornare indietro, avrebbe preso esattamente le stesse, dolorose, decisioni. Già a questo livello, l’operato degli addetti alla sicurezza dello zoo ha suscitato molte perplessità (a tal proposito, a questo indirizzo è possibile leggere i pareri su quanto accaduto di alcuni primatologi famosi, tra i quali spiccano Jane Goodall e Frans de Waal).

13 settembre 2011 Shanghai zoo 246

Successivamente le polemiche si sono orientate sui genitori, dato che hanno lasciato che il bambino sotto la loro responsabilità si arrampicasse sul muretto per buttarsi di sotto. Una sottoscrizione online, che ha raccolto centinaia di migliaia di firmatari nel giro di poche ore, ha espressamente richiesto alle autorità competenti di ritenere i genitori responsabili di quanto accaduto. Ma anche in questo caso le polemiche si sono presto attenuate: chi ha figli piccoli sa benissimo che basta un attimo di distrazione e questi possono scomparire alla vista o compiere le azioni più imprevedibili nel giro di pochi secondi. In ogni caso, le eventuali responsabilità dei genitori dovrebbero essere ancora sotto indagine, quindi è presto per dire che sono stati “assolti” da ogni coinvolgimento con quanto accaduto.

Superata anche questa fase, il pensiero comune si è orientato su un altro aspetto ancora, ovvero la struttura stessa dello zoo: ammesso (e non ancora concesso) che quanto accaduto sia stato un incidente causato da una ragazzata e da un attimo di distrazione dei genitori del bambino e che la scelta di uccidere Harambe sia stata giusta, come è possibile che tutto questo sia successo? Com’è possibile che una struttura di recinzione di un animale tre volte più grande e sei volte più forte di un uomo adulto sia scavalcabile da un bambino di quattro anni? Qualcosa non torna. A questo punto viene da chiedersi se il problema sia strutturale, e insito in un certo tipo di giardino zoologico, che forse nel 2016 non dovrebbe più esistere. E così, dopo la morte di Harambe sono sempre di più a chiedersi se ci sia effettivamente spazio per gli zoo nella società moderna.

A me personalmente è capitato e capita tuttora di visitare parecchi zoo, lo confesso. Se per vari motivi vengo a trovarmi in una città con un giardino zoologico, non escludo che una delle mie mete turistiche sia proprio quello. Non ne vado particolarmente fiero, ma in certi casi è la curiosità a prevalere sul giudizio di merito di quella che è una struttura del genere, e che non mi piace particolarmente, come si può facilmente intuire da quanto scrivo su questo blog. Li ho visitati e li visito per il semplice motivo che, pur amando viaggiare, la quantità di esemplari di animali esotici che si possono vedere in un giro di poche ore è talmente superiore a quello che si potrebbe osservare in sei mesi di esplorazioni intorno al mondo da giustificare una visita in una struttura in cui gli animali vengono tenuti prigionieri e, spesso e volentieri, non possono condurre un’esistenza equivalente a quella che avrebbero nel loro ambiente naturale: per osservare dal vivo un aye-aye bisogna esplorare di notte la foresta pluviale malgascia ed avere un’enorme fortuna; per vedere un orango bisogna avventurarsi nella giungla del Borneo, per un leone o un elefante la savana africana, e non tutti possono permetterselo. Quindi è anche lecito pensare che uno zoo non sia una struttura destinata unicamente ai bambini, ma anche a tanti adulti curiosi e appassionati di natura che non possono permettersi grosse trasferte. Questo giustifica l’esistenza di un luogo dove gli animali vengono tenuti prigionieri? Presumibilmente no, visto che molti di questi si trovano in condizioni inaccettabili, tra spazi troppo piccoli e inadatti, clima diverso da quello dei loro habitat originari, nessuna attività destinata a “tenere occupati” gli esemplari. Un grande felino come un leopardo o un ghepardo non potrà mai trovarsi a proprio agio in pochi metri quadrati di gabbia, un orango, un gorilla o uno scimpanzé ha una complessità comportamentale tale da rendere inaccettabile una sua reclusione in un fossato. In Cina, nello zoo di Shanghai, mi è capitato di vedere tutto un settore del parco dedicato ai cani (!), che venivano tenuti in gabbie dalle dimensioni e condizioni igieniche assolutamente inaccettabili, ben peggio di quelle di un canile italiano (che pure spesso non brillano per rispetto dei bisogni minimi dei quattro zampe).

Qualche notevole passo in avanti è stato compiuto a partire dal Jersey Zoo (oggi Durrell Wildlife Conservation Park) del grande Gerald Durrell, dove agli animali sono stati dedicati spazi ben studiati alle loro necessità e attività di vario genere per tenerli impegnati. L’esperienza di vita di Durrell ha avuto un forte ruolo in tal senso: la sua carriera è infatti iniziata come assistente in negozi di animali e giardini zoologici prima, nella raccolta di esemplari da rivendere agli zoo dopo. E tutte le conoscenze accumulate negli anni lo hanno aiutato a creare una struttura di gran lunga più adatta a garantire il benessere degli animali, quantomeno rispetto a quanto esisteva prima del Jersey Zoo. Anche gli attuali bioparchi rappresentano sicuramente un miglioramento, per quanto riguarda il benessere degli animali, sia per gli spazi più ampi sia per il trattamento riservato agli “ospiti”. Anche se spesso, va detto, il confine tra “bioparco” e “zoo” è molto labile e non sempre distinguibile.

13 settembre 2011 Shanghai zoo 218

Beninteso, uno zoo non è solo un luogo dove gli animali vengono esposti per il pubblico pagante: molti di loro partecipano attivamente a programmi di reintroduzione di specie in pericolo o estinte in natura. Lo stesso Harambe, come detto prima, faceva parte di uno di questi progetti. Enormi sono i problemi che chi si occupa di conservazione della fauna africana deve affrontare ogni giorno: instabilità economica e politica che spesso fa il gioco dei bracconieri, coltivazioni e deforestazioni (non sempre legali) che sottraggono ogni anno terreno agli habitat naturali di specie come il gorilla, giusto per fare due esempi. Un punto fondamentale da capire è che, se anche la vita di un bambino è inestimabile, di certo anche quella di un maschio adulto di gorilla di pianura ha un altissimo valore. In quest’ottica, ben vengano anche gli zoo, seppure non siano una soluzione ottimale: grazie agli introiti forniti dai visitatori riescono a sopravvivere spesso indipendentemente da quelle raccolte fondi con cui invece si sostengono i progetti di conservazione tout-court, e anche storicamente molte specie sono state recuperate a un passo dall’estinzione grazie proprio agli esemplari conservati negli zoo. Anche in questo senso, il Jersey Zoo è stato all’avanguardia in questo nuovo modo di intendere i giardini zoologici. Ma probabilmente, alla luce dei fatti di Cincinnati, questo ormai non basta più per giustificare la loro esistenza.

Vediamo il caso del gorilla. Non tutti sanno che ci sono stati due precedenti: uno proprio a Jersey nel 1986, in cui un bambino cadde all’interno del recinto degli animali e perse conoscenza. Il maschio dominante, Jambo, allontanò gli altri animali e accarezzò la schiena del bambino, il cinquenne Levan Merritt, forse per controllare che fosse ancora vivo. Ben presto si allontanò anche lui, lasciando via libera ai soccorsi. Nel 1996 a Chicago, in un altro evento simile, fu una femmina a proteggere lo sfortunato bimbo di turno e, addirittura, si prodigò ad accompagnarlo verso i paramedici. Questo, oltre alla lunga esperienza sul campo di scienziati come Dian Fossey, che ha convissuto pacificamente con i gorilla nel loro stesso ambiente naturale, ci fanno ragionevolmente pensare che forse anche a Cincinnati al bambino finito nel fossato non sarebbe capitato nulla di grave. L’indole del gorilla è pacifica, e la poca aggressività che ogni tanto si può riscontrare si osserva generalmente da parte dei maschi adulti, i silverback, in risposta a minacce al loro gruppo familiare. E, anche con le dovute differenze, sembra che anche per gli animali tenuti in cattività si possa fare un discorso equivalente. Ma il punto è un altro, ed è rendersi conto che una struttura contenente un animale potenzialmente pericoloso come un gorilla non dovrebbe essere in alcun modo raggiungibile da un bambino di pochi anni. Nelle mie svariate visite a giardini zoologici mi è capitato sia di vedere strutture del tutto chiuse destinate ai gorilla, in cui i visitatori potevano osservare gli animali solo attraverso un vetro, e altre con fossato di qualche metro di profondità e muretto difensivo, come a Cincinnati. Ecco, mi sembra ragionevole supporre che in futuro strutture di quest’ultimo tipo non si dovrebbero vedere più, per evitare ulteriori incidenti.

Problemi strutturali quindi, ma non solo. Anche le specie che vengono tenute all’interno dello zoo dovrebbero iniziare a essere selezionate meglio, persino a discapito del pubblico pagante. Come detto prima, animali che vivono in enormi spazi aperti come i grandi felini africani non dovrebbero più esserne ospiti, a meno di non creare aree talmente grandi da poterli contenere evitando loro il tipico stress da reclusione, che li colpisce molto spesso e si sviluppa in comportamenti aggressivi e gesti ripetuti ciclicamente, in maniera parossistica, rivelando gravi stati di malessere e disagio. Questa, però, mi sembra una soluzione altamente improbabile. Idem come sopra per animali dalla personalità articolata, come i gorilla stessi e più in generale le scimmie antropomorfe, ma, perché no, anche gli elefanti e molti altri animali dal comportamento particolarmente complesso (i delfini nei parchi acquatici?). La mia impressione personale è che animali così intelligenti ben difficilmente possano reagire bene a una reclusione. Si tratta proprio di buon senso, prima ancora che di etologia. Certo, allo stesso modo ci sono altri animali che possono vivere benissimo e felicemente in pochi metri quadrati di spazio vitale, ad esempio gli animali “da terrario” quali sono i ragni e molte specie di rettili. Ovviamente in questi casi si perde tantissima spettacolarità e probabilmente la proposta commerciale degli zoo ne risentirebbe pesantemente, dato che ben sappiamo quali sono gli animali che i bambini amano vedere: leoni, scimmie ed elefanti, non certo iguane e tarantole (anche se non vanno sottovalutate neppure queste). Di certo sapere che animali di questo genere si trovino in condizioni inadatte al loro benessere potrebbe influire sulla futura sensibilità del pubblico, ma è una strada decisamente in salita. Non intendo addentrarmi ulteriormente nel dettaglio di questo argomento, dato che sul benessere degli animali in cattività si sono spesi fiumi di inchiostro e migliaia di ore di ricerca e di sicuro, andando a vedere i singoli casi, esistono molte più sfumature di quante ne possa affrontare qui in poche righe.

Mi sembra comunque lecito auspicare un futuro diverso per i giardini zoologici sparsi in giro per il mondo, dato che i tempi sono sicuramente maturi per superare un format di divertimento per le masse che troppo spesso si rivela inadeguato e obsoleto. Forse il punto non sarà rinunciare a far parte del mercato, ma sviluppare una struttura, comunque in esso inserita, che possa superare, almeno in parte, una visione antropocentrica che danneggia gli animali e sa un po’ troppo di Ottocento. E a guadagnarci non saranno soltanto gli esemplari custoditi ma anche il pubblico, che così potrà vedere qualcosa che somiglia un po’ meno vagamente a un animale felice.

L’estinzione dei Dinosauri – L’ipotesi impatto extraterrestre

image

Il tramonto dei Dinosauri, opera di Julian Baum

L’evento cataclismico che condusse all’estinzione di massa della fine del Cretaceo, all’incirca 65 milioni di anni fa, lasciò via libera al successo evolutivo dei Mammiferi sul pianeta a discapito di quelli che al tempo erano i dominatori della Terra, i Dinosauri. Le sue origini sono però ancora fonte di accesi dibattiti presso la comunità scientifica. Questo perché i dati risalenti all’epoca sono ovviamente frammentari, sia per quanto riguarda le scarse testimonianze fossili sia per la difficoltà di interpretazione degli strati geologici risalenti al periodo in cui tale estinzione è avvenuta.

Ciononostante, le principali linee seguite dalla ricerca optano verso le due uniche possibilità ritenute effettivamente credibili, ovvero l’impatto di un corpo extraterrestre (una cometa o un asteroide), o una lunga serie di violente eruzioni vulcaniche. In entrambi i casi, tali eventi avrebbero portato profonde e radicali modificazioni climatiche e ambientali sul pianeta, in tempi troppo brevi per permettere agli animali più sfavoriti da queste di riadattarsi almeno ad un livello che garantisse la sopravvivenza delle specie.

Tali modificazioni avrebbero presumibilmente causato un lungo oscuramento della luce solare su tutto il globo, al punto da bloccare la fotosintesi e mettere in crisi l’intera catena alimentare, oltre a creare un lungo ‘inverno nucleare’ con forti abbassamenti delle temperature, e un successivo periodo di forte riscaldamento in cui, a causa degli effetti di tale evento, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera si sarebbe notevolmente innalzata, causando un effetto serra su scala globale. Gli organismi pertanto sopravvissuti al primo periodo freddo avrebbero poi dovuto affrontare un lungo intervallo di tempo con temperature eccezionali su tutto il pianeta.

In aggiunta alle modificazioni termiche, l’aumento di CO2 nell’atmosfera avrebbe causato piogge acide diffuse, e questo spiegherebbe la successiva scomparsa di numerosi gruppi tassonomici marini come ad esempio le Ammoniti, i cui gusci carbonatici erano solubili nelle acque acide. Non si esclude inoltre la diffusione su scala globale di vasti incendi che avrebbero causato la distruzione di circa metà delle foreste presenti sul globo: una notevole presenza di fuliggine negli strati geologici dell’epoca potrebbe confermare tale ipotesi. Questa sarebbe stata causata della ricaduta di lapilli nel caso di lunghe eruzioni, o di frammenti incandescenti nel caso di un impatto meteoritico.

In poche parole, una catastrofe su scala globale, che avrebbe favorito soltanto le specie in grado di adattarsi in tempi sufficientemente brevi e di sopravvivere a condizioni ambientali estreme: ciò andrebbe oltretutto a supporto della teoria degli equilibri puntiformi di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, secondo cui la storia dell’evoluzione della vita sulla Terra non avrebbe sempre premiato le specie più adattate, ma quelle più capaci di resistere a quegli eventi cataclismici che hanno portato alle estinzioni di massa: per molti versi, le più fortunate.

Nei primi anni ‘80 Walter Alvarez insieme a suo padre Luis per primo portò agli occhi della comunità scientifica l’ipotesi dell’impatto extraterrestre, e lo fece adducendo una lunga lista di dati scientifici a favore alla sua teoria: per prima cosa, studiando lo strato geologico KT (da Kreide, Cretaceo in tedesco e Terziario, l’epoca geologica successiva), ossia quello interessato dagli eventi immediatamente precedenti e immediatamente successivi all’evento catastrofico, venne scoperta, in ogni parte del mondo in cui tale strato venne studiato, un’anomala abbondanza dell’elemento Iridio, componente estremamente raro sulla crosta terrestre, in concentrazioni e rapporti con gli altri elementi presenti molto simili a quelli rinvenuti sulle meteoriti litoidi risalenti a quell’epoca geologica.

Uno dei siti di ricerca più importanti a livello mondiale riguardante queste ricerche è situato a Gubbio, in Italia, dove uno strato argilloso di circa 2 cm di spessore delimita chiaramente il KT, differenziandosi completamente, anche dal punto visivo, dagli strati calcarei soprastanti e sottostanti. La caduta di un meteorite, di circa 10 km di diametro e alla velocità stimata di 10 Km/sec, avrebbe causato la formazione di un cratere di circa 150 Km di diametro, e l’impatto avrebbe riversato nell’atmosfera tali quantità di materiale proveniente dal corpo extraterrestre da permetterne una sua diffusione negli strati alti dell’atmosfera, e una ricaduta di questo sotto forma di precipitazioni su tutto il globo.

Altra prova a favore di questa ipotesi è la presenza, negli strati geologici interessati dall’evento, di granuli di quarzo con deformazioni laminari dovute a shock da ipervelocità; questi tipi di strutture sono reperibili solo in siti di esplosioni nucleari, o in prossimità di crateri da impatto meteorico, e possono essere ricreate in laboratorio sottoponendo granuli di quarzo della crosta terrestre a fortissime pressioni e temperature.

image

Granulo di quarzo con deformazioni laminari dovute a shock da ipervelocità

La prova schiacciante, definitiva a favore di tale teoria sarebbe però il rinvenimento del cratere da impatto che avrebbe causato la catastrofica estinzione, e questo non è mai stato trovato, pur ricercandolo su ogni parte del globo. Un’area della penisola dello Yucatan in Messico alcuni anni orsono è stata indicata come uno dei possibili luoghi dell’impatto, ma le testimonianze fossili non hanno mai confermato tale ipotesi. Non va però esclusa la cancellazione del cratere in seguito all’erosione superficiale di 65 milioni di anni, o alla sua scomparsa, sprofondato con quel 25% della crosta terrestre presente alla fine del Cretaceo che è stato ‘inghiottito’ per subduzione.

Non è stata esclusa, soprattutto negli ultimi anni, la possibilità di un impatto multiplo di più corpi, o addirittura una pioggia meteorica. In effetti sono presenti sulla superficie terrestre alcuni crateri doppi, dovuti pertanto a impatti multipli. Inoltre il corpo centrale di una cometa avrebbe potuto disgregarsi in più parti per l’attrito con l’atmosfera terrestre, essendo composto in gran parte di ghiaccio.

E’ interessante anche la teoria secondo cui una stella compagna del Sole, denominata  Nemesis, nel suo periodo di rotazione attorno alla stella principale si ripresenterebbe in prossimità del sistema solare ogni circa 32 milioni di anni, portando ripetute piogge meteoritiche di proporzioni catastrofiche e conseguenti estinzioni di massa. Le prove fossili sembrano dare supporto a tale teoria, sebbene la stella stessa non sia mai stata rinvenuta dagli astronomi.

L’intervallo di tempo entro cui questa tragedia si sarebbe compiuta è uno dei principali pomi della discordia: la teoria dell’impatto supporrebbe un tempo relativamente breve (di circa 1000 anni) in cui l’estinzione di massa avrebbe avuto luogo – e parte delle testimonianze fossili sembrano confermare tale possibilità – mentre per la teoria di un vulcanismo diffuso i tempi in cui le modificazioni ambientali avrebbero portato alla scomparsa di Dinosauri, Ammoniti e compagni di sventura sarebbero ben più lunghi, nell’ordine del mezzo milione di anni.

Entrambe le parti sono tuttora impegnate nella ricerca di prove inconfutabili a sostegno della propria teoria, e la durata del periodo di tempo interessato dall’estinzione di massa è ancora oggi uno dei punti focali del dibattito. Nei primi anni ‘80, periodo in cui le tensioni USA-URSS erano ancora marcate e gli Stati Uniti avevano in progetto di realizzazione uno ‘scudo spaziale’ di protezione da eventuali attacchi d’oltre cortina, la nuova ipotesi dell’impatto extraterrestre ebbe un grande successo tra il pubblico e la stampa come ulteriore supporto a tale progetto di difesa (non si sa bene su quali basi), e i finanziamenti per la ricerca aumentarono, così come l’impegno degli scienziati nella ricerca di una prova definitiva a supporto di questa ipotesi.

La teoria dell’impatto extraterrestre rimane tuttora l’ipotesi più diffusa e più conosciuta, sebbene non l’unica e non necessariamente la più supportata da prove scientifiche; è curioso notare comunque che – vuoi per la sindrome da ‘Jurassic Park’, che ha sempre cercato di spettacolarizzare al massimo la ricerca nel campo, vuoi per le particolari condizioni socio-politiche in cui venne ipotizzata – essa rimanga per il grande pubblico l’unica possibile causa della scomparsa dei Dinosauri. Potenza dei media…

image

Punti del globo in cui in corrispondenza dello strato KT sono state trovate anomalie nei livelli di Iridio e granuli di quarzo deformati per ipervelocità

L’estinzione dei Dinosauri – L’ipotesi vulcanismo

Secondo recenti scoperte paleontologiche, le tracce fossili a noi giunte sembrano rivelare una nuova realtà riguardo all’estinzione di massa che, al termine dell’era geologica del Cretaceo, circa 65 milioni di anni fa, colpì alcuni dei maggiori gruppi animali che popolavano la terra, tra cui i Dinosauri e le Ammoniti; secondo tali scoperte, il periodo in cui avvenne questa autentica ecatombe fu molto più lungo di quanto si era finora stimato. Se, difatti, con la teoria degli Alvarez dell’impatto extraterrestre si supponeva un evento perdurato all’incirca un migliaio di anni, periodo quasi istantaneo se paragonato alla storia geologica del pianeta, tracce fossili e studi geologici e stratigrafici sembrano dimostrare che per molti gruppi tassonomici il declino prima della scomparsa sia stato ben più lungo, di decine o anche centinaia di migliaia di anni.

Non solo: le stesse prove volte a sottolineare l’immediatezza di tale evento, come lo strato KT, che segna il limite tra Cretaceo e Terziario, caratterizzato dall’innaturale concentrazione di Iridio tipica delle meteoriti, sembra essersi depositato in tempi ben più lunghi di quanto ipotizzato finora. Tali scoperte sembrano dare maggiore credito all’altra teoria che cerca di spiegare le cause dell’evento catastrofico del Cretaceo, ovvero l’ipotesi del vulcanismo. Una lunga serie di violentissime eruzioni si sarebbe protratta per migliaia di anni, causando un’enorme immissione di polveri nell’atmosfera, e generando un ‘inverno nucleare’, così come stimato per l’ipotesi di un impatto meteorico, con gli stessi drammatici effetti sulle forme di vita del pianeta.

A sottolineare questi aspetti vi è anche il fatto che, dallo studio di numerose eruzioni vulcaniche, tra cui il vulcano Kilauea delle isole Hawaii, i prodotti gassosi e il materiale piroclastico espulso sembra presentare alte concentrazioni di Iridio, ben più alte di quanto normalmente presente sulla crosta terrestre, e in rapporti con gli altri componenti analoghi a quelli del livello KT. L’attività di alcuni vulcani, come quelli hawaiani, è legata alla presenza di pennacchi o ‘punti caldi’ (hot spots), che sembrano aver avuto difatti un ruolo importante nella storia evolutiva del pianeta. Un hot spot è una zona di risalita di materiale magmatico proveniente da altissime profondità, dal punto di incontro tra mantello inferiore e nucleo, e, sostanzialmente, nel corso della storia geologica, non cambia la sua posizione in base ai movimenti della crosta, avendo origini molto più profonde. Questo comportamento si differenzia da tutti gli altri fenomeni vulcanici, aventi origini molto meno profonde e strettamente legate all’attività della litosfera.

Un punto caldo lascia traccia di sé sulla crosta terrestre; ne è proprio un classico esempio l’arcipelago delle Hawaii, in cui si possono vedere tutta una serie di vulcani, sepre più antichi via via che ci si allontana dall’hot spot: questa è una ‘traccia’ evidente del movimento che ha avuto la crosta terrestre nel corso di milioni di anni, che ha registrato l’attività del punto caldo sotto forma di edifici vulcanici. Una situazione analoga si può osservare in corrispondenza del punto caldo attualmente presente sotto l’isola di Reuniòn, nell’oceano Indiano, in prossimità del Madagascar e in corrispondenza del vulcano Piton de la Fournaise: tutta una lunga serie di isole vulcaniche, o di vulcani sommersi, sempre più antica man mano che ci si allontana verso nord, si presenta allineata fino all’India, dove è presente un’imponente formazione basaltica di origine vulcanica, i Trappi del Deccan.

image

I Trappi del Deccan

Questa è la più antica formazione legata all’attività del pennacchio di mantello che avrebbe generato l’hot spot e ha dimensioni imponenti: ricopre difatti un’area di circa 10.000 Km², ha un volume che supera i 10.000 Km³, lo spessore delle singole colate varia mediamente dai 10 ai 50 metri, con punte di 150 metri, e in determinate zone dell’India nordoccidentale la coltre lavica raggiunge uno spessore totale di oltre 2400 metri. Pertanto tale formazione deve per forza essere stata associata a una importantissima serie di attività vulcaniche nella storia della Terra.

Fino alla fine degli anni ‘80 si stimava che tali formazioni avessero un’età variabile tra gli 80 e i 30 milioni di anni, ma studi più recenti compiuti studiando i cristalli lavici, i quali una volta raffreddatisi rivelano l’orientamento dei poli magnetici (che si invertono regolarmente) presente al momento della loro formazione, hanno dimostrato che questi risalgono proprio al periodo KT, e hanno un’età approssimativa di circa 500.000 anni. Questa sembrerebbe un’importantissima prova a favore della teoria del vulcanismo, se non altro perché un evento di tale portata in ogni caso avrebbe dovuto influire sull’evoluzione biologica del pianeta, apportando cambiamenti sensibili a livello climatico e di composizione atmosferica. In aggiunta a questo, sembra che la presenza di ciascuno di questi ‘trappi’ di grande estensione sia direttamente correlata a tutte le grandi estinzioni di massa finora verificatesi sul pianeta Terra: ad esempio un’immensa formazione di questo tipo presente in Siberia ha un’età stimata di 250 milioni di anni, e si sarebbe formata proprio in occasione della più grande estinzione di massa mai registrata sul pianeta.

image

Le principali province basaltiche terrestri, associate ai rispettivi hot spots

In aggiunta a questi aspetti, sembra ormai dimostrato che la formazione di granuli di quarzo

image

con laminazioni dovute a stress da ipervelocità non avvenga soltanto nel caso di cadute di meteoriti, ma anche nel caso di eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo. Lo conferma il fatto che queste vengono trovate anche in zone sottoposte a test nucleari, associate pertanto a fortissimi eventi esplosivi. Insomma, negli ultimi anni i sostenitori della teoria dell’estinzione dei Dinosauri dovuta a un prolungato periodo di forte attività vulcanica sembrano aver acquisito prove importanti a suo favore, soprattutto grazie alla datazione dei Trappi del Deccan, che fornirebbe il vero e proprio ‘luogo del delitto’, che per i sostenitori dell’impatto extraterrestre manca ancora: difatti non è stato tuttora trovato uno o più crateri meteorici associabili all’ipotizzato evento di impatto extraterrestre.

Ciononostante, il dibattito continua, soprattutto perché le risposte certe in questi casi sono difficili da ottenere, sia per la rarità delle testimonianze fossili, sia perché i metodi di datazione degli strati geologici sono ancora molto perfezionabili e lasciano tuttora un amplissimo margine di errore. Noi ci accontentiamo di seguire gli sviluppi di questa affascinante ricerca, fiduciosi del fatto che in tempi brevi, visti gli enormi progressi degli ultimi anni, si possa giungere a una risposta certa su chi sia il colpevole della scomparsa dei Dinosauri dalla Terra.

image

-Signori, la situazione sta precipitando… il clima è cambiato, i Mammiferi ci incalzano e noi abbiamo un cervello troppo piccolo per questi grandi problemi… (Illustrazione di Gary Larson)