Non passa giorno senza che sui mezzi di informazione generalisti si parli di cambiamento climatico. Gran parte di questi titoli e titoloni però affrontano il problema come se fosse un qualcosa di lontano nel tempo, delle cui conseguenze dovranno preoccuparsi i nostri nipoti e pronipoti. Poco invece viene detto sui danni che il riscaldamento globale ha già fatto e sta facendo in questi anni, a meno che non si tratti di eventi strettamente legati all’uomo come carestie, migrazioni o guerre (e sì, a quanto pare ci sono già stati conflitti causati dai cambiamenti climatici). Ma esiste un esempio che è impossibile da ignorare e che merita di essere visto con attenzione, perché riguarda uno degli ambienti marini più vari e, perché non dirlo, anche più belli del nostro pianeta: la Grande barriera corallina australiana. Un autentico paradiso generato da quei piccolissimi animali, i polipi del corallo, che in migliaia di anni hanno creato una struttura che oggi funge da casa e nursery a migliaia di specie di pesci, mammiferi e invertebrati marini.
Scoperta nel 1768 da Louis de Bougainville e attraversata nel 1770 dal capitano James Cook, la Grande barriera, che è anche la più grande struttura realizzata da un unico organismo vivente, è diventata simbolo di paradiso tropicale e di bellezza naturale incontaminata. Le colonie di coralli, popolate da migliaia di specie di organismi marini di ogni genere e immerse in acque cristalline, sono stimate essere il frutto di oltre 15.000 anni di lavoro di costruzione dei piccoli polipi sessili. Oggi la Grande barriera corallina rappresenta anche una delle maggiori attrazioni turistiche della nazione australiana, ma soprattutto ha fornito un esempio lampante di quanto fragili possano essere questi ecosistemi: nonostante le enormi dimensioni, con oltre 2300 Km di lunghezza, 344.000 Km2 di estensione e circa 900 isole a farne parte, i parametri di temperatura, profondità e salinità delle acque, da cui la colonia dipende per sopravvivere, non possono subire grandi variazioni senza che tutto il sistema venga pesantemente danneggiato o, nei casi peggiori, collassi.
E così, tra riscaldamento globale antropogenico e l’evento periodico di El Niño a causare un ulteriore innalzamento delle temperature marine, le acque della Grande barriera sono diventate sempre più calde e inospitali per le madrepore che sono alla base della vita di tutta la colonia. Si è così verificato un evento, lo sbiancamento dei coralli, che già aveva colpito drammaticamente l’ecosistema nel periodo 1998-2002, e che ora sembra riproporsi in forma ancora più grave: alcune fonti parlano del 35% di coralli morti, e di un incredibile 93% di barriera colpita, in maniera più o meno sensibile, dall’evento. Ironicamente, solo l’arrivo di un ciclone potrebbe essere d’aiuto, abbassando le temperature e rallentando così l’estensione del fenomeno, che comunque si ripropone a livelli meno intensi ad ogni estate, ormai da 18 anni.
Ma come si verifica questo sbiancamento? Facciamo un passo indietro. La struttura di base delle barriere coralline è data dalle colonie di madrepore, la forma polipoide (e quindi sessile, ossia attaccata al substrato) dei coralli, che, ricordiamolo, sono animali e appartengono al phylum degli Cnidaria, classe antozoa. Le loro strutture calcaree, create in migliaia di anni con la crescita della colonia, fanno da base per tutto l’ecosistema che si viene a formare attorno. I polipi dei coralli sono abitati da alghe unicellulari fotosintetizzanti della famiglia delle Zooxanthellae, con cui gli antozoi vivono in simbiosi: forniscono loro diossido di carbonio di scarto e da loro traggono gran parte dei nutrienti necessari al loro sostentamento.
In situazioni di stress, di cui l’innalzamento della temperatura dell’acqua è l’esempio più lampante, le alghe simbionti vengono espulse dai polipi, causando così lo sbiancamento del corallo. Il colore della struttura calcarea dipende infatti dalle alghe e più è alta la loro concentrazione, più intenso è il colore. In seguito allo sbiancamento, i polipi dei coralli diventano trasparenti e quello che appare all’osservatore è la struttura calcarea sottostante. Le colonie diventano così più o meno grigie e, nei casi più estremi, del tutto bianche. Se la situazione ambientale ritorna alla normalità nel giro di pochi giorni, le alghe vengono di nuovo inglobate dai polipi e si ritorna così alla condizione originaria. Se invece il periodo di stress si prolunga le colonie sono destinate alla morte. Una volta scomparsi gli animali, gli scheletri calcarei della struttura si disgregano rapidamente ad opera del moto ondoso e degli animali che se ne nutrono, come gli scaridi, i pesci pappagallo. In breve tempo tutti i detriti generati dalla distruzione della colonia vanno a depositarsi sul fondo della piattaforma carbonatica, che è la struttura di base della barriera. Questa, se le condizioni torneranno favorevoli, farà da basamento per nuove colonie di madrepore. Le cause evolutive all’origine di questo fenomeno non sono del tutto chiare, ma una delle ipotesi più accreditate suggerisce che questo comportamento dei polipi si verifichi in risposta ai cambiamenti del livello delle acque, in modo che le colonie si accrescano e proliferino solo in condizioni ottimali di temperatura, profondità e illuminazione solare. Sta di fatto che il 2016 sembra destinato a diventare l’annus horribilis della Grande barriera australiana, e la causa è in buona parte l’innalzamento delle temperature globali causato dall’uomo.
Già così lo scenario appare piuttosto inquietante, sia perché dall’ecosistema della barriera dipendono migliaia di specie marine, sia perché le previsioni attuali sembrano far intuire che in futuro, almeno a livello di temperature, andrà sempre peggio e la sopravvivenza delle madrepore sarà sempre più a rischio, e non solo in Australia. Molti scienziati stanno cercando da tempo di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul problema e pare non siano mancate le polemiche: a un iniziale disinteresse da parte dell’UNESCO nell’inserire la Grande barriera corallina tra gli ambienti a rischio a causa dei cambiamenti climatici sono infatti seguite pressioni da parte del governo australiano per evitare che i drammatici risultati dello sbiancamento venissero resi pubblici dalla stessa organizzazione, forse per paura di ripercussioni sul turismo.
E purtroppo le cattive notizie non finiscono qui: è infatti di pochi giorni fa la notizia della prima estinzione documentata di un mammifero a causa del riscaldamento globale antropogenico. E l’ambiente era sempre quello delle barriere coralline: il piccolo roditore Melomys rubicola popolava infatti una piccola isola corallina chiamata Bramble Cay, che si trova a metà strada tra Nuova Guinea e Australia, nello Stretto di Torres. Evitiamo l’errore di considerare ambiente corallino soltanto quello che si trova al di sotto della linea delle acque: ci sono atolli, isole coralline (cays), lingue di terra che sono state originate dall’attività delle madrepore, hanno la stessa origine delle strutture sottomarine e sono ecosistemi ugualmente fragili. Il nostro topolino, chiamato in inglese Bramble Cay melomys o Mosaic-tailed rat, fu osservato sull’isola per l’ultima volta nel 2009, grazie alla testimonianza di un osservatore casuale, un pescatore. Dopo una lunga ricerca condotta nel 2014 (qui è possibile scaricare il report completo, con immagini dell’isola e degli ambienti che un tempo erano l’habitat naturale del roditore) in cui non è stata trovata traccia dell’animale, questo è stato dichiarato estinto. La causa della sua scomparsa è stato l’innalzamento del livello delle acque, che ha ridotto drammaticamente la porzione di isola non sommersa dall’alta marea (da 4 a 2,2 ettari) e, soprattutto, ha fatto quasi totalmente svanire la sua copertura vegetale: dai 2,2 ettari del 2004 ai ridicoli 0,065 ettari del 2014, ovvero il 97% in meno. Purtroppo la piccolissima cay corallina, lunga 340 e larga 150 metri, rappresentava la totalità del territorio dell’animale, che era di conseguenza uno dei mammiferi dall’areale meno esteso al mondo. Con la scomparsa pressoché totale del suo habitat naturale, per Melomys rubicola non c’è stata più speranza.
Purtroppo, pur trattandosi di un caso limite, la vicenda del piccolo roditore è significativa: al giorno d’oggi si stima che una specie su sei sia a rischio di estinzione a causa dei cambiamenti climatici, e gli ambienti corallini sono forse il caso più eclatante. Oltre al rischio per i polipi corallini dato dal riscaldamento delle acque, anche le strutture da loro originate corrono un grande pericolo a causa dell’innalzamento del livello marino: si stima che dal 1901 al 2010, a livello globale, questo si sia sollevato mediamente di 20 centimetri, un valore superiore a qualsiasi variazione registrata nei 6000 anni precedenti. Purtroppo gran parte di questi atolli e isole coralline si elevano di pochi metri dal livello del mare e quindi, oltre al rischio di scomparsa sotto le acque, anche l’infiltrazione di acqua salina nel sottosuolo può portare gravissimi danni alla vegetazione e ai terreni coltivati, con pesanti ripercussioni anche sull’uomo. L’arcipelago di Kiribati ad esempio, che si trova a nord-est dell’Australia e nel cuore del Pacifico meridionale, sta progressivamente svanendo a causa dell’innalzamento del livello delle acque. Questo evento sta causando la progressiva scomparsa delle riserve di acqua potabile e delle aree coltivabili che concorrono al sostentamento di circa centomila abitanti, che al giorno d’oggi non sanno dove andare nel caso la situazione diventasse insostenibile. Quindi non dimentichiamo mai che il riscaldamento globale è reale e non è qualcosa di preoccuparci soltanto in un futuro non meglio definito, tanto più che è causato anche dall’uomo e già oggi sta generando danni enormi. Danni che si dovranno fronteggiare con ogni mezzo per salvare alcuni tra gli ambienti più belli, affascinanti e fragili del nostro pianeta.