La città che non doveva esistere

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Un panorama della Valbisagno. Sulla destra lo stadio Luigi Ferraris.

Genova è la mia città. Non sono nato qui, ma vivendoci da quasi trentacinque anni credo sia lecito dichiararmi, a tutti gli effetti, un genovese. Vivo a Castelletto, un quartiere che, quando arrivano quelle drammatiche alluvioni che ormai ci colpiscono con frequenza, di solito non subisce danni gravi. Ma non di rado mi capita di passare da Marassi, uno dei quartieri più popolosi di Genova, oltre che il più colpito dalla furia delle acque durante questi eventi.

Via Fereggiano tramutata in un fiume in piena, con le macchine trascinate via dalla corrente, è un’immagine che non riusciremo più a rimuovere dalla nostra memoria. Ma anche i bambini travolti dalle acque mentre uscivano da scuola, le voragini sulla schiena dei negozi in via Tolemaide, quell’uomo investito dall’ondata di piena mentre usciva “a vedere il fiume” a Sant’Agata. Tante, troppe tragedie si sono accumulate tra i ricordi recenti della nostra bella città.

Ormai ci sono zone di Genova dove le persone anziane non si arrischiano ad uscire di casa all’arrivo di un temporale, ed è impossibile dar loro torto. Ogni giornata di pioggia troppo intensa ormai fa paura a tante persone che hanno già visto la loro casa o la loro attività danneggiata o distrutta dall’acqua assassina. Le cause le conosciamo già: troppo cemento, troppo poco spazio lasciato al verde, un Bisagno a cui è stato costantemente ristretto l’alveo. Ma anche la natura ci ha messo di suo, soprattutto in quei casi in cui è venuto giù l’equivalente di mesi di pioggia in poche ore. Anche Sestri Ponente e la Valpolcevera sono state vittime di alluvioni, ma la frequenza con cui questi eventi ha segnato la popolazione di Marassi è qualcosa di ineguagliato sul territorio genovese.

La caccia ai responsabili è iniziata da anni, le condanne a questa o quell’altra amministrazione si sono succedute senza sosta da parte di gente onesta che voleva giustizia, ma anche da parte di tanti forcaioli. I lavori volti a mitigare il rischio di future alluvioni sono iniziati tardi, tardissimo. E anche la creazione di quello scolmatore del Fereggiano che per alcuni rappresenta la salvezza, per altri poco più di un palliativo, è comunque arrivata in ritardo di anni.

Ma come siamo arrivati a una situazione del genere? Cos’è che ci ha spinto a seppellire di cemento l’alveo del fiume e quelle poche colline? E come mai nessuno ha previsto che potessero verificarsi i disastri di questi ultimi anni?

La copertura del Bisagno prima e il boom economico dopo, certo, ma non solo. Anche la forte immigrazione dal Sud negli anni ’50 e ’60. La comparsa di edifici ovunque, per ovviare all’esplosione demografica. E così, a seguire, la creazione del Biscione e la colonizzazione selvaggia della Valbisagno, con palazzi e palazzine di dubbio gusto appiccicati l’uno sulla schiena dell’altro. Quezzi che da ridente sobborgo quasi di campagna si tramuta in un assurdo dedalo di case e palazzi sempre più invivibile per i suoi abitanti, sempre più soffocato dal traffico compresso su un’unica direttrice che si dipana in mille viuzze, senza alcun accenno di pianificazione urbanistica. Si eliminano parchi e giardini praticamente da ovunque. Il Fereggiano, uno dei principali affluenti del Bisagno, viene ridotto a una specie di canalina di scolo, per di più ricoperta da erbacce e vegetazione. Ma il verde serve in mezzo alle case, non nel letto del fiume: se l’acqua si gonfia, il trasporto solido si unisce a rami e foglie trascinati dalla corrente, si accumula e fa da tappo nelle strettoie. In questo modo avviene un’esondazione ogni volta che piove troppo forte.

In mezzo alle case è l’esatto opposto: la pioggia che cade sul terreno viene assorbita e rallentata; se cade sull’asfalto o sul cemento schizza via, scappa e corre sempre più forte. E l’ondata di piena, quando arriva alla foce, diventa sempre più grande e pericolosa.

Mi ricordo bene di un concetto che avevo studiato all’università al corso di geologia ambientale, il tempo di corrivazione: questo è il lasso di tempo che una goccia di pioggia, caduta nel punto più lontano dal mare del bacino idrografico di un fiume, impiega per arrivare alla sua foce. Calcolavamo questo valore per capire in che modo il fondo su cui si muove l’acqua potesse influire sull’ondata di piena di un’alluvione. Era ben chiaro come il tempo di corrivazione fosse molto più breve per quei fiumi sulle cui sponde si era edificato senza criterio, come era stato fatto sul Bisagno dagli anni Trenta in poi. E spontaneo mi era sorto un dubbio: se invece la storia di Genova fosse stata diversa? Se a Marassi, Quezzi, San Fruttuoso e più su lungo tutta la Valbisagno si fosse costruito con buonsenso, mantenendo ampi spazi verdi, con sistemi di drenaggio efficienti e il giusto spazio lasciato al letto dei suoi corsi d’acqua?

Per togliermi il dubbio, ho chiesto chiarimenti al mio amico Pietro Balbi: un mio coetaneo geologo, consigliere dell’Ordine dei Geologi della Liguria, genovese e per giunta esperto in tematiche come il dissesto idrogeologico. Tra le altre cose, ha partecipato all’interessante progetto Dissesto Italia (www.dissestoitalia.it il sito ufficiale), nato da una collaborazione tra geologi, Legambiente e l’ANCE, l’Associazione Nazionale costruttori Edili. Gli ho chiesto come sarebbe potuta essere la vita della Genova che si affaccia sulle sponde di Levante se quella folle città del cemento non fosse mai esistita. Ecco cosa mi ha risposto:

In realtà non bisogna concentrarsi soltanto sulla Valbisagno: quando iniziarono a edificare intorno alle rive del fiume, tra fine Ottocento e inizio Novecento, la Foce era ancora libera e il fiume non era stato ancora coperto. Quindi le ondate di piena riuscivano ad arrivare in mare con più facilità, le esondazioni erano più difficili. Poi, con la copertura della foce del Bisagno degli anni ’30, tutto è peggiorato. Pensiamo ad esempio a Borgo Incrociati: è sopravvissuto per secoli senza finire mai sott’acqua. Poi, con la copertura del fiume, ogni esondazione ha colpito proprio a quell’altezza, subito dopo il ponte di Sant’Agata, dove il fiume va a immergersi sotto una copertura evidentemente sottodimensionata.

Se c’è un “tappo” formato dal trasporto solido e flottante, le conseguenze dell’alluvione sono ancora più drammatiche. Il trasporto solido, quell’”acqua nera” che vediamo quando ci sono le alluvioni, è uno dei principali fattori di innalzamento del volume dell’acqua e quindi causa di alluvionamenti, fattore troppo spesso sottovalutato anche nel recente passato da chi si è occupato di dimensionamento dei fenomeni alluvionali. Per prevenire queste ondate cariche di terra e detriti occorrerebbe un monitoraggio costante di tutti i versanti. E questo è un lavoro costoso e con pochi ritorni di immagine: nessun politico diventerà mai noto per aver “tagliato il nastro” di un’opera di semplice controllo.

Questo però non vuol dire che edificare per tutta la lunghezza della Valbisagno sia stata una grande idea. Alcune fonti storiche fanno intuire che ai tempi dei Romani una parte dei monti fosse coperta di boschi, tagliati poi nel Medioevo. E il taglio degli alberi, utilizzati per il fasciame delle navi e per le impalcature di sostegno, avrebbe causato un ulteriore indebolimento dei versanti. Senza il sostegno dato dalle radici, alla prima pioggia dai versanti sarebbero arrivate a valle grandi masse di detriti.

Ricordiamoci inoltre che la Valbisagno, come tutti i rilievi montuosi, tra l’altro piuttosto acclivi in questo caso, già naturalmente sarebbe soggetta a frane; i lavori portati avanti nell’ultimo secolo hanno però peggiorato non poco la situazione. L’interazione tra strutture, necessarie allo sviluppo di una città, e un territorio già fragile è delicata: è possibile costruire, ma è necessario farlo prestando la massima attenzione alle necessità e alle caratteristiche del territorio, senza forzare la mano laddove si andrebbe incontro a rischi inutili.

Lavori come la messa in sicurezza dell’alveo del Bisagno o lo scolmatore del Fereggiano possono risolvere, almeno in parte, gli effetti del problema, ma di sicuro non le cause. Per quelle dobbiamo risalire indietro alla storia di Genova nel Novecento e istituire un complesso e approfondito sistema di controllo, monitoraggio e risistemazione dei versanti di oggi.

Quindi, questo è. Una città, almeno in parte, costruita senza criterio, senza coscienza del rischio, sfruttando ogni centimetro disponibile per addossare case su case là dove non si poteva e non si doveva edificare. E ora non è possibile tornare indietro, e forse neanche i lavori di messa in sicurezza del torrente o lo scolmatore potranno salvarci da nuove tragedie. Col clima impazzito di questi anni, le piogge sempre più forti e imprevedibili, quei “temporali autorigeneranti”, che potrebbero sembrare un argomento affascinante per chi è appassionato di documentari scientifici ma che sono diventati un dramma per chiunque viva a ridosso del Bisagno, la minaccia è sempre in agguato. E ora viene da chiedersi se quella parte di città, la città del cemento e dell’asfalto, della fretta di costruire e della scomparsa del verde, avrebbe fatto meglio a non essere mai stata costruita. Ma la risposta la sappiamo già.