L’8 marzo e Mary Anning

Mary Anning (1799-1847)

E insomma, ogni 8 marzo si discute sempre molto, ma poi alla realtà dei fatti le cose non cambiano mai, o cambiano con una lentezza esasperante.

Quando mi chiedono come mai ho dedicato la prima sezione di “A cosa pensava Darwin?” a un gruppo di scienziate, la risposta è sempre quella: perché se lo sono meritato. Perché per ottenere lo stesso risultato, lo stesso prestigio, la stessa notorietà degli scienziati uomini hanno dovuto faticare di più, affrontando più avversità, dovendo spesso combattere anche la semplice indifferenza. E il tutto a parità di competenze e dedizione.

Ma il caso di Mary Anning è forse ancora più eclatante. Chi è appassionato di cose di scienza conosce già la sua storia, per tutti gli altri faccio un brevissimo riassunto.

Mary Anning vive a Lyme Regis, nel sud dell’Inghilterra, nelle prime decadi del XIX Secolo. Nasce in una famiglia di umili origini, figlia di un carpentiere che muore quando lei ha solo 11 anni. Per buona parte della sua vita è costretta a fronteggiare gravi difficoltà economiche. Di dieci fratelli, lei è l’unica a sopravvivere insieme a Joseph, suo fratello minore. Gli altri muoiono tutti prima di raggiungere l’età adulta.

Lyme Regis è una località costiera che attira turisti dall’entroterra. Gli strati rocciosi che si affacciano sulla scogliera nascondono piccoli tesori, provenienti da un lontano passato. E infatti l’attività di Mary è quella di raccogliere, ripulire e rivendere ai turisti i fossili più belli. La passione le è stata tramandata dal papà, che accompagnava, quando ancora era bambina, a caccia di quei reperti che avrebbero garantito un piccolo reddito extra alla famiglia.

William Buckland (1784-1856)

Mary sviluppa con gli anni un enorme talento nella paleontologia e diventa una piccola celebrità, così come il suo negozietto di fossili a Lyme Regis. Quando Joseph scopre i resti di un gigantesco ittiosauro, un rettile marino vissuto ai tempi dei dinosauri, è Mary a pulire, preparare ed esporre al pubblico il meraviglioso ritrovamento, che attrae scienziati e curiosi da ogni angolo dell’Inghilterra. Stringe una forte amicizia con lo scienziato William Buckand, geologo e uomo di chiesa, che si rivolge spesso a lei per chiederle a quale animale del passato appartenga questa vertebra o quella costola. Ben presto gli scienziati più noti del paese fanno riferimento a Mary per il riconoscimento o la preparazione di fossili. E tra questi anche il giovane Richard Owen, che diventerà il deus ex machina del Museo di Storia Naturale di Londra e lo scienziato politicamente più potente della nazione.

Ciononostante, Mary muore di malattia a neanche cinquant’anni, nella miseria che l’ha accompagnata per buona parte della vita. Questo perché, senza giri di parole, era una donna, per giunta di umili origini. E in quegli anni alle donne non era permesso accedere ai salotti scientifici. Non vedrete mai un articolo scientifico a nome suo, non una specie fossile la cui scoperta si possa attribuire a lei.

E questo nonostante una discreta notorietà (parlò di lei anche Charles Dickens), e la stima e il rispetto di tutta la comunità scientifica. Non sono bastati libri, documentari, persino film ispirati a Mary Anning per vedere riconosciuto il suo talento scientifico. Se sentite parlare di coproliti, le feci fossili (sì esatto, cacche fossili), vedrete che il primo a parlarne fu Buckland. Ma il merito della scoperta fu di Mary, non del suo amico scienziato. Fu lei a fargli notare in che parte del corpo si trovavano solitamente quei resti, qual era la loro natura e la loro importanza nel far capire comportamento e alimentazione degli animali del passato. Ma se oggi si parla di coproliti, sembra che a scoprirli fu Buckland. Il perché lo sapete.

Coprolite

Se vogliamo parlare di riconoscimenti scientifici, in vita Mary Anning non ne ricevette uno. Di postumo ci fu un premio, da parte della Royal Society, che la identificò come una delle dieci donne inglesi che maggiormente contribuirono al progresso della scienza. Questo venne assegnato nel 2010, ossia 163 anni dopo la sua morte. Centosessantatré. Ecco, se i tempi di attesa sono questi, forse non è cambiato molto nel modo in cui le donne vengono trattate nel mondo scientifico (e non solo) dai tempi della regina Vittoria. E magari è arrivato il momento di fare le cose un po’ più alla svelta.

Dinosauro sì, dinosauro no

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Allosauro (Domser/Wikimedia Commons)

Poche certezze ci sono ancora rimaste nella vita, ma una di queste è sicuramente il nostro amore indiscusso per i dinosauri. E sì che in questi ultimi anni i paleontologi, con il loro maledetto zelo, ci hanno provato in tutti i modi a farci abbandonare questa passione: ad esempio ricoprendo i nostri animali preferiti di penne multicolori e così togliendo loro gran parte di quel fascino ancestrale di bestie feroci e temibili che avevano fino a pochi anni fa. E non è finita qui, perché il vostro dinosauro preferito di quando eravate bambini potrebbe, in effetti, non essere affatto un dinosauro.

Molto semplicemente, non tutti i grandi rettili estinti sono dinosauri. E già così si potrebbe risolvere la questione. Ma forse è meglio chiarire per bene che cos’è un dinosauro, o almeno quali sono i suoi tratti salienti, dato che in molti li ignorano.

Innanzitutto, il periodo di tempo in cui sono esistiti: si stima che i dinosauri siano comparsi durante il Triassico superiore, quindi circa 230 milioni di anni fa e che, come ben sappiamo, siano scomparsi intorno a 65 milioni di anni fa, a causa di quell’evento cataclismico che sconvolse la Terra alla fine del Cretaceo. E già qui i più ferrati capiranno che almeno un animale che spesso viene ascritto ai dinosauri in realtà sia ben distante da loro e anzi sia più vicino, a livello di parentela, a noi mammiferi: il dimetrodonte. Forse il nome non a tutti ricorda qualcosa, ma se vedete una sua immagine capirete benissimo di chi stiamo parlando: quella vela sul dorso e quell’aspetto vagamente rassomigliante a un’iguana ci è sicuramente familiare, avendolo visto in decine di libri e documentari.

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Dimetrodonte (Dmitry Bogdanov/Wikimedia Commons)

Ebbene, il buon dimetrodonte visse sulla Terra nel Permiano inferiore, quindi 280-265 milioni di anni fa circa: molto prima dei dinosauri. E quella vela sulla schiena, presumibilmente usata per la termoregolazione, ci dovrebbe in qualche modo far pensare proprio al sangue caldo, che è caratteristica tipica dei mammiferi ma non dei rettili odierni. Il dimetrodonte infatti appartiene alla linea evolutiva che ha portato ai mammiferi attuali.

Ma anche l’anatomia è un elemento importantissimo per distinguere i dinosauri dagli altri gruppi tassonomici di rettili estinti. In particolare le nostre lucertole terribili, come le aveva battezzate Richard Owen nel 1842, in realtà lucertole non erano affatto: la conformazione dell’anca nei dinosauri consentiva loro di mantenere le gambe al di sotto del resto del corpo e non a lato, come invece avveniva e avviene tuttora per i sauri. Quindi già con un rapido colpo d’occhio possiamo fare le prime distinzioni e applicarle, ancora una volta, al nostro amato dimetrodonte che in effetti teneva le zampe di lato.

Se poi ci concentriamo sulle caratteristiche dello scheletro altre differenze saltano agli occhi e la prima, la più importante a livello di classificazione, si può trovare nel cranio: i dinosauri erano rettili diapsidi, quindi con due fori presenti su ogni lato della testa per permettere l’attacco di muscoli della mascella grandi e particolarmente potenti. Molti altri rettili e gli attuali mammiferi sono invece sinapsidi, quindi con una sola apertura: nel cranio dell’uomo è poco dietro l’aggancio tra mandibola e mascella.

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Cranio di diapside (Preto/Wikimedia Commons)

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Cranio di sinapside (Preto/Wikimedia Commons)

Evitiamo di addentrarci ulteriormente nel dettaglio anatomico per concentrarci invece sull’ambiente di vita. E qui salta fuori l’ennesimo colpo di scena: tutti i dinosauri vivevano sulla terraferma, nessuno escluso. Quindi, molto semplicemente, non sono esistiti dinosauri marini e quel celebre ittiosauro, che fu tra i primi oggetti di studio del buon Gideon Mantell, non era affatto un dinosauro. Idem come sopra per gli altrettanto celebri plesiosauri che qualcuno ha associato, con molta fantasia, al mostro di Loch Ness dei giorni nostri.

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Californosaurus perrini, un ittiosauro nordamericano (Nobu Tamura/Wikimedia Commons)

Si trattava di linee filetiche a sé stanti che hanno convissuto per un certo periodo con i dinosauri e che, in alcuni casi, ne hanno condiviso la sorte. Ma la grande estinzione di fine Cretaceo, come ben sappiamo, ha spazzato via molti più gruppi di animali dei soli dinosauri. E forse anche la concorrenza diretta, in altri casi, li ha fatti scomparire: gli ittiosauri ad esempio si sono estinti ben prima e probabilmente proprio per essere entrati in conflitto diretto con plesiosauri e simili.

So già a cosa state pensando adesso: e allora, tutti quei grandi rettili alati, lo pterodattilo, lo pteranodonte? Neppure loro erano dinosauri? Ebbene no, anche se si trattava effettivamente di rettili diapsidi e per di più vissuti nel periodo storico “giusto”. Presumibilmente non erano neanche lontanissimi a livello di parentela, ma non erano dinosauri neanche loro. Neppure il mastodontico Quetzalcoatlus, con i suoi maestosi 12 metri di apertura alare che lo resero il più grande essere vivente in grado di solcare i cieli e che ancora adesso smuove la nostra fantasia. Ma in questo caso il punto cruciale da tenere bene a mente è molto, molto semplice, ed è quello con cui abbiamo cominciato il nostro discorso: “grande rettile estinto” non significa automaticamente “dinosauro”.

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Arambourgiania, Nyctosaurus e Quetzalcoatlus (Manedwolf/Wikimedia Commons)

Tutti questi aspetti poco conosciuti dal grande pubblico devono farci riflettere su molte cose: innanzitutto su quanto varia e insolita sia stata la vita sulla terra nei milioni, o meglio miliardi, di anni trascorsi dalla sua comparsa, ma soprattutto sul non fissarci troppo su una sua visione eccessivamente legata alla fiction, sia essa film, tv, fumetti, merchandising o quant’altro: per chi vi vende un giocattolo o un film può essere necessario associare le bestie terribili che rappresentano a un nome ben chiaro e identificabile (e che per giunta fa vendere bene), ma per chi questi animali li studia la faccenda è ben diversa. Soprattutto non illudiamoci che la scienza, e in particolare una sua branca particolarmente complessa come la paleontologia, possa in qualche modo venire incontro alle necessità commerciali di film o racconti.

Ovviamente questi sono solo alcuni brevi spunti di riflessione. Se volete un approfondimento ben fatto, vi suggerisco di leggere questo ottimo articolo su Earth Archives, scritto da Franz Anthony. Vi suggerisco anche di supportare il lavoro dell’illustratore “preistorico” Julio Lacerda (qui trovate la sua pagina facebook, mentre qui il suo blog), dato che è davvero di altissimo livello. Se volete fare bella figura alle cene poi, ricordatevi che in realtà i dinosauri non si sono estinti, ma ci stanno volando sopra la testa: gli uccelli derivano infatti da una linea filetica di dinosauri teropodi.

Se invece volete sbizzarrirvi e andare a conoscere nel dettaglio tutti – o quasi – i fossili attualmente conosciuti, il sito Paleobiology Database è quello che fa per voi. Buon divertimento!

 

Ediacara

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Nel 1946, il geologo australiano Reginald C. Sprigg, esplorando alcune montagne dell’entroterra australiano a nord di Adelaide conosciute col nome di Ediacara Hills, scoprì un giacimento di altissima importanza paleontologica. Era un insieme di organismi marini dal corpo molle, principalmente con aspetto accomunabile alle attuali meduse oppure a particolari tipi di Artropodi, a vermi, o a forme di vita ben più strane e difficilmente catalogabili.

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a.Ricostruzione della fauna di Ediacara b.Spriggina c.Forma simile ai Pennatulacei attuali d.Parvancorina e.Tribrachidium

La conservazione di questi fossili era avvenuta all’interno di lamine argillose alternate a durissimi strati di quarzite ricristallizzata. Degli organismi era rimasta sostanzialmente soltanto la traccia in rilievo, peraltro in certi casi ad un livello di leggibilità straordinario. La durezza della roccia aveva permesso ai resti di giungere sino ai nostri giorni nonostante l’età, che come vedremo si rivelò antichissima. Le impronte si trovavano quasi tutte sulla pagina inferiore della parte argillosa della stratificazione, come se fossero ‘appoggiate’ sugli strati più duri di quarzite. Ciononostante si riuscì ad inquadrare le principali forme dentro un contesto ben definito, e a ricostruire il loro stile di vita.

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Alcune possibili ricostruzioni dell’habitat precambriano di Ediacara

L’importanza del ritrovamento è legata principalmente alla sua antichità: si tratta di fauna risalente al Precambriano (periodo con cui viene generalmente indicata tutta quella fase della storia della terra antecedente a 530 milioni di anni fa, inizio del Cambriano).

Fino a questa scoperta le conoscenze su tale epoca geologica, almeno dal punto di vista biologico, erano limitatissime: erano stati rinvenuti degli strati di quarzite analoghi nel 1914 nell’Africa del Sud-Ovest (l’attuale Namibia), ma le impronte erano scarsamente leggibili, e la pubblicazione di tale scoperta, avvenuta in Germania nel 1930, non destò particlare interesse nella comunità scientifica di allora. L’attenzione verso tali studi si ravvivò invece nel Dopoguerra, proprio in seguito al ritrovamento della comunità di Ediacara.

Quella che di lì a breve venne denominata ‘Fauna di Ediacara’ non suscitò inizialmente un grande stupore, sia perchè tali popolamenti erano stati in principio erroneamente datati come cambriani, sia per il fatto che le poche specie inizialmente scoperte da Sprigg furono accomunate a forme di vita già conosciute. In particolare la Dickinsonia, tra i principali organismi che popolano il giacimento, venne classificata come una banale medusa. Con l’approfondimento delle ricerche, portati avanti dall’Università di Adelaide, si scoprì invece la reale importanza del ritrovamento: essa era difatti la più completa testimonianza della fauna precambriana mai giunta fino ai giorni nostri.  Si trattava di un popolamento completamente diverso da tutte le forme fossili successive, come se la natura avesse effettuato un tentativo evoluzionistico fallito, per poi dare luogo alle nuove strutture di vita cambriane, da cui si sarebbero evoluti tutti i principali phyla animali giunti fino a noi.

Si trattava di organismi marini, che presumibilmente erano trascinati dalla marea sulle spiagge dove si posavano, e venivano ricoperti di una sabbia finissima (‘da fonderia’), che andava a formare un silt. Tale strato offriva un’ottima protezione e garantiva un elevato stato di conservazione. Con la fossilizzazione, la lamina si tramutava nella parte argillosa del ritrovamento, mentre lo strato inferiore in quarzite. Ciò spiega perchè gli animali sono stati trovati tutti nella pagina inferiore della lamina argillosa. Degli animali è arrivata fino a noi soltanto l’impronta del dorso (in ‘norma dorsale’), mentre della parte ventrale non ci è giunto niente.

La Fauna di Ediacara era composta esclusivamente da organismi marini di basso fondo a corpo molle; non si sono conservati né gusci calcarei, né scheletri chitinosi, né conchiglie. Alcuni avevano strutture simili alle spicole degli attuali Poriferi, presumibilmente con l’unica funzione di sostegno del corpo e di aggancio dei muscoli, che si presume fossero quasi inesistenti. Non esistevano inoltre predatori, si trattava esclusivamente di consumatori primari, da cui la definizione di ‘Paradiso o Giardino Ediacariano’. Della grande varietà di forme si potevano comunque definire alcune categorie principali: le numerosissime meduse, di cui ne sono stati definiti almeno 6 generi e 15 specie; delle forme coralliformi a corpo molle, simili agli attuali Pennatulacei; dei vermi segmentati, dotati talvolta di robusti scudi cefalici; degli strani organismi a simmetria bilaterale, assomiglianti a vermi; altre forme non accomunabili a nessun altro organismo.

Tra le forme assomiglianti alle meduse alcune erano probabilmente delle colonie (come l’attuale caravella portoghese), ma la maggior parte erano presumibilmente organismi singoli; avevano forme per lo più circolari, presentavano ripiegature o estroflessioni, e molto probabilmente non avevano tentacoli (sebbene dalla norma dorsale ben difficilmente si sarebbero potuti scorgere). Tra gli animali simili ai Pennatulacei la struttura generale del corpo era più o meno simile: presentavano alla base un disco circolare che permetteva loro l’aggancio al fondale marino, poi un asse centrale (rachide), da cui dipartivano numerose branchiole con un angolo fisso di inclinazione.

L’unica sensibile differenza rispetto ai Pennatulacei attuali è che, mentre in questi ultimi le branchiole sono connesse tra loro, negli organismi di Ediacara queste erano separate. Questo è uno degli elementi che ha fatto supporre che il moto ondoso nei periodi in cui si sviluppò la comunità fosse estremamente blando. Sono stati trovati organismi estremamente simili in un’altra comunità fossile precambriana rinvenuta in Russia (la celebre Fauna del Vendiano).

Tra le forme vermiformi, la più celebre è sicuramente la Dickinsonia; considerata inizialmente una medusa, venne poi classificata come un verme segmentato, con una struttura relativamente simile agli Anellidi. Presentava una pieghettatura costante lungo il corpo e un rachide centrale, non si sa però se tale struttura possa essere accomunabile alla metameria (suddivisione del corpo in segmenti) tipica degli Artropodi. Non sono stati trovati né occhi né bocca, ma presumibilmente questi si trovavano sulla pagina inferiore del corpo.

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Dickinsonia

Un altro organismo vermiforme di questa fauna era la Spriggina, che presentava piccole dimensioni (4-5 cm), e una struttura del corpo molto particolare. L’elemento più evidente era uno scudo cefalico a forma di ferro di cavallo, mentre il corpo era diviso in circa 80 segmenti, ciascuno dei quali terminava con un’estremità aguzza. E’ stato trovato in diverse posizioni, ma sempre in norma dorsale. Ciò ha fatto supporre che tale animale avesse una notevole mobilità sul fondo, ed è stato accomunato anche per questo a diverse forme di Artropodi, in particolare ai Trilobiti, soprattutto pr la struttura corporea. L’ipotesi che si trattasse di un antenato di tali organismi è stata però accantonata col ritrovamento di forme particolarmente antiche degli stessi Trilobiti, con caratteristiche morfologiche completamente differenti. In tal caso si è trattato presumibilmente di una convergenza adattativa.

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Spriggina

Tra gli animali attuali è stata trovata una forma particolarmente simile alla Dickinsonia, lo Sfinter, che vive sulle spugne di cui si nutre, così come presumibilmente faceva la stessa Dickinsonia, che potrebbe effettivamente essere un suo antenato; allo stesso modo il polichete Tomopteris sembra assomigliare notevolmente alla Spriggina, sebbene presumibilmente si tratti solamente di convergenza morfologica.

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Tomopteris

Tra gli altri organismi, non accomunabili a nessuna particolare forma attuale, risalta il Precambridium, di forma ovoidale e dotato di strane estroflessioni, ritenute branchie o parti dell’intestino, che assomiglia unicamente alla Vendia, un altro organismo precambriano proveniente dalla Fauna del Vendiano; la Parvancorina, di dimensioni estremamente ridotte (pochi mm) con corpo a forma di scudo con piccole pieghettature dorsali interpretate come branchie, anch’essa non rassomigliante a nessun organismo attuale; il Tribrachidium, di dimensioni estremamente ridotte, forma circolare, che presentava una parte centrale rialzata da cui si dipartivano tre braccia con andamento flessuoso, con pieghettature estremamente fini sulla parte più esterna. Non si è tuttora stabilito se la parte centrale fosse introflessa (bocca) o estroflessa (sostegno alle braccia).

È stata notata una notevole rassomiglianza con un echinoderma del Mesozoico, sebbene in questo caso si trattasse di un animale a corpo molle. Oltretutto sulle braccia sono state notate delle estroflessioni che potrebbero essere accomunate ai ‘pedicelli ambulacrali’, utilizzati per nutrizione e movimento, tipici proprio degli Echinodermi, sebbene non può essere esclusa l’ipotesi di convergenza morfologica.

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Tribrachidium

La datazione al Carbonio 14 ha indicato che tale comunità risale a 640 milioni di anni fa. Su Ediacara sono state fatte molte ipotesi, e si sono formate due scuole di pensiero predominanti: la scuola ‘Australiana’, guidata dall’australiano Glaesner e dal russo Fedorkin, che afferma che la Fauna di Ediacara è composta da antenati dei phyla marini attuali, contrapposta a quella ‘Europea’, guidata dal tedesco Seilacher, secondo cui tali organismi non avrebbero avuto alcuna interazione con le successive forme cambriane, né possono essere inserite in nessun phylum, da cui il termine ‘Vendozoa‘ per raggruppare questo insieme di organismi. Tale gruppo animale sarebbe stato costituito da forme prive di grandi organi interni, con un celoma (cavità) centrale diviso in cellette, in cui avvenivano tutti i processi metabolici; si sarebbe trattato, in sostanza, di un tentativo evolutivo operato della natura, risoltosi in un fallimento con l’estinzione di tutti i suoi rappresentanti.

Entrambe le teorie possono essere parzialmente appoggiate in base all’osservazione dei fossili, dato che effettivamente qualcuno di questi animali può essere associato ad alcune forme attuali (ad esempio quelli dotati di spicole potrebbero essere progenitori dei Poriferi), ma d’altra parte non sono effettivamente stati osservati organi interni, e le pieghe presenti su molti individui fanno pensare ad un incremento della superficie del corpo, caratteristica tipica degli animali che si nutrono per assorbimento. Il dibattito prosegue, e il mistero sulla straordinaria Fauna di Ediacara resta, così come d’altronde è immutabile la meraviglia nell’osservare quelle che, almeno finora, sono le più antiche forme di organismi fossili mai ritrovate.

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L’estinzione dei Dinosauri – L’ipotesi impatto extraterrestre

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Il tramonto dei Dinosauri, opera di Julian Baum

L’evento cataclismico che condusse all’estinzione di massa della fine del Cretaceo, all’incirca 65 milioni di anni fa, lasciò via libera al successo evolutivo dei Mammiferi sul pianeta a discapito di quelli che al tempo erano i dominatori della Terra, i Dinosauri. Le sue origini sono però ancora fonte di accesi dibattiti presso la comunità scientifica. Questo perché i dati risalenti all’epoca sono ovviamente frammentari, sia per quanto riguarda le scarse testimonianze fossili sia per la difficoltà di interpretazione degli strati geologici risalenti al periodo in cui tale estinzione è avvenuta.

Ciononostante, le principali linee seguite dalla ricerca optano verso le due uniche possibilità ritenute effettivamente credibili, ovvero l’impatto di un corpo extraterrestre (una cometa o un asteroide), o una lunga serie di violente eruzioni vulcaniche. In entrambi i casi, tali eventi avrebbero portato profonde e radicali modificazioni climatiche e ambientali sul pianeta, in tempi troppo brevi per permettere agli animali più sfavoriti da queste di riadattarsi almeno ad un livello che garantisse la sopravvivenza delle specie.

Tali modificazioni avrebbero presumibilmente causato un lungo oscuramento della luce solare su tutto il globo, al punto da bloccare la fotosintesi e mettere in crisi l’intera catena alimentare, oltre a creare un lungo ‘inverno nucleare’ con forti abbassamenti delle temperature, e un successivo periodo di forte riscaldamento in cui, a causa degli effetti di tale evento, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera si sarebbe notevolmente innalzata, causando un effetto serra su scala globale. Gli organismi pertanto sopravvissuti al primo periodo freddo avrebbero poi dovuto affrontare un lungo intervallo di tempo con temperature eccezionali su tutto il pianeta.

In aggiunta alle modificazioni termiche, l’aumento di CO2 nell’atmosfera avrebbe causato piogge acide diffuse, e questo spiegherebbe la successiva scomparsa di numerosi gruppi tassonomici marini come ad esempio le Ammoniti, i cui gusci carbonatici erano solubili nelle acque acide. Non si esclude inoltre la diffusione su scala globale di vasti incendi che avrebbero causato la distruzione di circa metà delle foreste presenti sul globo: una notevole presenza di fuliggine negli strati geologici dell’epoca potrebbe confermare tale ipotesi. Questa sarebbe stata causata della ricaduta di lapilli nel caso di lunghe eruzioni, o di frammenti incandescenti nel caso di un impatto meteoritico.

In poche parole, una catastrofe su scala globale, che avrebbe favorito soltanto le specie in grado di adattarsi in tempi sufficientemente brevi e di sopravvivere a condizioni ambientali estreme: ciò andrebbe oltretutto a supporto della teoria degli equilibri puntiformi di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, secondo cui la storia dell’evoluzione della vita sulla Terra non avrebbe sempre premiato le specie più adattate, ma quelle più capaci di resistere a quegli eventi cataclismici che hanno portato alle estinzioni di massa: per molti versi, le più fortunate.

Nei primi anni ‘80 Walter Alvarez insieme a suo padre Luis per primo portò agli occhi della comunità scientifica l’ipotesi dell’impatto extraterrestre, e lo fece adducendo una lunga lista di dati scientifici a favore alla sua teoria: per prima cosa, studiando lo strato geologico KT (da Kreide, Cretaceo in tedesco e Terziario, l’epoca geologica successiva), ossia quello interessato dagli eventi immediatamente precedenti e immediatamente successivi all’evento catastrofico, venne scoperta, in ogni parte del mondo in cui tale strato venne studiato, un’anomala abbondanza dell’elemento Iridio, componente estremamente raro sulla crosta terrestre, in concentrazioni e rapporti con gli altri elementi presenti molto simili a quelli rinvenuti sulle meteoriti litoidi risalenti a quell’epoca geologica.

Uno dei siti di ricerca più importanti a livello mondiale riguardante queste ricerche è situato a Gubbio, in Italia, dove uno strato argilloso di circa 2 cm di spessore delimita chiaramente il KT, differenziandosi completamente, anche dal punto visivo, dagli strati calcarei soprastanti e sottostanti. La caduta di un meteorite, di circa 10 km di diametro e alla velocità stimata di 10 Km/sec, avrebbe causato la formazione di un cratere di circa 150 Km di diametro, e l’impatto avrebbe riversato nell’atmosfera tali quantità di materiale proveniente dal corpo extraterrestre da permetterne una sua diffusione negli strati alti dell’atmosfera, e una ricaduta di questo sotto forma di precipitazioni su tutto il globo.

Altra prova a favore di questa ipotesi è la presenza, negli strati geologici interessati dall’evento, di granuli di quarzo con deformazioni laminari dovute a shock da ipervelocità; questi tipi di strutture sono reperibili solo in siti di esplosioni nucleari, o in prossimità di crateri da impatto meteorico, e possono essere ricreate in laboratorio sottoponendo granuli di quarzo della crosta terrestre a fortissime pressioni e temperature.

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Granulo di quarzo con deformazioni laminari dovute a shock da ipervelocità

La prova schiacciante, definitiva a favore di tale teoria sarebbe però il rinvenimento del cratere da impatto che avrebbe causato la catastrofica estinzione, e questo non è mai stato trovato, pur ricercandolo su ogni parte del globo. Un’area della penisola dello Yucatan in Messico alcuni anni orsono è stata indicata come uno dei possibili luoghi dell’impatto, ma le testimonianze fossili non hanno mai confermato tale ipotesi. Non va però esclusa la cancellazione del cratere in seguito all’erosione superficiale di 65 milioni di anni, o alla sua scomparsa, sprofondato con quel 25% della crosta terrestre presente alla fine del Cretaceo che è stato ‘inghiottito’ per subduzione.

Non è stata esclusa, soprattutto negli ultimi anni, la possibilità di un impatto multiplo di più corpi, o addirittura una pioggia meteorica. In effetti sono presenti sulla superficie terrestre alcuni crateri doppi, dovuti pertanto a impatti multipli. Inoltre il corpo centrale di una cometa avrebbe potuto disgregarsi in più parti per l’attrito con l’atmosfera terrestre, essendo composto in gran parte di ghiaccio.

E’ interessante anche la teoria secondo cui una stella compagna del Sole, denominata  Nemesis, nel suo periodo di rotazione attorno alla stella principale si ripresenterebbe in prossimità del sistema solare ogni circa 32 milioni di anni, portando ripetute piogge meteoritiche di proporzioni catastrofiche e conseguenti estinzioni di massa. Le prove fossili sembrano dare supporto a tale teoria, sebbene la stella stessa non sia mai stata rinvenuta dagli astronomi.

L’intervallo di tempo entro cui questa tragedia si sarebbe compiuta è uno dei principali pomi della discordia: la teoria dell’impatto supporrebbe un tempo relativamente breve (di circa 1000 anni) in cui l’estinzione di massa avrebbe avuto luogo – e parte delle testimonianze fossili sembrano confermare tale possibilità – mentre per la teoria di un vulcanismo diffuso i tempi in cui le modificazioni ambientali avrebbero portato alla scomparsa di Dinosauri, Ammoniti e compagni di sventura sarebbero ben più lunghi, nell’ordine del mezzo milione di anni.

Entrambe le parti sono tuttora impegnate nella ricerca di prove inconfutabili a sostegno della propria teoria, e la durata del periodo di tempo interessato dall’estinzione di massa è ancora oggi uno dei punti focali del dibattito. Nei primi anni ‘80, periodo in cui le tensioni USA-URSS erano ancora marcate e gli Stati Uniti avevano in progetto di realizzazione uno ‘scudo spaziale’ di protezione da eventuali attacchi d’oltre cortina, la nuova ipotesi dell’impatto extraterrestre ebbe un grande successo tra il pubblico e la stampa come ulteriore supporto a tale progetto di difesa (non si sa bene su quali basi), e i finanziamenti per la ricerca aumentarono, così come l’impegno degli scienziati nella ricerca di una prova definitiva a supporto di questa ipotesi.

La teoria dell’impatto extraterrestre rimane tuttora l’ipotesi più diffusa e più conosciuta, sebbene non l’unica e non necessariamente la più supportata da prove scientifiche; è curioso notare comunque che – vuoi per la sindrome da ‘Jurassic Park’, che ha sempre cercato di spettacolarizzare al massimo la ricerca nel campo, vuoi per le particolari condizioni socio-politiche in cui venne ipotizzata – essa rimanga per il grande pubblico l’unica possibile causa della scomparsa dei Dinosauri. Potenza dei media…

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Punti del globo in cui in corrispondenza dello strato KT sono state trovate anomalie nei livelli di Iridio e granuli di quarzo deformati per ipervelocità

L’estinzione dei Dinosauri – L’ipotesi vulcanismo

Secondo recenti scoperte paleontologiche, le tracce fossili a noi giunte sembrano rivelare una nuova realtà riguardo all’estinzione di massa che, al termine dell’era geologica del Cretaceo, circa 65 milioni di anni fa, colpì alcuni dei maggiori gruppi animali che popolavano la terra, tra cui i Dinosauri e le Ammoniti; secondo tali scoperte, il periodo in cui avvenne questa autentica ecatombe fu molto più lungo di quanto si era finora stimato. Se, difatti, con la teoria degli Alvarez dell’impatto extraterrestre si supponeva un evento perdurato all’incirca un migliaio di anni, periodo quasi istantaneo se paragonato alla storia geologica del pianeta, tracce fossili e studi geologici e stratigrafici sembrano dimostrare che per molti gruppi tassonomici il declino prima della scomparsa sia stato ben più lungo, di decine o anche centinaia di migliaia di anni.

Non solo: le stesse prove volte a sottolineare l’immediatezza di tale evento, come lo strato KT, che segna il limite tra Cretaceo e Terziario, caratterizzato dall’innaturale concentrazione di Iridio tipica delle meteoriti, sembra essersi depositato in tempi ben più lunghi di quanto ipotizzato finora. Tali scoperte sembrano dare maggiore credito all’altra teoria che cerca di spiegare le cause dell’evento catastrofico del Cretaceo, ovvero l’ipotesi del vulcanismo. Una lunga serie di violentissime eruzioni si sarebbe protratta per migliaia di anni, causando un’enorme immissione di polveri nell’atmosfera, e generando un ‘inverno nucleare’, così come stimato per l’ipotesi di un impatto meteorico, con gli stessi drammatici effetti sulle forme di vita del pianeta.

A sottolineare questi aspetti vi è anche il fatto che, dallo studio di numerose eruzioni vulcaniche, tra cui il vulcano Kilauea delle isole Hawaii, i prodotti gassosi e il materiale piroclastico espulso sembra presentare alte concentrazioni di Iridio, ben più alte di quanto normalmente presente sulla crosta terrestre, e in rapporti con gli altri componenti analoghi a quelli del livello KT. L’attività di alcuni vulcani, come quelli hawaiani, è legata alla presenza di pennacchi o ‘punti caldi’ (hot spots), che sembrano aver avuto difatti un ruolo importante nella storia evolutiva del pianeta. Un hot spot è una zona di risalita di materiale magmatico proveniente da altissime profondità, dal punto di incontro tra mantello inferiore e nucleo, e, sostanzialmente, nel corso della storia geologica, non cambia la sua posizione in base ai movimenti della crosta, avendo origini molto più profonde. Questo comportamento si differenzia da tutti gli altri fenomeni vulcanici, aventi origini molto meno profonde e strettamente legate all’attività della litosfera.

Un punto caldo lascia traccia di sé sulla crosta terrestre; ne è proprio un classico esempio l’arcipelago delle Hawaii, in cui si possono vedere tutta una serie di vulcani, sepre più antichi via via che ci si allontana dall’hot spot: questa è una ‘traccia’ evidente del movimento che ha avuto la crosta terrestre nel corso di milioni di anni, che ha registrato l’attività del punto caldo sotto forma di edifici vulcanici. Una situazione analoga si può osservare in corrispondenza del punto caldo attualmente presente sotto l’isola di Reuniòn, nell’oceano Indiano, in prossimità del Madagascar e in corrispondenza del vulcano Piton de la Fournaise: tutta una lunga serie di isole vulcaniche, o di vulcani sommersi, sempre più antica man mano che ci si allontana verso nord, si presenta allineata fino all’India, dove è presente un’imponente formazione basaltica di origine vulcanica, i Trappi del Deccan.

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I Trappi del Deccan

Questa è la più antica formazione legata all’attività del pennacchio di mantello che avrebbe generato l’hot spot e ha dimensioni imponenti: ricopre difatti un’area di circa 10.000 Km², ha un volume che supera i 10.000 Km³, lo spessore delle singole colate varia mediamente dai 10 ai 50 metri, con punte di 150 metri, e in determinate zone dell’India nordoccidentale la coltre lavica raggiunge uno spessore totale di oltre 2400 metri. Pertanto tale formazione deve per forza essere stata associata a una importantissima serie di attività vulcaniche nella storia della Terra.

Fino alla fine degli anni ‘80 si stimava che tali formazioni avessero un’età variabile tra gli 80 e i 30 milioni di anni, ma studi più recenti compiuti studiando i cristalli lavici, i quali una volta raffreddatisi rivelano l’orientamento dei poli magnetici (che si invertono regolarmente) presente al momento della loro formazione, hanno dimostrato che questi risalgono proprio al periodo KT, e hanno un’età approssimativa di circa 500.000 anni. Questa sembrerebbe un’importantissima prova a favore della teoria del vulcanismo, se non altro perché un evento di tale portata in ogni caso avrebbe dovuto influire sull’evoluzione biologica del pianeta, apportando cambiamenti sensibili a livello climatico e di composizione atmosferica. In aggiunta a questo, sembra che la presenza di ciascuno di questi ‘trappi’ di grande estensione sia direttamente correlata a tutte le grandi estinzioni di massa finora verificatesi sul pianeta Terra: ad esempio un’immensa formazione di questo tipo presente in Siberia ha un’età stimata di 250 milioni di anni, e si sarebbe formata proprio in occasione della più grande estinzione di massa mai registrata sul pianeta.

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Le principali province basaltiche terrestri, associate ai rispettivi hot spots

In aggiunta a questi aspetti, sembra ormai dimostrato che la formazione di granuli di quarzo

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con laminazioni dovute a stress da ipervelocità non avvenga soltanto nel caso di cadute di meteoriti, ma anche nel caso di eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo. Lo conferma il fatto che queste vengono trovate anche in zone sottoposte a test nucleari, associate pertanto a fortissimi eventi esplosivi. Insomma, negli ultimi anni i sostenitori della teoria dell’estinzione dei Dinosauri dovuta a un prolungato periodo di forte attività vulcanica sembrano aver acquisito prove importanti a suo favore, soprattutto grazie alla datazione dei Trappi del Deccan, che fornirebbe il vero e proprio ‘luogo del delitto’, che per i sostenitori dell’impatto extraterrestre manca ancora: difatti non è stato tuttora trovato uno o più crateri meteorici associabili all’ipotizzato evento di impatto extraterrestre.

Ciononostante, il dibattito continua, soprattutto perché le risposte certe in questi casi sono difficili da ottenere, sia per la rarità delle testimonianze fossili, sia perché i metodi di datazione degli strati geologici sono ancora molto perfezionabili e lasciano tuttora un amplissimo margine di errore. Noi ci accontentiamo di seguire gli sviluppi di questa affascinante ricerca, fiduciosi del fatto che in tempi brevi, visti gli enormi progressi degli ultimi anni, si possa giungere a una risposta certa su chi sia il colpevole della scomparsa dei Dinosauri dalla Terra.

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-Signori, la situazione sta precipitando… il clima è cambiato, i Mammiferi ci incalzano e noi abbiamo un cervello troppo piccolo per questi grandi problemi… (Illustrazione di Gary Larson)

Burgess

Nel 1909 il paleontologo statunitense Charles Doolittle Walcott ritrovò per puro caso il fossile di un trilobite entro alcune argilloscisti presso Burgess, nella Columbia Britannica, in Canada. Da questa semplice scoperta andò via via rivelandosi la reale portata del giacimento, visto che l’anno seguente lo studioso riportò alla luce un insieme di reperti fossili di eccezionale importanza. Si trattava difatti di uno strato ricchissimo di reperti, nella maggior parte dei casi in uno straordinario stato di conservazione; a dare un valore aggiunto alla scoperta si aggiunse il fatto che buona parte delle specie che popolavano la fauna di Burgess non erano mai state osservate prima.

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Charles Walcott a Burgess

Studi recenti e approfonditi hanno calcolato la presenza di 150 specie sconosciute (140 per alcuni studiosi), suddivise in 119 generi differenti; la cosa più straordinaria è però il fatto che tali specie non erano in alcun modo ascrivibili a piani morfo-strutturali di gruppi animali già conosciuti: in pratica, non solo non si conoscevano le specie, ma non si riusciva neanche a determinarne le affinità! Le ipotesi più condivise hanno determinato la presenza a Burgess di 8 phyla animali già conosciuti (Artropodi, Anellidi, Priapulidi, Molluschi, Echinodermi, Cordati, Celenterati, Poriferi), e di ben dieci entro cui racchiudere tutte le nuove specie non catalogabili.

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Ricostruzione della fauna di Burgess

Walcott ai tempi non concepì neanche tali classificazioni rivoluzionarie, poichè era estremamente conservatore e cauto nelle sue ipotesi, e ritenne le specie da lui scoperte come appartenenti a gruppi preesistenti (il calzatoio di Walcott). Fu dalle revisioni della fauna di Burgess da parte dello studioso inglese Whittington (insieme a Morris e Briggs) che cominciò a diffondersi l’idea di trovarsi di fronte a qualcosa di totalmente nuovo.

Rispetto alla fauna di Ediacara, basata principalmente su forme medusoidi (Celenterati e simili) e Anellidi, generalmente abbastanza simili tra di loro (presumibilmente per convergenza morfologica), a Burgess le specie animali presentavano un enorme grado di diversificazione, e la stessa fauna era ascrivibile a forme associabili principalmente ad Artropodi e Priapulidi. Fra i tanti aspetti che rendono affascinante il ritrovamento delle Burgess shales c’è sia l’altitudine a cui si trovano tali reperti (2800 m), che l’impressionante numero di esemplari recuperati: circa 50.000.

Altro aspetto estremamente interessante riguarda il fatto che gli animali sono stati recuperati in tutte le posizioni possibili, al contrario della fauna di Ediacara, in cui tutti i rappresentanti furono trovati in norma dorsale; ciò è estremamente utile al fine di permettere un inquadramento morfologico delle specie, sebbene ciò non permetta in molti casi di determinare la loro posizione in vita.

Si trattava di un ambiente marino del Cambriano medio; era quasi anossico, e ubicato alla base di una scarpata frequentemente interessata da frane del sedimento, che travolgevano gli animali e li bloccavano in ogni posizione fino alla morte. La scarsa presenza di ossigeno impediva inoltre i fenomeni di decomposizione. Col passare del tempo i fossili furono trasformati in allumosilicato di Calcio, ma i biochimici faticano a trovare una spiegazione per questo fenomeno.

In aggiunta, a rendere straordinari i fossili di Burgess è il fatto che questi, sebbene schiacciati, siano comunque tridimensionali e dunque completi, a differenza delle semplici impronte della fauna di Ediacara. Un elemento importantissimo che non fu notato da Walcott era che gli organismi potevano essere scalpellati e osservati all’interno; tale aspetto non sfuggì invece a Whittington, che fu da questo particolarmente favorito nel suo lavoro di classificazione. Ciononostante, la presenza di tantissimi esemplari di specie bentoniche o che vivevano infossate nel sedimento rispetto a quelle planctoniche e natanti, che avevano più possibilità di fuga dalle frane, ha fatto supporre che quello che è giunto fino a noi sia soltanto uno spaccato della vita di Burgess nel Cambriano.

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Ubicazione geografica di Burgess nel Cambriano Medio

Nonostante i raggruppamenti ‘di comodo’ che sono stati utilizzati inizialmente per classificare le specie conosciute, la fauna di Burgess aveva una struttura piuttosto semplice. Si trattava di una piana fangosa con vermi, artropodi, rudiste, brachiopodi attaccati alle spicole delle spugne (una quindicina di specie), o agli scheletri della misteriosa Wiwaxia. Circa il 37/43% delle specie erano artropodi, il 12% alghe, un altro 12% priapulidi (percentuale molto elevata rispetto a oggi), ed erano presenti anche necrofagi estremamente efficienti: sono molto rari i fossili incompleti, o mangiati a metà. Tra le specie di gruppi conosciuti oltre ad alghe e priapulidi erano presenti anche echinodermi (un migliaio di esemplari di crinoidi) e trilobiti (il cui genere predominante era Olenellus).

Altro aspetto interessante riguarda il rapporto tra priapulidi e policheti, i principali gruppi di vermi sedimentari: attualmente nell’ambiente marino il rapporto per quanto riguarda numero di specie e diffusione è nettamente a favore di questi ultimi, mente nella fauna di Burgess era l’esatto contrario: le specie erano poche per entrambi i gruppi (sette di priapulidi, sei di policheti), ma il numero di esemplari era nettamente diverso. I priapulidi erano presenti a migliaia. Si è ipotizzato, dato che i policheti di Burgess non avevano una bocca mandibolata, che sia stato questo elemento, sviluppatosi con l’evoluzione, ad aver giocato un ruolo fondamentale nel successo di questo gruppo.

Ma la parte più affascinante della fauna di Burgess era composta sicuramente dalle specie sconosciute fino ai tempi di Walcott. Tra queste c’era Marella, che presentava una struttura simile a un artropode, in particolare a un trilobite, con arti biramati, ma fu Whittington a scoprire che si trattava di qualcosa di inedito, dall’osservazione delle appendici preorali (antenne): erano solo due paia, di cui un paio molto lunghe, le altre invece più corte e dall’aspetto ‘piumato’.

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Marella

Yohoia venne inizialmente descritta come un crostaceo branchiopode; non presentava appendici preorali e postorali, a parte due grandi antenne terminanti ciascuna con 4 spine, forse mobili, la cui funzione era ignota: per Walcott servivano al maschio per afferrare la femmina, ma dato che le presentavano tutti gli individui si è ipotizzato che avessero funzione predatoria, o che servissero semplicemente per portare il cibo alla bocca. Il capo era suddiviso in tre segmenti con ciascuno un paio di arti, l’addome in dieci, a ciascuno dei quali corrispondeva un paio di branchie, tranne gli ultimi tre, privi di appendici. Il corpo terminava con un telson (appendice posteriore) piatto. Si tratta di una forma di Artropode completamente diversa da tutte le altre conosciute.

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Yohoia

Ancora più straordinaria era Opabinia: presentava simmetria bilaterale, ma l’unico occhio, non peduncolato, era impari. Tra un segmento e l’altro presentava delle branche, al di sopra delle ali del segmento stesso, e in fondo al corpo un telson. Si trattava di qualcosa di assolutamente inclassificabile e a sé stante, sebbene per Walcott si trattasse di un possibile punto di congiunzione tra Artropodi e Anellidi.

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Opabinia

Un’altra specie assolutamente inclassificabile è Nectocaris, simile ai cordati, ma a differenza di questi, che presentano miotomi (segmentazioni corporee) a V, essa li aveva perpendicolari tra loro nella parte posteriore del corpo. Era oltretutto completamente diverso dall’unico altro cordato trovato a Burgess.

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Nectocaris

Habelia venne invece inizialmente considerata un ‘merostomoide’, mentre in realtà si trattava di un’entità ben diversa. Era priva di occhi, presentava solo un paio di antenne, mentre tutto il corpo era protetto da un esoscheletro calcareo tubercolato (e conseguentemente era completamente diversa da tutti gli altri Artropodi), e aveva arti uniramati (ovvero senza ramificazioni). Inoltre, presentava (ed è un caso unico) un telson articolato, che forse le serviva per orientarsi nel sedimento in cui viveva. Presumibilmente una funzione analoga aveva la ‘gobba’ che presentava sul dorso.

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Habelia

Sanctacaris era invece un gran nuotatore, aveva branchie sclerotizzate e un telson piatto, per controllare movimenti e scatti improvvisi. Probabilmente era un vero e proprio predatore. Presentava un paio di appendici anteriori che ha fatto supporre una vicinanza con i Chelicerati, sebbene non si tratti di veri e propri cheliceri. E’ stato trovato in altri ritrovamenti fossili in Cina.

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Sanctacaris

La già citata Wiwaxia inizialmente si riteneva che vivesse infossata nella sabbia (Morris et al.), finchè non vennero ritrovati dei minuscoli brachiopodi attaccati agli scleriti (elementi della protezione esterna) di questo misterioso animale, che presumibilmente viveva nuotando sul fondo.

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Wiwaxia

Leanchoilia era invece un artropode che però presentava alcune affinità con i crostacei: aveva branchie compatte, sviluppate e adatte a un nuotatore. Aveva due appendici compatte ma mobili che terminavano con strutture simili a delle fruste, di cui si ignora l’utilità, sebbene sia stato supposto un loro utilizzo nella predazione.

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Leanchoilia

Pikaia venne classificato erroneamente da Walcott come anellide. Whittington si rese invece conto che si trattava del più antico cordato osservato: presentava miotomi a V, una pinna marcata sulla coda, non aveva mascelle, e la testa era decorata da bargigli. Si tratta praticamente di un agnato (gruppo di cordati piuttosto primitiva esistente anche oggi). Ciò si rivelò una scoperta importante, poiché dimostrava che nel Cambriano medio esistevano già Cordati evoluti e ben specializzati. Da lì a breve sarebbe avvenuta la comparsa dei primi Vertebrati, il gruppo dei Placodermi, pesci fossili estremamente primitivi.

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Pikaia

Un altro animale assolutamente a sé stante era Sidneyia: tra le specie che presentavano le maggiori dimensioni (circa 10 cm), aveva caratteri provenienti da diversi gruppi di artropodi come i Merostomati (i limuli attuali) e i Chelicerati. Aveva un capo con grandi occhi, zampe inizialmente uniramati, poi biramati, mentre gli ultimi tre metameri (segmenti corporei) non presentavano appendici. Inoltre presentava un telson simile a quello degli attuali Crostacei. Di sicuro si trattava di un predatore, dati i numerosi resti di altri animali ritrovati all’interno del suo stomaco.

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Sidneyia

L’animale che più di ogni altro ha però rappresentato l’incredibile varietà di questo ambiente primordiale è sicuramente Hallucigenia, un qualcosa di assolutamente incredibile e inclassificabile, e sicuramente mai visto in precedenza: presentava sette tentacoli dorsali, sette paia di spine ventrali attaccate al corpo, oltre a piccoli tentacoli dorsali che presumibilmente erano delle branchie. Si è supposto che avesse pertanto una grande mobilità, sebbene non avesse niente di somigliante a bocca od occhi; effettuando delle sezioni, si è osservato che i tentacoli erano cavi e in collegamento diretto con l’intestino. Forse ognuno dei tentacoli era una bocca. Non è escluso che si cibasse di cadaveri o di resti in decomposizione. La struttura talmente inedita del corpo ha fatto supporre ad alcuni studiosi che si trattasse dell’appendice di un altro organismo, ma ben difficilmente si può supporre che utilità potesse avere un simile tipo di appendice. Da ulteriori studi, principalmente sulla fauna cambriana cinese, si è anche proposto il rovesciamento della struttura di Hallucigenia, con le spine in alto, sebbene tale ipotesi non dia spiegazioni su come tale organismo potesse muoversi.

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Hallucigenia

Aysheaia era probabilmente un onicoforo (un gruppo esistente anche attualmente, con elementi comuni sia agli Artropodi – le zampe articolate – che agli Anellidi – la segmentazione del corpo – pur distanziandosi da entrambi). Aveva una bocca con palpi, arti laterali con spine orientate diversamente a seconda della posizione sul corpo. E’ stata spesso trovata in prossimità di spugne, il che fa pensare che vivesse su queste e si nutrisse dei loro tessuti lacerandoli con le spine.

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Aysheaia

L’unico esemplare che è stato trovato di Odontogriphus (‘mistero dentato’) ha dato l’immagine di un animale gelatinoso, segmentato solo esternamente (e quindi non metamerico), con una grossa testa, 2 palpi che forse avevano funzioni sensoriali, e una struttura chitinosa attorno alla bocca, su cui probabilmente erano attaccati dei tentacoli. Anche in questo caso non è stata trovata alcuna corrispondenza con phyla esistenti, sebbene sia stata ipotizzata una qualche affinità col gruppo dei Lofoforati.

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Odontogriphus

Altro esempio della difficoltà dei paleontologi nella classificazione della fauna di Burgess è Anomalocaris, che è nato dall’unione di 5 animali diversi: tale specie, difatti, si scomponeva dopo la morte, e per anni le diverse parti del suo corpo vennero classificate separatamente! La sua bocca, ad esempio, sebbene fosse sclerotizzata, venne assurdamente considerata una medusa, mentre la parte principale del corpo venne ritenuta una sorta di gambero. Aveva una grossa testa con occhi peduncolati, bocca sclerotizzata, sempre aperta, con cinque fila di denti disposte nelle tre direzioni dello spazio. Era sicuramente un predatore, e poteva presumibilmente mangiare anche animali dotati di guscio. Era un ottimo nuotatore, e con le sue appendici poteva afferrare qualunque animale e portarlo alla bocca. Si tratta pertanto del primo grande predatore nella storia della vita (raggiungeva quasi i 60 cm di lunghezza, mente buona parte della fauna di Burgess aveva dimensioni di pochi mm o al limite di 10 cm), ed era in cima alla piramide alimentare nel suo ambiente. Anch’esso non è ascrivibile a nessun phylum conosciuto.

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Anomalocaris

Allo stesso modo Burgessia, vagamente simile sia a Sydneia che agli attuali Merostomi, apparteneva a un gruppo a sé stante.

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Burgessia

Naroia venne erroneamente considerato da Walcott un crostaceo branchiopode; Whittington, aprendo le valve, scoprì al loro interno un animale simile a un trilobite, non calcificato ma solo sclerotizzato, e senza torace. La speciazione in questo caso ha operato in modo tale da generare una nuova classe dei Trilobiti, dotati di caratteri differenti da tutti gli altri appartenenti al loro phylum.

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Naraoia

In seguito è stato trovato un altro trilobite ‘a corpo molle’, Tegopelte. Con i suoi 30 cm di lunghezza è secondo in dimensioni solamente ad Anomalocaris nello straordinario habitat di Burgess.

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Tegopelte

L’approfondito studio dei resti fossili delle Burgess shales ha permesso di ricreare tutti i principali livelli e le nicchie ecologiche che componevano l’habitat di quelle zone nel Cambriano medio, con associazioni di specie bentoniche o quasi (‘Marella-Ottoia ensemble’, Ottoia era la principale specie dei Priapulidi presenti) e di specie nectoniche (Amiskwia-Odontogriphus ensemble’, Amiskwia è un’altra misteriosa specie natante di Burgess); tutte le principali associazioni faunistiche sono state pertanto ricostruite, si è riusciti, grazie alla ricchezza e alla qualità di conservazione dei reperti, a ricreare per intero l’habitat che esisteva in quel periodo. Il risultato è stupefacente: è una comunità completamente diversa da quant’altro era stato osservato precedentemente da tutti gli studi paleontologici, è quasi un mondo a sé stante.

Queste scoperte hanno dato adito a numerose teorie, tra cui gli equilibri punteggiati di Stephen J. Gould, che ha sottolineato in molte sue opere che senza la fauna di Burgess al giorno d’oggi avremmo un’idea della storia della vita completamente falsata, e che la vita ha operato per ‘tentativi’, in particolare nel Cambriano, e che, per motivi spesso legati al caso o a eventi catastrofici e comunque imprevedibili, soltanto alcuni dei tanti gruppi di organismi esistenti in tale periodo hanno sopravvissuto all’evoluzione, senza che questi fossero necessariamente i meglio adattati (l’esempio dei Dinosauri in tal senso è chiarissimo, quelli che erano i dominatori della Terra scomparvero in un lasso di tempo relativamente molto breve).

Non è difatti un caso che in seguito alla più grande estinzione di massa nella storia della vita, al termine del Cambriano, solo i gruppi sopravvissuti si siano evoluti fino a originare i phyla attualmente esistenti, ma che da allora non siano più comparsi nuovi piani di organizzazione morfologica e strutturale (e conseguentemente nuovi gruppi tassonomici). Si può dire, insomma, che le Burgess shales, uno dei più grandi e affascinanti ritrovamenti fossili di sempre, abbiano dato origine alla paleontologia moderna, o che, perlomeno, ci abbiano ‘aperto gli occhi’ su alcuni dei grandi misteri che riguardano la storia della vita sulla Terra. E di sicuro non è poco.

Fra le notizie passate recentemente alla ribalta nel mondo della paleontologia, è di sicuro rilievo la scoperta di un fossile di Marrella splendens, recuperato proprio nelle argilloscisti di Burgess, bloccato per sempre nell’atto di compiere la muta del proprio esoscheletro, con tanto di esuvia (il vecchio rivestimento esterno) ancora attaccato al proprio corpo:

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Il fossile di Marrella splendens in stato di muta ritrovato a Burgess. Nella parte alta si può distinguere chiaramente l’animale che sta fuoriuscendo dalla propria vecchia pelle.

Ciò per la prima volta confermato l’ipotesi che gli Artropodi effettuassero regolarmente la muta del proprio esoscheletro chitinoso, più volte nel corso della propria vita. La scoperta ha inoltre ulteriormente sottolineato il fatto che la fauna cambriana di Burgess avesse già raggiunto uno stato di evoluzione e differenziazione straordinario.

A livello di bibliografia, tantissimi titoli hanno trattato le tematiche riguardanti il dibattito su Burgess, la classificazione degli organismi, e il loro eventuale utilizzo nel supportare questa o quella teoria. Fra questi è sicuramente fondamentale

Wonderful Life: The Burgess Shale and the Nature of History (traduzione italiana: ‘La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia’), del 1989, di Stephen Jay Gould, che sottolinea in esso come, senza le straordinarie scoperte delle Burgess shales la nostra visione della storia della vita sarebbe se non falsata, sicuramente estremamente limitata. Fra le migliaia di siti dedicati all’argomento, vi segnalo:

http://www.burgess-shale.bc.ca/

il sito ufficiale della Yoho-Burgess Shale Foundation,

http://www.geo.ucalgary.ca/~macrae/Burgess_Shale/

una breve descrizione della fauna, ma con riferimenti bibliografici estremamente completi, e

http://paleobiology.si.edu/burgess/

che è la pagina dedicata all’argomento dallo Smithsonian National Museum of Natural History.