Un pochino di Pechino – seconda parte

Superata l’inevitabile meraviglia iniziale di fronte alla maestosità della Grande Muraglia cinese, con il suo movimento sinuoso lungo la cresta dei monti interrotto a brevi intervalli dalle sue torri di guardia, viene naturale porsi più di una domanda: quanti uomini furono impiegati nella sua costruzione? Non essendo perfettamente dritta, è possibile stimare quanto sia effettivamente lunga? È vero che gli operai morti nella realizzazione furono sepolti nelle sue fondamenta, o che sia davvero l’unica opera dell’uomo visibile dalla Luna? E soprattutto, cosa passava per la testa del primo Imperatore della Cina, il famigerato Qin Shi Huang, contemporaneo del ‘nostro’ Archimede, per poter anche solo pensare di fermare le regolari invasioni delle aggressive popolazioni mongoliche del Nord con un muro largo meno di 10 metri?

Ad alcune domande è possibile dare una risposta, per altre si può solo rimanere nel campo delle ipotesi che, va detto, aumentano non di poco il fascino di un’opera che è stata comunque eletta come una delle sette meraviglie del mondo moderno, classificandosi  addirittura prima nelle votazioni per questa insolita competizione.

Intanto per quanto riguarda la visibilità dallo spazio si rientra chiaramente nel campo delle leggende metropolitane: un muro di larghezza variabile mediamente dagli 8 ai 10 metri, sebbene lungo migliaia di chilometri, è assolutamente invisibile dalla Luna così come anche le città più grandi e luminose. Se si dice invece in senso più generico ‘visibile dallo spazio’ si tratta di un discorso privo di senso, troppo vago: a pochi chilometri di distanza dalla terra si è già nello ‘spazio’, e in questo caso è effettivamente possibile distinguere la muraglia, ma di certo non è l’unica opera creata dall’uomo ad essere visibile ad un’altezza così bassa!

Sulla lunghezza effettiva le stime sono state corrette in tempi recenti: Wikipedia parla di 8851 chilometri totali, che però potrebbero variare in futuro: alcune parti della muraglia sono difatti state scoperte in anni recenti, dopo che per secoli erano state nascoste dalle sabbie dei deserti della Cina occidentale, e per lo stesso motivo altre se ne potrebbero scoprire in futuro; allo stesso modo però le stime potrebbero essere ritoccate al ribasso: non tutta la muraglia è destinata a resistere all’usura del tempo, dato che la parte occidentale è stata creata principalmente con mattoni di argilla essiccati al sole invece che con la pietra viva tipica dei tratti orientali ed è pertanto ben più fragile e suscettibile all’erosione.  I tratti di muraglia costruiti nel deserto devono inoltre fronteggiare l’usura data da una fortissima escursione termica che disgrega le rocce, oltre al continuo logorio causato delle sabbie trasportate dai venti.

Sulle sepolture degli operai dentro la muraglia ho sentito invece pareri contrastanti: dalle guide turistiche che assicurano che sia totalmente e assolutamente vero, forse anche per aumentare il fascino e l’attrattiva dell’opera (come se ce ne fosse bisogno) ad altri che invece affermano che le migliaia (o forse i milioni) di operai sacrificati nei secoli per la realizzazione di questa opera fantasmagorica siano stati sepolti non sotto, ma a fianco della costruzione, dato che generalmente un cadavere non può in alcun modo ricoprire la funzione di fondamenta per un muro pesante tonnellate.

Per quanto riguarda il Primo Imperatore Qin Shi Huang invece sono i libri di storia a parlare: colui che unificò l’Impero Celeste difatti, oltre a dare il via a questa imponente opera di protezione che sarebbe stata completata molti secoli dopo, fu anche l’artefice dell’incredibile armata dei guerrieri di terracotta presente nelle vicinanze di Xi’An, dove si trovava la sua capitale imperiale, riportata alla luce soltanto nel 1974 ed una delle massime attrattive turistiche della Cina moderna. Violento e sanguinario, estremamente superstizioso, terrorizzato dalla morte e dalle congiure di palazzo e ossessionato dall’idea dell’immortalità, il Primo Imperatore è ricordato anche per aver dato alle fiamme milioni di testi storici e religiosi e successivamente per aver fatto seppellire vivi 460 intellettuali e studiosi di Confucio che avevano criticato questa sua barbarie. A conti fatti, la costruzione di un’opera tanto faraonica quanto sostanzialmente inutile come la Grande Muraglia non fu il suo peccato più grande.

Ancora stanco dalla maratona pechinese del giorno precedente (raccontata nell’ultimo post), per il secondo giorno del mio viaggio ho optato per una scelta molto turistica ma anche pratica, ovvero il giro guidato in pullman fino a Badaling, a circa 70 chilometri a nord della capitale, dove si trova  il tratto più celebre della Muraglia oltre che il primo ad essere stato aperto ai turisti, nel 1957.

Restaurato in varie parti e comunque in uno stato di conservazione pregevole, il Great Wall a Badaling è accessibile tramite aperture a livello della strada asfaltata, ma il tour più ‘scenografico’ prevede un accesso ad uno dei punti sommitali con una funivia decisamente in vecchio stile, molto spartana e di quel particolare tipo che non si ferma mai e su cui bisogna balzare al volo per salire a bordo.

L’ascesa è comunque assolutamente meritevole dato che dall’alto si può godere di una vista molto migliore ed evitare parte della ressa di migliaia e migliaia di turisti che affollano le parti più basse della muraglia.

Lo stato di conservazione dell’opera è però direttamente proporzionale ai lavori di recupero che sono stati compiuti: negli anni ’50 e poi negli anni ’80 massicci interventi di restauro hanno consolidato e reso accessibili ampi tratti dell’opera, ma dei materiali originari poco è rimasto. In ogni caso questo è abbastanza comprensibile dato che, come dicevamo, il primo tratto venne edificato nel 215 a.C., diciassette anni dopo la morte di Archimede per mano di un soldato romano durante l’assedio di Siracusa, giusto per dare un riferimento ‘occidentale’. Parliamo di tempi antichissimi quindi, e soprattutto di un’opera che per millenni ha avuto una discreta importanza strategica (nonostante la modesta efficacia) per gli imperatori cinesi, che in più occasioni nel corso dei secoli hanno fatto ricostruire, consolidare e perfezionare la protezione del limite settentrionale dei loro possedimenti.

Ovviamente un giro turistico così standardizzato prevede anche alcune tappe evitabili, come la visita ai laboratori della giada con ovviamente annessi negozi e gioiellerie dove i turisti più entusiasti possono svuotare il proprio portafogli,

o ai mercati della seta, altra grande invenzione della Terra di Mezzo, in cui una visita guidata a un laboratorio dimostrativo sulla filatura del tessuto creato dagli industriosi bachi di Bombyx mori porta direttamente a un centro commerciale interamente dedicato alla vendita dei preziosi filati, in ogni forma e utilizzo possibile: dalle camicie alle cravatte, dai cuscini alle trapunte.

  

Durante il trasferimento c’è però un’altra tappa ‘storica’ di assoluto interesse, 50 Km a nord di Pechino: le tombe degli imperatori della dinastia Ming, che regnarono sulla Cina in un periodo che va dal XIV secolo alla seconda metà del XVII secolo, prima dell’avvento della dinastia manciù dei Qing.

 

Tolti i primi due imperatori della dinastia che vennero sepolti a Nanchino, ai loro tempi capitale del’impero, tutti gli altri discendenti della famiglia reale vennero tumulati qui dove, oltre ad alcuni mausolei di assoluto interesse, è possibile vedere quello che è presumibilmente il primo nucleo storico della moderna capitale dell’Impero Celeste.

 

Torniamo a parlare di tempi moderni: la Cina è una nazione in fermento e crescita continua e sta cambiando il proprio volto ad un ritmo ineguagliato nel resto del mondo. Pechino in quanto capitale di questo universo a sé stante non è certo da meno e questo lo si può vedere nell’area che tre anni fa ha ospitato i Giochi Olimpici estivi: il clou è sicuramente rappresentato dallo stadio ribattezzato ‘nido d’uccello’ (Bird’s nest) che ha ospitato le memorabili cerimonie di apertura e chiusura dei Giochi oltre alle gare d’atletica;  lo stadio, illuminato di notte e adornato da uno specchio d’acqua e da un parco, è ora un’attrazione turistica oltre che la sede di eventi sportivi di grande prestigio (questa estate ha ospitato -principalmente per motivi pubblicitari- la finale di supercoppa italiana);

 

ma c’è anche il Water Cube che ha invece ospitato le gare olimpiche di nuoto,

e tutt’intorno c’è un’ampia area con grattacieli, centri sportivi e commerciali che è visitata da migliaia di turisti e famiglie pechinesi ogni giorno. Inoltre ci sono i modernissimi appartamenti del villaggio olimpico, attualmente affittabili ai più costosi prezzi al metro quadro di tutta la Cina.

 

Questa voglia di fare, costruire, rimodernare sembra adattarsi bene ai grandi eventi sportivi internazionali, dato che la Cina, dopo il successo delle olimpiadi pechinesi, è stata prescelta come sede di molti altri importanti avvenimenti come le Universiadi a Shenzen e i mondiali di nuoto a Shanghai quest’estate, o i Giochi della Gioventù che avranno luogo a Nanchino nel 2013.

C’è tutto un altro volto della Pechino moderna che invece si trova nella periferia nordorientale della città, nel cosiddetto Quartiere 798.

  

Si tratta di un’ex area industriale degli anni 50-60, realizzata da Mao in collaborazione con la Germania Est e l’Unione Sovietica, in disuso a partire dagli anni ’80 e che da poco più di dieci anni è iniziata a diventare una zona di attrazione per artisti per lo più pechinesi ma talvolta anche stranieri, che hanno colto l’opportunità di sfruttare una zona a basso costo e non troppo decentrata come location per gallerie e negozi dove esporre e vendere le proprie opere.

 

Quello che è possibile visitare attualmente è un quartiere vivido, particolare, diverso dal resto di Pechino e ben più somigliante a un qualche scorcio della Berlino del Bauhaus piuttosto che ad un’area di una moderna città cinese. Il che sottolinea, una volta di più, il grande fermento, non solo economico ma anche culturale, che sta vivendo la capitale di questo paese.

Purtroppo, come già sapevo prima di partire, il tempo a disposizione era davvero poco per visitare una città del genere, e, dopo aver visto soltanto da lontano il mastodontico grattacielo della CCTV con la sua struttura insolita e le sue dimensioni imponenti, non mi restava altro che fare le valigie e prepararmi al ritorno, ma prima di salutare Pechino ho ben pensato di fare una capatina ad un’altra attrazione, presente a pochi metri dal mio albergo, dove molti cinesi e qualche turista occidentale fanno regolarmente il loro spuntino serale: il mercato notturno Donghuamen.

 

Oltre a spiedini di carne, frutta e dolci vari qui è possibile degustare alcune prelibatezze tipiche del nordest della Cina, come cavallucci marini, insetti di vario genere, scolopendre e soprattutto scorpioni, tutti rigorosamente passati alla fiamma e infilzati sul proprio spiedino. Ovviamente le immagini che seguono le dedico ad amici e amiche (soprattutto amiche) che si erano detti schifati dal serpente che avevamo mangiato a Shanghai. Scommetto che dopo questi spuntini particolari il serpente non vi farà più tutta questa impressione, anzi lo troverete quasi gradevole.

    

Finita la mini-trasferta si ritorna al lavoro laddove tutto era cominciato: trasferimento di Agorà da Jiaxing (e dalla regione dello Zhejiang che ci ha ospitato per oltre due mesi) a Shanghai, nel distretto settentrionale di Hong Kou, per la penultima tappa del nostro tour cinese. Il nostro viaggio non è ancora finito, restate in ascolto perché ci saranno ancora novità e qualche sorpresa!

Zaijian,

fonso

Un pochino di Pechino – prima parte

In soli quattro giorni non si può certo pretendere di vedere tutto quello che è degno di essere ammirato in una città maestosa ed immensa come Pechino, la capitale dell’Impero Celeste. Tanto più se due di questi giorni sono in buona parte dedicati ai viaggi di trasferimento: in corriera da Jiaxing a Shanghai e in aereo (poco più di mille km) da Shanghai e Pechino, l’inverso al ritorno. Non è di aiuto neanche il fatto che Pechino sia una delle città più grandi della Cina, con i suoi 16 milioni di abitanti stimati, tra residenti, pendolari, immigranti non registrati e tanti, tantissimi stranieri presenti per lavoro o turismo. In ogni caso ho sfruttato al massimo le mie doti di turista ossessivo-complusivo per vedere il maggior numero di tappe possibili, e tutto sommato sono riuscito a lasciare la Capitale del nord senza rimpianti. Cercherò di farvi un bignami di questa visita, diviso comunque in due parti, per rendervi partecipi della meraviglia che è questa città.

L’arrivo nella tarda serata di lunedì non mi ha impedito di fare una breve uscita di ricognizione, durante la quale ho assistito ad una delle scene più belle viste da quando sono in Cina: i balli di gruppo di fronte alla cattedrale di San Giuseppe, la principale chiesa cattolica della capitale. È normale vedere gruppi di persone -soprattutto anziane- ballare nelle piazze alla sera al suono degli amplificatori portatili che diffondono musiche “da balera” cinesi, ma con l’inedita variante della chiesa sullo sfondo beh, questo in effetti mi mancava! Dopo questo simpatico siparietto e una visita rapida ad alcuni Hutong (vicoli) vicino all’albergo, ho pianificato con cura le tappe dei giorni successivi.

 

La prima visita obbligatoria da fare a Pechino è la Città Proibita, la residenza degli imperatori della Cina per circa cinque secoli, oltre che il punto centrale del reticolato perfettamente ortogonale delle strade che disegnano la mappa della capitale. Si tratta, come dice anche il nome, di una città dentro alla città, con dimensioni imponenti (720.000 metri quadrati di superficie complessiva, quasi mille edifici con oltre 8700 stanze al loro interno), mura di protezione che la cingono sui quattro lati, e amplissime aree destinate ai più svariati utilizzi.

  

La Città Proibita venne edificata durante la dinastia Ming, dal 1406 al 1420 d.C. e da allora ospitò tutti i sovrani cinesi, sia Ming che della successiva dinastia Qing, fino alla deposizione dell’ultimo imperatore Aisin Gioro Pu Yi nei primi anni del XX secolo. Dal 1925 è un museo, visitato ogni anno da migliaia di turisti provenienti dalla Cina e da tutto il mondo, ed è stato nominato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.

Cercando di evitare la ressa mi sono recato dagli ingressi della Città Proibita già armato di biglietto prima della sua apertura alle 9 del mattino. Un grande cortile fa da anticamera alla città imperiale vera e propria e in quest’area abbondano negozi di souvenir e venditori ambulanti, ma è anche possibile vedere alcune esercitazioni militari di una caserma presente all’interno dell’area.

 

Lo sforzo di arrivare all’ingresso il prima possibile si è rivelato tutto sommato inutile, dato che moltissimi altri visitatori erano già in attesa e si sono riversati dentro la residenza imperiale a migliaia all’apertura dei cancelli, formando un fiume di gente proporzionale alle maestose dimensioni del luogo.

 

Il motivo di questa fretta è facilmente comprensibile: la Città Proibita richiede svariate ore per essere vista nella sua interezza: sembra non finire mai con tutti i padiglioni centrali che si susseguono, larghi decine e decine di metri e tutti dotati di una sala del trono centrale, che non lasciano intuire se la Città finisca lì o continui alle loro spalle. Inoltre, soprattutto verso la fine, le aree laterali con cortili e spazi dedicati a varie attività si rivelano la vera chicca della visita: dalle stanze in cui abitavano gli eunuchi che facevano da scorta all’Imperatore, ai centralini telefonici d’epoca, per finire in una serie di giardini curati con una perizia quasi maniacale e adornati da specie vegetali ricercate e di rara bellezza.

   

L’ingresso della Città Proibita è a sud e si affaccia su Tien’anmen, la più grande piazza del mondo, anch’essa risalente all’inizio del XV secolo e ristrutturata più volte nel corso dei secoli. Sulle mura esterne della residenza imperiale campeggia il celebre ritratto di Mao Zedong, mentre, dal lato opposto della piazza e a quasi un chilometro di distanza, si trova il mausoleo/memoriale dello stesso chairman, visitato ogni giorno da migliaia e migliaia di persone che con assoluta devozione aspettano per ore in coda per poter vedere la mummia dell’artefice della Repubblica Popolare Cinese, esposta al suo interno.

  

Proseguendo ancora più a sud si ritorna al passato: l’altra visita obbligatoria per i visitatori della capitale è infatti il Tiantan o Tempio del Cielo, anch’esso edificato dai Ming ed uno dei più importanti luoghi di culto taoisti al mondo. Circondato da un grande parco e da vari padiglioni disposti al suo interno, il tempio ha nella sua zona più alta la Sala della Preghiera per un buon raccolto, un padiglione realizzato in legno decorato che è uno dei simboli di Pechino e della Cina, nonché uno dei monumenti meglio conservati dell’epoca Ming.

 

Due volte all’anno, per pregare per un buon raccolto, l’imperatore si recava in processione dalla Città Proibita al Tempio del Cielo indossando particolari paramenti. I comuni mortali non erano autorizzati ad assistere a questa cerimonia e lo stesso sovrano per circa tre settimane doveva dedicarsi interamente alla preghiera e all’ascetismo, conducendo vita di isolamento totale dentro ad un apposito padiglione del Tempio.

 

Nel grande parco all’interno del tempio è possibile vedere, in mezzo alle solite bancarelle e ai venditori ambulanti, anche qualche giocoliere maestro nell’utilizzo del nastro tradizionale, simile a quello della moderna ginnastica ritmica.

Dopo una breve tappa (per me obbligatoria) al dimenticabilissimo museo di Storia Naturale che si trova  a breve distanza dal tempio, mi sono recato a nord-ovest per vedere la residenza estiva degli imperatori, lo Yiheyuan, fatto costruire a metà del XVIII secolo dall’imperatore Qianlong della dinastia Qing.

Per raggiungerlo bisogna attraversare un lungo corridoio coperto, interamente realizzato in legno decorato a mano, che fa da giusta premessa a quanto si va a visitare.

Il palazzo, manco a dirlo, è imponente, arroccato com’è su una collina da cui si domina una vallata su cui è stato creato appositamente uno specchio d’acqua, il lago Kunming, solcato attualmente da decine di imbarcazioni affittate dai turisti. La visione per me è familiare, e non a caso: il lago venne creato per emulare lo Xi Hu di Hangzhou e la sua meravigliosa atmosfera che, evidentemente, era un po’ invidiata dagli imperatori pechinesi. Il palazzo era inoltre particolarmente amato dall’imperatrice vedova Cixi, che lo fece ristrutturare ed ampliare negli ultimi anni dell’impero.

L’ultima visita della giornata è stata dedicata al parco Jingshan, che confina a nord con la Città Proibita ed ha al suo interno una collina alta una cinquantina di metri su cui sono costruite alcune piccole pagode laterali attorno ad un padiglione centrale, tutto secondo l’architettura tradizionale. Al calar del sole da qui è possibile ammirare la Città Proibita dall’alto, illuminata dalle soffuse luci notturne e ancora più affascinante che durante il giorno, per rendersi conto della sua incredibile estensione: tutto questo era creato per la soddisfazione di un uomo solo, l’imperatore, considerato dal popolo cinese un dio in terra, al punto che anche la capitale dell’impero era stata pianificata e costruita intorno alla sua residenza.

La struttura degli Hutong, infatti, oltre alle classiche regole del Fengshui che imponevano un orientamento Nord-Sud delle case e conseguentemente Est-Ovest delle strade su cui si affacciavano, prevedeva una struttura concentrica delle vie attorno alla Città Proibita, fino ad arrivare alla periferia della città di Pechino. I nobili ed i dignitari di maggior importanza potevano abitare nelle vie più vicine alla residenza imperiale, i borghesi e le classi medie nei cerchi immediatamente al loro esterno, mentre le case dei poveri si trovavano nelle periferie ai quattro lati della città. Nel corso dei secoli varie modifiche sono state apportate a questo sistema di urbanizzazione, ma la struttura concentrica della città è rimasta.

Quello che è scomparso sono le costruzioni tradizionali degli Hutong, progressivamente demolite per fare spazio a strade sempre più ampie e a moderni alberghi e uffici. Non ne rimangono molti, e, pur trovandomi in pieno centro, sono riuscito a vederne e fotografarne ben pochi. A tal proposito vi segnalo la mostra di Andrea Sessarego, vecchia conoscenza di chiunque abbia mai avuto a che fare col Festival della Scienza, dedicata proprio agli Hutong, contenente immagini di tre anni fa, ovvero poco prima delle Olimpiadi e della cancellazione di tanti altri vicoli storici della Pechino vecchia.

Tutto questo, credeteci o no, l’ho visto durante il mio primo giorno di visita della capitale. Nella prossima puntata (che bello dire così, mi sento un po’ Piero Angela!) parlerò delle altre tappe viste nella seconda e ultima giornata della  mia mini-trasferta, ovvero la Grande Muraglia, l’area olimpica e la nuova Pechino, quella che vive e progetta il futuro della Cina e del mondo intero con un ruolo di assoluta protagonista.

Zaijian,

fonso

Red lanterns & green lasers

Sto sfruttando questi giorni di agosto a Jiaxing per cercare di vedere da vicino la Cina più autentica, quella non ancora completamente inquinata dal consumismo come Shanghai, quella ancora lontana dalla ricchezza economica e culturale di Hangzhou, e in generale tutte quelle zone provinciali del paese ancora distanti dalla progressiva occidentalizzazione che sta radicalmente cambiando il volto della nazione in questi ultimi decenni.

In effetti si tratta di un’impresa tutt’altro che semplice: vuoi per i limiti imposti dalla lingua, vuoi per la difficoltà di capire come funziona una ‘cittadina’ (si fa per dire) provinciale della Cina ad agosto, con i bambini che sono ancora liberi dalla scuola fino ai primi di settembre e gran parte degli abitanti che sono rimasti in città, in certi casi per mancanza di mezzi economici che permettano di fare vacanze lunghe, ma molto spesso perché, da quanto mi è stato detto ed ho constatato di persona, qui le persone vanno in ferie per periodi brevi e più scaglionati nel corso dell’anno rispetto all’Italia: c’è chi va a giugno, chi a settembre, chi anche in inverno. 

Questo per la nostra mostra è sicuramente un aspetto positivo: il science center che ci ospita è stato visitato da più persone di quante si potesse prevedere in pieno agosto, e anche se buona parte di questi visitatori erano bambini accompagnati dai genitori o ben più spesso dai nonni, frequentemente ci hanno fatto visita gruppi di campi scolastici estivi che hanno riempito la sala all’improvviso, in afose mattinate di piena estate in cui non ti aspetteresti anima viva.

 

Tra l’altro la fortuna ha voluto che a fianco del centro ci sia la sede di uno di questi campi estivi che in più di un’occasione ha improvvisato una visita, riempiendo da un momento all’altro tutta l’area centrale del complesso, dedicata alla nostra mostra sugli scienziati dell’Antichità.

  

Durante il giorno a Jiaxing molta gente se ne sta rintanata in casa per il caldo, ma se capita la giornata un po’ più vivibile si può visitare il mercato dei fiori e degli uccelli, popolato da decine e decine di piccoli negozi che, a discapito del nome, vendono praticamente qualunque tipo di animale da compagnia o pianta da giardino.

 

Pesci rossi, tartarughe, criceti, cani di piccola e media taglia si aggiungono a diamanti mandarini, parrocchetti e cardellini che affollano migliaia di gabbie e sono di gran lunga gli animali da compagnia più diffusi qui in terra d’oriente.

    

A tal proposito, la sensibilità dei Cinesi per i loro amici volatili è così sviluppata che in alcune città ci sono vie e parchi che fanno da ritrovo per gli anziani ma dove, oltre a giocare a carte e fare quattro chiacchiere come ovunque nel mondo, questi portano con sé il proprio uccellino in gabbia in modo che anche lui possa avere compagnia e farsi nuovi amici.

  

Mercati e mercatini a parte, la città di Jiaxing ha alcuni altri luoghi di assoluto pregio come la pagoda di Haogu, ricostruita in tempi recenti, che si affaccia sulle sponde del Lago Meridionale e dalla cui cima si può godere di una vista affascinante, che fa vedere una città non molto ricca ma sicuramente armoniosa e ben tenuta,  immersa nel verde dei parchi e bagnata dalle acque di mille canali.

  

Dopo il tramonto, come un po’ tutte le città cinesi, Jiaxing diventa ancora più bella, vuoi per le luminarie  tradizionali che illuminano i vicoli del centro storico e si riflettono sui corsi d’acqua, vuoi per i mille negozietti  e bancarelle che restano aperti fino alla tarda sera per permettere a chi vuole girare un po’ la città di evitare il caldo torrido del pomeriggio.

 

Qua e là si possono vedere anche artisti di strada, musicisti tradizionali, gruppi corali e persino ballerine che si esercitano in mezzo alle piazzette illuminate soltanto dalle luci rosse delle lanterne.


Le luci colorate le abbiamo furbescamente sfruttate anche noi: l’exhibit che ha riscosso più successo qui (almeno tra i curatori del centro, espertissimi di eventi  scientifici e mostre sullo stile di Agorà) è stata la quadratura del cerchio, in cui avviene la dimostrazione di uno dei classici studi di Archimede con tutti gli annessi e connessi, tra cui come trovare un quadrato con la stessa area di un dato cerchio. L’exhibit consiste in una lastra circolare di plexiglass spessa circa 2 cm dentro cui viene proiettato un raggio laser che si riflette lungo la parete interna, disegnando un poligono il cui numero di lati può essere aumentato cambiando l’inclinazione del laser: più è alto il numero dei lati, più il poligono si avvicina all’area del cerchio. Il visitatore può cambiare questa inclinazione, e conseguentemente il poligono proiettato, semplicemente ruotando una manopola. Abbiamo constatato con piacere come questo fosse un qualcosa di inedito per il pubblico cinese che si è dimostrato difatti molto interessato alla nostra “quadratura”.

Un altro exhibit di grande successo riguarda gli studi di Apollonio di Perga sulle sezioni coniche ovvero ellisse, parabola e iperbole; nel nostro esperimento queste linee curve sono identificate utilizzando un laser (questa volta la proiezione di un piano e non di un raggio semplice) verso un doppio cono di plexiglass alto circa 2 metri: nell’oscurità le figure risaltano per bene ed hanno un grande effetto visivo. Questa non è altro che la riproposizione in grande stile di un classico exhibit scientifico in cui un cono di legno è ‘affettato’ in più parti che identificano le tre grandi famiglie di sezioni coniche, ma proposta in questa forma, grazie anche a una struttura ricoperta da tendoni neri che la circonda per creare il buio necessario, ha un fascino ben maggiore che sembra essere particolarmente apprezzato dal  pubblico.

Rinfrancati da questo agosto più vivace del previsto ci prepariamo ad affrontare gli ultimi giorni di mostra in questa accogliente città che ci ha offerto alcune gradite sorprese; prima di partire e ritornare a Shanghai c’è però ancora una tappa fondamentale da fare: la Capitale del Nord  mi attende nei prossimi giorni e, visto che le cose da vedere saranno tantissime mentre il tempo sarà estremamente limitato, bisognerà essere preparati per bene… seguirà un report completo sulla mia “maratona” pechinese, per cui tenete gli occhi aperti e le orecchie ben tese!

Zaijian,

fonso

Waterways

La Cina è una terra di ambienti estremi: dal clima temperato delle regioni centrali e orientali si passa alle foreste lussureggianti del Sud, in particolare nella splendida provincia dello Yunnan, per passare al freddo polare di alcune zone della Mongolia Interna e dell’immenso e desolato altopiano del Tibet (chiamato Xizang dai cinesi), fino ad arrivare agli aridi deserti, in particolare il Gobi a nord e il leggendario Taklamakan a nord-ovest, quest’ultimo attraversato da Marco Polo e da lui descritto con minuzia di particolari ne Il Milione.

Tutta la Cina orientale però, ovvero quella che noi occidentali conosciamo meglio, quella di Shanghai e Nanchino, di Pechino e di Hong Kong, ha nella sua interezza un elemento fondamentale che domina il paesaggio: l’acqua.

Acqua dei mari che la costeggiano a est, acqua dei suoi grandi fiumi (tra gli altri l’immenso Fiume Azzurro/Yangze e il Fiume Giallo), acqua dei laghi artificiali e naturali che abbelliscono alcune delle sue grandi città come Nanjing o Hangzhou, acqua delle risaie che scolpiscono e ridisegnano il paesaggio per centinaia e centinaia di chilometri, acqua del Grande Canale di cui ho parlato in un altro post, ed infine l’acqua che si insinua con stretti passaggi in mezzo alle case e abbellisce alcune cittadine storiche della regione dello Zhejiang, dove mi trovo attualmente.

Tra queste, due sono di particolare pregio ed interesse per i turisti soprattutto cinesi ma in qualche caso anche occidentali: Xitang e Wuzhen.

Approfittando dei giorni di libertà (il lunedì e il martedì il science center che ospita Agorà è chiuso) ho visitato questi scenic spots, entrambi a pochi chilometri di distanza dalla città di Jiaxing dove ci troviamo attualmente: a nord-est Wuzhen, ad ovest Xitang.

La prima che ho visitato, Wuzhen, può fregiarsi di un titolo molto più che onorevole, la Venezia d’Oriente. Il perché è abbastanza evidente: stretti canali di acque basse solcate da imbarcazioni tradizionali, piccole case in legno, alti e antichi ponti di pietra. Non c’è la laguna e San Marco, i gondolieri e l’acqua alta, ma con le dovute proporzioni anche questo antico villaggio nel suo piccolo ha un fascino che può riportare alla mente la Serenissima.

  

Popolato da circa diecimila residenti durante tutto l’anno e più o meno da altrettanti turisti ogni giorno di luglio e agosto, Wuzhen ha anche alcuni luoghi di assoluto interesse culturale: dalla casa che fu per anni del grande e amato scrittore del Novecento Mao Dun, attualmente trasformata in un museo sulla sua vita e le sue opere,

a un piccolo museo sugli usi e costumi tradizionali della Cina, con interni d’epoca, abiti tradizionali e riproduzioni di ambienti familiari appartenenti ad un mondo che ormai non esiste più,

 

a una chiatta attraccata in un’insenatura dove alcuni maestri di Kung Fu presentano ad ogni ora uno spettacolo dimostrativo sulla propria arte, la Kung Fu boat,

fino ad arrivare ad un’antica distilleria di baijiu, il tradizionale liquore di riso cinese, conservata perfettamente con tanto di strumentazioni e recipienti d’epoca.

Tra gli stretti vicoli che si snodano in mezzo alle case di legno si possono trovare numerosi artigiani tradizionali che hanno trasformato i propri laboratori in negozi di souvenir, dove però i turisti oltre a fare semplice shopping possono in più vedere la nascita sul momento dell’oggetto che acquistano: dalla coperta di lana al ventaglio decorato a mano, dalla collana alla statuetta in legno.

  

Mentre la mia visita a Wuzhen è avvenuta ‘in solitaria’ in pieno giorno, per Xitang ho accettato ben volentieri un invito dei colleghi a cenare e trascorrere la serata in una cittadina che mi avevano garantito essere ancora più bella ed affascinante, soprattutto perché quasi sconosciuta ai turisti occidentali.

 

Quasi sconosciuta perché, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, alcuni anni fa Hollywood è arrivata qui, portando fama e notorietà anche al di fuori della Cina. Qua e là infatti è possibile vedere qualche evitabilissimo cartello con su scritto Tom Cruise was here, o qualcosa del genere.

L’occidente, una volta arrivato, non è più andato via: è comparso in alcuni locali tradizionali tramutati nei più classici negozietti di souvenir, nei bar karaoke dove musicisti più o meno improvvisati suonano canzoni degli Eagles o dei Bon Jovi, nelle lanterne luminose galleggianti da lasciare sulle acque dei canali per esprimere un desiderio.

 

Se questo sia un bene o un male non lo so, certo è che parte del fascino antico del villaggio tradizionale cinese si è perso a discapito di un maggiore benessere economico, sicuramente apprezzato da chi a Xitang ci vive, ma va detto che in ogni caso la bellezza degli scenari e dei vicoli, delle case di legno e dei canali su cui si riflettono le luci delle lanterne rosse è assolutamente intatta, ed è questa, probabilmente, la cosa più importante.

 

Tutto questo mentre anche il lavoro fila via liscio senza intoppi: Agorà è ancora ospite di Jiaxing e qui vi resterà fino alla fine di agosto. I visitatori sono sempre interessati e attivi: vogliono toccare, provare, sperimentare tutto quello che c’è e sono curiosi soprattutto per quanto riguarda gli aspetti storici degli exhibit: da dove veniva Archimede, chi era Eratostene e come mai questo tal ‘Pitagora’ avesse reinventato un teorema che i Cinesi già conoscevano. Tutto questo è molto stimolante non solo per il confronto tra la cultura occidentale e quella orientale, ma soprattutto perché comincia veramente a delinearsi quella che è la conoscenza media del visitatore cinese: interessato, giocherellone, curioso, spesso già a conoscenza dei contenuti scientifici degli exhibits e allo stesso tempo ignaro di quelli storici, il che è normale visto che invece noialtri occidentali sappiamo poco o nulla dei grandi scienziati e matematici dell’antica Cina.

Tra l’altro, per restare in tema col post, anche Agorà ha un pochino di acqua nei suoi exhibits: la celebre coclea o vite di Archimede di cui vi ho già parlato solleva e trasporta l’acqua, mentre l’esperimento della sfera e il cilindro la sfrutta per dimostrare uno dei teoremi di cui lo scienziato siracusano andava più fiero: una sfera occupa esattamente due terzi del volume di un cilindro avente uguale raggio. Per dimostrarlo nulla di più semplice che calare una sfera in un cilindro dello stesso diametro, pieno per un terzo di acqua: una volta che questa tocca il fondo il livello dell’acqua sale fino a raggiungere esattamente la sua altezza, dimostrando visivamente un teorema geometrico ancora fondamentale ai giorni nostri.

Di sicuro da qui al suo ritorno in Italia questa sfera dovrà andare su e giù ancora qualche migliaio di volte per soddisfare la curiosità e la voglia di sperimentare di bambini e adulti cinesi, desiderosi di conoscere il pensiero e le scoperte di un uomo vissuto oltre 2000 anni fa, e, di questo siamo certi, Archimede ne sarebbe orgoglioso; ma anche noi umili divulgatori che la sua scienza semplicemente diffondiamo, potremo vantarci di aver esportato le sue scoperte fin nella Terra di Mezzo, e anche queste nel loro piccolo son soddisfazioni.

Zaijian,

fonso

Chop(sticks) suey!

“Hello!”

“Hello! Huh, chefan le ma?”

“Chefan le ma! Good, do you speak Chinese?”

“No, no, just few words…”

“Ni shi na guò ren? Where are you from?”

“Wo shi Yidaliren, Italy”

“Ahh, Audalia, dué dué!”

“No, not Australia! Yidali, Italy, Italia!”

“…”

“Ehrr… noodles, you know? Pizza….”

“…”

“Venice, Rome, Na-po-li… Sicily?”

“Sicily? Godfader? Maf-fia? Aaaah, Yidaliren, Italia, cool, maf-fia, gangster, ratatatata..”

“Yes, we have also maf-fia, but it’s not cool, not ratatatata, it’s bad people”

“…”

“Well, nevermind.”

Gli incontri occasionali con la gente che ti ferma per strada e ti fa domande come se provenissi da Marte sono una delle parti migliori di questo viaggio. Ovviamente non parlo di Shanghai o Hangzhou, città turistiche dove i lao wai si incontrano frequentemente e la gente parla bene l’inglese, ma di posti come Jiaxing dove mi trovo ora, o Taicang, dove in due settimane di occidentali ne avrò incontrati sì e no cinque. Dai bambini che sgranano gli occhi, sussurrano qualcosa al papà o alla mamma e partono a fissarmi (e ai quali ovviamente rispondo al fissaggio, di solito condendo il tutto con un sorrisone per non spaventarli più di tanto) si passa alla gente per strada che ti saluta con un Hello o un How are you? occasionale, per arrivare ai più curiosi che si gettano in conversazioni  casuali, cercando di inquadrare la mia origine e quasi sempre tentano la carta australiano, che si trova piuttosto frequentemente in Cina. Probabilmente con qualche lentiggine in meno e un colorito un po’ più scuro passerei per pakistano, quindi direi che poco mi cambia, soprattutto per il fatto che Yidali e Audalia hanno due ideogrammi e relativi suoni in comune, quindi sono facilmente scambiabili e di sicuro in posti come questi di italiani se ne sono sempre visti ben pochi.

Il muro più invalicabile per un occidentale che cerchi di entrare in contatto con i Cinesi è sicuramente una lingua che, pur non essendo particolarmente complicata dal punto di vista della grammatica, mette a dura  prova la memoria di chi la deve imparare da zero: oltre 4800 ideogrammi nella sua versione semplificata, cinque suoni diversi per le vocali e un sistema di traslitterazione con i caratteri occidentali (l’Hanyu Pinyin) che non risolve tutto: shi, tanto per fare un esempio, significa tra le altre cose: l’affermazione sì, il verbo essere al presente, il sostantivo città e il numero 10. Il tutto, associato alla mia memoria da pesce rosso, è un discreto problema ma sono sicuro che ben pochi stranieri possano vantarsi di aver imparato il mandarino in pochi mesi: bisogna dare tempo al tempo. Pace, si studierà  senza fretta.

Un altro elemento di distacco, in questo caso però ampiamente superabile, è dato dal mangiare, o meglio dal modo di mangiare che si ha qui: ciotole, cucchiaio, e, soprattutto, bacchette.

Non ho avuto grossi problemi i primi tempi in Cina dato che sono un appassionato di sushi e sashimi e quindi avevo già una certa dimestichezza con l’utilizzo dei bastoncini, ma a lungo andare sono migliorato in maniera esponenziale, fino a raggiungere un livello di precisione che non avrei mai immaginato. Ora afferro senza grossi problemi oggetti scivolosi e guizzanti come uova di quaglia o verdure in salsa di soia, o di minime dimensioni come arachidi, piselli e addirittura chicchi di riso: a conti fatti con un po’ di esercizio il loro utilizzo non è per niente difficile se si ha la corretta impugnatura.

Per fortuna ho scoperto di avere già quella che è proprio la giusta impostazione, come mi hanno confermato i colleghi cinesi:

la bacchetta inferiore va appoggiata sull’anulare e tenuta fissa, quella superiore è mobile ed è afferrata  da pollice e indice, con il medio in mezzo alle due bacchette. La cosa mi ha stupito perché ero abbastanza sicuro che l’impostazione corretta non prevedesse il medio in mezzo alle due bacchette , ma sotto alla seconda: mi hanno detto che è un modo di prenderle sbagliato anche se molto diffuso persino in Cina. Quello su cui devo migliorare è il punto in cui le bacchette vanno afferrate, ovvero verso l’esterno e non poco dopo la metà come faccio io: tenendole così si può avere una presa più forte con minor sforzo e soprattutto domare i soy noodles, i cortissimi spaghetti di soia, ben diversi da quelli che si mangiano nei ristoranti cinesi in Italia; qui sono molto più corti, spessi, sdrucciolevoli e continuano a sfuggirmi, non c’è verso!

Oltre alla tecnica c’è anche il galateo: le bacchette non vanno usate per indicare una persona e in generale si usano solo per mangiare, non per fare gesti; nel tipico pranzo ‘a banchetto’, dove tutti mangiano le diverse portate presenti su una base rotante al centro di un tavolo rotondo, non si può prendere qualcosa, esaminarlo e poi posarlo di nuovo: l’hai preso, ormai è tuo! Inoltre non si infilza il cibo con le bacchette, non sono stuzzicadenti; non si leccano; non si infilzano in verticale nella scodella di riso: quello è un antico rito per venerare i morti che viene fatto unicamente davanti alle tombe o agli altari di famiglia.

Va detto che a livello di praticità le posate occidentali rimangono comunque più comode e più pratiche, non tanto per chi mangia (che comunque può adattarsi senza grossi forzi), ma per chi cucina: eh sì, perché forse non ci avete pensato, ma quello che arriva a una tavola in cui i commensali utilizzano le bacchette deve essere tagliato in pezzi sufficientemente piccoli da costituire un boccone! Alcuni amici mi hanno fatto notare che in effetti una gran parte del tempo che impiegano i cuochi cinesi per preparare le pietanze è dedicato al loro taglio in pezzi piccoli, e qua e là per le strade si possono vedere negozi interamente dedicati alla vendita di coltelli da cucina di ogni forma, misura e utilizzo possibili. Nulla da dire però sulla bellezza dell’oggetto in sé, infatti esistono anche negozi che vendono esclusivamente set di bacchette, spesso finemente ornate, come oggetto regalo; mi è venuto il dubbio che però questa sia più un’usanza turistica, avendo trovato questi chopsticks shops solo a Shanghai e Yangshuo e non nelle altre città. Indagherò…

 

Per  chi avesse nostalgia di casa c’è comunque un modo per mangiare spaghetti con la forchetta (!) che è diffusissimo qui in Cina: si tratta degli instant noodles, ovvero come prepararsi un pranzo rapido e più o meno completo in pochi secondi, spendendo qualcosa come 3 yuan a confezione (circa 30 centesimi di euro); si tratta di variopinte confezioni di cartone che si trovano in tutti i negozi e supermercati, spesso con etichette così accattivanti che è difficile resistere al loro richiamo.

All’interno si trovano degli spaghettini liofilizzati, una bustina di polvere simil-dado da brodo, delle spezie e un sacchettino con un condimento variabile (carne, pesce o verdure a seconda dei gusti) anch’esso liofilizzato. Il tutto insieme alla magica forchettina pieghevole che non manca mai.

Utilizzando quei bollitori elettrici che si trovano ovunque negli appartamenti e nelle stanze d’albergo cinesi si aggiunge acqua calda e si aspettano alcuni minuti.

Il risultato finale sono una sorta di spaghetti in brodo di solito molto piccanti e gustosi, a cui è difficile rinunciare una volta che si è entrati nel tunnel: creano veramente dipendenza, c’è poco da fare.

E questo nonostante quasi chiunque mi abbia detto che non sono proprio il massimo per la salute: ma perché, in fondo sono spaghetti in brodo, cos’altro ci dovrebbe essere dentro? In ogni caso guardando in giro mi è capitato di vedere gente mangiare gli instant noodles nei posti più disparati: per strada, in macchina(!), nei musei in cui ho lavorato (non i dipendenti, proprio i visitatori!) e persino in treno: ma dove diavolo l’hanno recuperata l’acqua bollente?!

Credo sarà uno dei misteri della Cina che mai riuscirò a risolvere. Mi concentrerò sul problema mentre mi alleno con le bacchette su un piatto di soy noodles, dato che il tutto dovrebbe impegnarmi per alcune ore.

(AGGIORNAMENTO: finalmente si è scoperta la verità! In quasi ogni locale, treno o persino bagno pubblico della Cina c’è un bollitore automatico che dispensa acqua calda gratuitamente per i milioni di passanti, viaggiatori e gente comune che bevono il proprio té in giro per il paese! Le sorprese qui non finiscono proprio mai…)

Zaijian,

fonso

Poesie T’ang

Circa 50.000 poesie di oltre 2000 poeti: l’epoca della dinastia T’ang (618 – 909 d.C.) rappresenta l’apogeo della lirica cinese, e quanto riportato qui non è che qualche esempio di questa infinità, tratto da una vecchissima raccolta in italiano che ho trovato per caso su uno scaffale impolverato, rimasta lì e dimenticata per decine di anni.  Niente traslitterazioni, niente lirismi all’italiana: queste sono le traduzioni pure e semplici dal cinese antico, e anche se meno accessibili e poetiche che delle parafrasi, in esse il sapore e il mistero di un mondo arcaico e lontano sono stati lasciati inalterati dai traduttori.

Sospiro femminile

Conscia che la bellezza è la mia sfortuna, con sospiro affronto lo specchio. 
Per piacere a un signore incontentabile, come debbo adornarmi?
Quando il vento è caldo, gli uccelli si adunano a cantare. 
Quando il sole è alto, crescono le ombre dei fiori. 
E là nel sud le fanciulle, di anno in anno, 
colgono l'ibisco sognando l'amore.

(Tu Hsün-hê, morto nel 904)

L'oca selvatica sperduta

Linea dopo linea il mio stormo ha passato il confine; 
tu, dove sei diretta ora, così sola? 
Nella pioggia della sera chiami le compagne; 
poi lentamente scendi sopra una gora ghiacciata. 
Lungo le mura le nubi umide e basse 
corrono più veloci di te verso la fredda luna.
Se ti prendesse una rete o una freccia, 
sarebbe per te peggio che volare così sola?

(Ts'ui T'u, diplomatosi nell'888)

Smarrimento

Lontano da casa anelavo notizie, dall'uno all'altro inverno, 
di primavera in primavera.
Ora che m'avvicino al mio villaggio, 
incontro gente e non oso fare domande.

(Li P'in, diplomatosi nell'854)

Flauto notturno

Sotto la montagna di confine la rena biancheggia come neve; 
fuori delle mura la luna spande gelo. 
Qualcuno, chissà dove, suona un flauto, 
e i soldati per tutta la notte languono di nostalgia.

(Li I, morto nell'827)

Per un amico disperso in guerra

L'anno scorso con i tuoi soldati partisti per il Tibet; 
quando la schiera scomparve oltre le mura, 
le notizie fra i due mondi si ruppero come fra vivi e morti.
Nessuno sinora si è imbattuto in un cavallo 
che fedele custodisse una tenda calpestata, 
una lacera bandiera, una tua traccia. 
Se avessi una certezza, ti venererei nel tempio; 
invece spargo queste lacrime guardando il cielo lontano.

(Čang Či, diplomatosi nel 799)

Inverno

Cento montagne e non un uccello, mille sentieri e non un'impronta. 
Una barchetta, un mantello di bambù, 
un vecchio pescatore sulla nevosa riva del fiume.

(Liu Tsung-iüan, 773-819)



Nel palazzo imperiale

Si è consunta nel pianto; ora sogni non giungono a consolarla.
Ode le altre cantare nella notte, mentre essa ha perduto il suo amore.
Sola con la sua bellezza, veglia sino all'alba, 
appoggiata al cuscino che odora di incenso.

(Po Kiü-i, 772-846)

Poesia scritta per musica

Gli alberi della lacca maturano a coppie, 
le oche mandarine muoiono a fianco. 
Quando una fanciulla dal cuore puro ama soltanto il compagno, 
in una vita esemplare per fedeltà, 
quale onda può giungere a turbare un'anima 
che è simile all'acqua di un profondissimo pozzo?

(Mêng Kiao, 751-814)

Congedandosi da Wang Wêi

Di giorno in giorno ho rimandato, riluttante e pigro; 
ma ora devo proprio partire. 
Ameni sarebbero i fiori sull'orlo della strada 
se non significassero l'addio, vecchio amico. 
I signori del regno sono duri con noi, 
che non rassomigliamo ad uomini d'affari.
Me ne tornerò a casa, non voglio dirti altro; 
dietro a me chiuderò la porta del vecchio giardino.

(Mêng Hao-žan, 699-740)

Ancoraggio notturno

Mentre la mia barchetta si muove sopra il suo ormeggio nella nebbia 
e svanisce la luce del giorno, cominciano a tornare i vecchi ricordi.
Di quando il mondo era vasto e gli alberi toccavano il cielo 
e limpida era nell'acqua la vicina luna.

(anonimo)

La festa della montagna

Mentre solo dimoro in terra straniera, 
una doppia nostalgia soffro in questo giorno: 
i miei fratelli salgono per il monte portando rami di corniolo, 
ognuno il suo, ed il mio ramo manca.

(anonimo)

Eremo buddhista sui monti 

Nel puro mattino, presso il vecchio tempio, 
il primo sole tocca le vette degli alberi; 
attraverso un quieto recesso di alberi e fori, 
il sentiero mi guida all'eremo buddhista. 
Qui gli uccelli fremono nella luce del monte, 
qui la mente raggiunge la pace in una polla d'acqua; 
mille suoni sono placati da un soffio della sacra campana. 

(Č'ang Čien, diplomatosi nel 727)