La moltitudine dei numeri primi

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Magicicada septendecim (Martin Hauser/Wikimedia Commons)

Nel 1749 Pehr Kalm, naturalista svedese in visita negli Stati Uniti, osservò la comparsa improvvisa di enormi popolazioni di cicale che emergevano dal suolo, mutavano alla forma adulta e iniziavano i loro canti dedicati alla ricerca del partner. Dopo poche settimane di frenetico accoppiamento e dopo la deposizione delle uova, l’incredibile moltitudine di insetti scompariva così com’era apparsa. I numeri erano impressionanti: le popolazioni dei boschi di Pennsylvania e New Jersey studiate da Kalm raggiungevano l’incredibile densità di oltre 300 animali per metro quadrato. E non era tutto: alcune testimonianze storiche sembravano confermare che questi eventi si verificassero ciclicamente alla fine di maggio, ma non di ogni anno: le cicale emergevano dal suolo per riprodursi solo ogni 17 anni! Da nessuna altra parte del mondo si aveva notizia di insetti con un ciclo vitale così lungo. Così lo scienziato scandinavo, una volta tornato in patria, portò alcuni esemplari di queste cicale al suo connazionale Carlo Linneo, che li inserì nel suo Systema naturae col nome scientifico Cicada septendecim.

Questi animali, oggi rinominati in Magicicada septendecim, non sono un caso isolato: esistono altre due specie di cicale nordamericane con ciclo vitale di 17 anni, e altre quattro con un ciclo di 13. La loro esistenza è suddivisa in un lunghissimo periodo trascorso sotto forma di ninfe nel sottosuolo, dove si nutrono della linfa ricavata dalle radici degli alberi, e quei 40-50 giorni dedicati alla riproduzione, una volta emerse da terra: i maschi cantano per attirare le femmine silenti e, dopo la deposizione delle uova, tutti gli adulti muoiono. Le cicale emergono da terra a fine maggio, e per metà-fine luglio l’incredibile moltitudine è scomparsa, per riemergere dopo 13 o 17 anni, esattamente nello stesso bosco. Per fortuna degli entomologi, non bisogna aspettare così a lungo per studiare le cosiddette periodical cicadas: esistono circa trenta differenti popolazioni (chamate broods e indicate con numeri romani), distribuite lungo gli stati nordorientali degli Stati uniti, che emergono alternativamente a seconda della zona, e quindi in anni differenti. Così, viaggiando di stato in stato, è possibile più o meno ad ogni tarda primavera vedere le Magicicada emergere dal suolo a miliardi.

Le cicale adulte hanno occhi rossi e le ali venate di arancione. Volano poco e goffamente e sono quasi del tutto incapaci di sfuggire ai predatori, che per giunta sono tantissimi: corvi, lucertole, piccoli mammiferi le mangiano, e in passato persino gli uomini facevano parte dei loro nemici, visto che nella tradizione dei nativi americani costituivano un pasto molto apprezzato. La loro unica difesa dai predatori è data dai numeri: miliardi e miliardi di esemplari concentrati in pochi ettari di bosco sono semplicemente troppi, non esistono predatori in numeri tali da poter sfruttare appieno una simile disponibilità di cibo. Verrebbe però da pensare che la selezione naturale avrebbe dovuto in qualche modo approfittare di questa abbondanza, ma così non è stato. E qui entrano in gioco i numeri.

Eh sì, perché sia 13 che 17 sono numeri primi: sono divisibili solo per 1 e per se stessi, e quindi tutti quei predatori con cicli vitali di 2, 3 o 4 anni (ad esempio) soltanto in pochi fortunati frangenti avrebbero potuto godere appieno dell’abbondanza di cicale, che li avrebbe tra l’altro “colti di sorpresa” dal punto di vista evolutivo. Di solito, infatti, le popolazioni di prede e predatori hanno cicli simili, e i loro numeri aumentano o diminuiscono ciclicamente a seconda della presenza o assenza degli altri: troppi predatori fanno diminuire i numeri delle prede e meno prede, a loro volta, influiscono negativamente sulle popolazioni di predatori. Ma per le “cicale dei numeri primi”, evidentemente, nessun predatore è riuscito ad adattarsi a questi cicli vitali così lunghi. Sebbene non si tratti di un’ipotesi condivisa da tutti i biologi, questo evento è comunque affascinante e sorprendente.

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Femmina di Magicicada cassini appartenente al Brood X (C. simon/Wikimedia Commons)

Alcuni scienziati hanno avanzato l’ipotesi che queste frequenze basate sui numeri primi siano comparse in seguito alle glaciazioni: le popolazioni delle cicale periodiche vivono infatti in territori toccati dall’ultimo di questi eventi, circa 20.000 anni fa. Gli insetti, secondo questa ipotesi, potrebbero aver prolungato i loro periodi vitali per emergere soltanto in quelle primavere favorevoli alla riproduzione. D’altra parte ancora oggi ci sono parametri fondamentali che fanno capire agli animali quando è ora di emergere: se a 20 centimetri di profondità la temperatura supera 17,9° C, è giunto il momento di uscire alla luce del sole. Così, sarebbero comparse cicale con cicli vitali variabili dai 12 ai 20 anni, e di queste sarebbero state selezionate quelle con i periodi a cui più difficilmente i predatori avrebbero potuto adattarsi, e quindi quelli di 13 e 17 anni. Secondo altre teorie, la presenza di popolazioni con cicli di 13 e 17 anni di specie diverse avrebbe impedito fenomeni di ibridazione: in fondo, questi eventi si sovrappongono soltanto ogni 13×17, e quindi 221, anni: una frequenza sufficientemente alta per abbassare di molto questo rischio. Va detto però che esistono alcune popolazioni di specie diverse che emergono tutte insieme negli stessi boschi e con cicli perfettamente coordinati per avere numeri ancora più grandi e proteggersi meglio dai predatori, ma in questi casi le cicale coinvolte sanno riconoscere perfettamente chi appartiene alla propria specie e chi no, evitando così il rischio di ibridazioni.

Ancora adesso le popolazioni di cicale hanno al loro interno alcuni individui che “provano” una differente via evolutiva, ad esempio emergendo con qualche anno di anticipo, ma di solito la loro sorte è segnata in partenza: senza la protezione data dai grandi numeri, una cicala goffa, colorata e rumorosa è una preda troppo facile, e a causa della sua “uscita” anticipata ha inoltre molte meno possibilità di trovare un partner. Tra queste “schegge impazzite”, però, qualcuna ha successo: può capitare infatti che gli adulti migrino per qualche chilometro e sovrappongano il loro areale a quello di altre cicale, già dormienti nel sottosuolo. Quei pochi “mutanti” che emergeranno in corrispondenza della popolazione locale otterranno così gli stessi vantaggi degli insetti già presenti. E non è infatti un caso che i biologi appassionati di Magicicada abbiano scoperto che questi passaggi di individui in altre popolazioni, con relativo adattamento dei propri cicli vitali, non siano poi così rari, così come sono piuttosto frequenti anche i passaggi da cicli di 13 a cicli di 17 anni (o viceversa) per molti individui. Come avviene spesso per gli animali che vantano grandi numeri, l’evoluzione, in un certo senso “prova” nuove soluzioni con le mutazioni dei singoli individui. E i risultati, come nel caso delle “cicale dei numeri primi”, possono essere sorprendenti.

Se non vi bastasse sapere questo e state già programmando un viaggio negli Stati Uniti a caccia delle moltitudini di cicale appassionate di matematica, sappiate che il sito www.magicicada.org vi fornisce, quasi in tempo reale, tutte le informazioni aggiornate sulle emersioni e le previsioni di tali eventi. Se invece vi accontentate di restare dietro la vostra scrivania, questo bel video legato a un progetto di crowdfunding di un documentario a tema, è sicuramente adatto a voi.

Return of the Cicadas from motionkicker on Vimeo.

Dinosauro sì, dinosauro no

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Allosauro (Domser/Wikimedia Commons)

Poche certezze ci sono ancora rimaste nella vita, ma una di queste è sicuramente il nostro amore indiscusso per i dinosauri. E sì che in questi ultimi anni i paleontologi, con il loro maledetto zelo, ci hanno provato in tutti i modi a farci abbandonare questa passione: ad esempio ricoprendo i nostri animali preferiti di penne multicolori e così togliendo loro gran parte di quel fascino ancestrale di bestie feroci e temibili che avevano fino a pochi anni fa. E non è finita qui, perché il vostro dinosauro preferito di quando eravate bambini potrebbe, in effetti, non essere affatto un dinosauro.

Molto semplicemente, non tutti i grandi rettili estinti sono dinosauri. E già così si potrebbe risolvere la questione. Ma forse è meglio chiarire per bene che cos’è un dinosauro, o almeno quali sono i suoi tratti salienti, dato che in molti li ignorano.

Innanzitutto, il periodo di tempo in cui sono esistiti: si stima che i dinosauri siano comparsi durante il Triassico superiore, quindi circa 230 milioni di anni fa e che, come ben sappiamo, siano scomparsi intorno a 65 milioni di anni fa, a causa di quell’evento cataclismico che sconvolse la Terra alla fine del Cretaceo. E già qui i più ferrati capiranno che almeno un animale che spesso viene ascritto ai dinosauri in realtà sia ben distante da loro e anzi sia più vicino, a livello di parentela, a noi mammiferi: il dimetrodonte. Forse il nome non a tutti ricorda qualcosa, ma se vedete una sua immagine capirete benissimo di chi stiamo parlando: quella vela sul dorso e quell’aspetto vagamente rassomigliante a un’iguana ci è sicuramente familiare, avendolo visto in decine di libri e documentari.

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Dimetrodonte (Dmitry Bogdanov/Wikimedia Commons)

Ebbene, il buon dimetrodonte visse sulla Terra nel Permiano inferiore, quindi 280-265 milioni di anni fa circa: molto prima dei dinosauri. E quella vela sulla schiena, presumibilmente usata per la termoregolazione, ci dovrebbe in qualche modo far pensare proprio al sangue caldo, che è caratteristica tipica dei mammiferi ma non dei rettili odierni. Il dimetrodonte infatti appartiene alla linea evolutiva che ha portato ai mammiferi attuali.

Ma anche l’anatomia è un elemento importantissimo per distinguere i dinosauri dagli altri gruppi tassonomici di rettili estinti. In particolare le nostre lucertole terribili, come le aveva battezzate Richard Owen nel 1842, in realtà lucertole non erano affatto: la conformazione dell’anca nei dinosauri consentiva loro di mantenere le gambe al di sotto del resto del corpo e non a lato, come invece avveniva e avviene tuttora per i sauri. Quindi già con un rapido colpo d’occhio possiamo fare le prime distinzioni e applicarle, ancora una volta, al nostro amato dimetrodonte che in effetti teneva le zampe di lato.

Se poi ci concentriamo sulle caratteristiche dello scheletro altre differenze saltano agli occhi e la prima, la più importante a livello di classificazione, si può trovare nel cranio: i dinosauri erano rettili diapsidi, quindi con due fori presenti su ogni lato della testa per permettere l’attacco di muscoli della mascella grandi e particolarmente potenti. Molti altri rettili e gli attuali mammiferi sono invece sinapsidi, quindi con una sola apertura: nel cranio dell’uomo è poco dietro l’aggancio tra mandibola e mascella.

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Cranio di diapside (Preto/Wikimedia Commons)

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Cranio di sinapside (Preto/Wikimedia Commons)

Evitiamo di addentrarci ulteriormente nel dettaglio anatomico per concentrarci invece sull’ambiente di vita. E qui salta fuori l’ennesimo colpo di scena: tutti i dinosauri vivevano sulla terraferma, nessuno escluso. Quindi, molto semplicemente, non sono esistiti dinosauri marini e quel celebre ittiosauro, che fu tra i primi oggetti di studio del buon Gideon Mantell, non era affatto un dinosauro. Idem come sopra per gli altrettanto celebri plesiosauri che qualcuno ha associato, con molta fantasia, al mostro di Loch Ness dei giorni nostri.

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Californosaurus perrini, un ittiosauro nordamericano (Nobu Tamura/Wikimedia Commons)

Si trattava di linee filetiche a sé stanti che hanno convissuto per un certo periodo con i dinosauri e che, in alcuni casi, ne hanno condiviso la sorte. Ma la grande estinzione di fine Cretaceo, come ben sappiamo, ha spazzato via molti più gruppi di animali dei soli dinosauri. E forse anche la concorrenza diretta, in altri casi, li ha fatti scomparire: gli ittiosauri ad esempio si sono estinti ben prima e probabilmente proprio per essere entrati in conflitto diretto con plesiosauri e simili.

So già a cosa state pensando adesso: e allora, tutti quei grandi rettili alati, lo pterodattilo, lo pteranodonte? Neppure loro erano dinosauri? Ebbene no, anche se si trattava effettivamente di rettili diapsidi e per di più vissuti nel periodo storico “giusto”. Presumibilmente non erano neanche lontanissimi a livello di parentela, ma non erano dinosauri neanche loro. Neppure il mastodontico Quetzalcoatlus, con i suoi maestosi 12 metri di apertura alare che lo resero il più grande essere vivente in grado di solcare i cieli e che ancora adesso smuove la nostra fantasia. Ma in questo caso il punto cruciale da tenere bene a mente è molto, molto semplice, ed è quello con cui abbiamo cominciato il nostro discorso: “grande rettile estinto” non significa automaticamente “dinosauro”.

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Arambourgiania, Nyctosaurus e Quetzalcoatlus (Manedwolf/Wikimedia Commons)

Tutti questi aspetti poco conosciuti dal grande pubblico devono farci riflettere su molte cose: innanzitutto su quanto varia e insolita sia stata la vita sulla terra nei milioni, o meglio miliardi, di anni trascorsi dalla sua comparsa, ma soprattutto sul non fissarci troppo su una sua visione eccessivamente legata alla fiction, sia essa film, tv, fumetti, merchandising o quant’altro: per chi vi vende un giocattolo o un film può essere necessario associare le bestie terribili che rappresentano a un nome ben chiaro e identificabile (e che per giunta fa vendere bene), ma per chi questi animali li studia la faccenda è ben diversa. Soprattutto non illudiamoci che la scienza, e in particolare una sua branca particolarmente complessa come la paleontologia, possa in qualche modo venire incontro alle necessità commerciali di film o racconti.

Ovviamente questi sono solo alcuni brevi spunti di riflessione. Se volete un approfondimento ben fatto, vi suggerisco di leggere questo ottimo articolo su Earth Archives, scritto da Franz Anthony. Vi suggerisco anche di supportare il lavoro dell’illustratore “preistorico” Julio Lacerda (qui trovate la sua pagina facebook, mentre qui il suo blog), dato che è davvero di altissimo livello. Se volete fare bella figura alle cene poi, ricordatevi che in realtà i dinosauri non si sono estinti, ma ci stanno volando sopra la testa: gli uccelli derivano infatti da una linea filetica di dinosauri teropodi.

Se invece volete sbizzarrirvi e andare a conoscere nel dettaglio tutti – o quasi – i fossili attualmente conosciuti, il sito Paleobiology Database è quello che fa per voi. Buon divertimento!

 

Dall’Africa all’Australia per salvare i rinoceronti

(foto: Manfred Heyde/Wikimedia Commons)

Ho letto di recente su Australian Geographic una notizia a dir poco insolita: alcuni rinoceronti sono stati catturati in Africa, trasportati prima in Sudafrica per un periodo di quarantena, per poi essere condotti in una riserva in Australia, come gesto estremo di protezione nei confronti dei bracconieri. A quanto pare infatti, sul continente nero la battaglia di protezione degli animali nei confronti del mercato nero del corno (venduto in Cina e in varie altre zone dell’Asia come afrodisiaco) sembra essere ormai persa: troppo pochi i mezzi a disposizione di guardacaccia e istituzioni per poter fronteggiare a un nemico più forte, più ricco e meglio organizzato. E così, questo programma, ideato e portato avanti da Ray Dearlove, cresciuto in Sudafrica e oggi residente a Sydney, prevede il trasporto di un’ottantina di rinoceronti nel parco zoologico di Taronga Western Plains in Dubbo, nel New South Wales, dove gli animali trascorreranno altri sessanta giorni di quarantena. Verranno in seguito trasferiti in un’altra riserva, che con ogni probabilità sarà il Monarto Zoo’s safari park, vicino ad Adelaide; qui potranno riprodursi e mantenere in vita un numero sufficiente di esemplari da reintrodurre in seguito in Africa. Il programma sarà completato nel giro di quattro anni.

Questa scelta, purtroppo, è un segno del dramma che la fauna africana sta vivendo da alcuni decenni a questa parte. I numeri sono impressionanti: tutte le popolazioni delle più note specie selvatiche del continente stanno progressivamente diminuendo. E il processo sta andando avanti a una velocità ineguagliata in passato, al punto che al momento non si riescono a trovare rimedi che possano garantire un futuro sicuro alle specie colpite dal bracconaggio. O almeno, non sul suolo africano. L’esempio più lampante è dato proprio dalle popolazioni di rinoceronte: in Sudafrica, nel 2007, i cacciatori di frodo ne avevano uccisi 13; nel 2014, gli abbattimenti sono saliti a 1215, ossia il 9000% in più.

Eppure una soluzione come quella del trasferimento degli animali, per quanto motivata dalle migliori intenzioni, sembra azzardata su tanti punti. Tanto più che la destinazione degli animali interessati è proprio l’Australia, quella terra su cui ormai, quasi per definizione, non andrebbero introdotti animali alloctoni: sulla piaga dei conigli europei importati nell’Ottocento e che ancora adesso pascolano indisturbati a milioni per le praterie del continente non mi dilungo, se non per sottolineare come questo sia un esempio rappresentativo di un gigantesco errore. Chiaro, ben altra cosa sono dei rinoceronti, tanto più che verranno numerati, rilasciati in un’area controllata e recintata, il tutto dopo un periodo di quarantena. Ma se comunque introducessero parassiti dannosi per altri animali? O se perissero a causa di malattie locali o incapacità di adattarsi al nuovo ambiente? Temo che questo tipo di operazione, per quanto coraggiosa, porti con sé enormi rischi. Ma soprattutto, ci porta a riflettere sul dramma dell’attuale situazione africana nei confronti della tutela dell’ambiente.

Ormai la guerra al bracconaggio richiede altri metodi, differenti da quelli utilizzati finora: i guardacaccia e tutte le persone coinvolte in questa guerra senza quartiere devono avere maggiori mezzi a disposizione, guadagnare ben di più (anche la corruzione è un elemento da non sottovalutare) e utilizzare nuovi sistemi. Un esempio è dato dal taglio del corno, che ormai viene frequentemente effettuato dalle pattuglie antibracconaggio per rendere gli animali di nessun interesse per i commerci illegali, un altro è la distruzione immediata dei materiali sequestrati al commercio illegale. Di recente il Kenya si è distinto per aver realizzato il più grande rogo della storia di zanne di elefante, corni di rinoceronte e altro materiale originato dal bracconaggio: beni che andavano distrutti in quanto sequestrati ai cacciatori di frodo certo, ma comunque di grande valore. Purtroppo però entrambe queste strategie portano scarsi risultati: i rinoceronti senza corno vengono comunque abbattuti per scavare sul moncherino del corno quel poco di materiale rimasto (un chilogrammo di corno ha un valore commerciale di 60.000 dollari), mentre il sequestro dei materiali ai bracconieri non evita l’abbattimento degli animali.

Forse la strategia scelta dalla grande Dian Fossey, anche se nel suo sfortunato caso le è costata la vita, è la strada da seguire: una lotta frontale e senza esclusione di colpi al bracconaggio. Nessuno spazio di manovra lasciato ai cacciatori di frodo, nessun permissivismo, nessun insabbiamento. E soprattutto, in futuro bisognerà pensare sempre di più al soldo: finché uccidere rinoceronti per il loro corno o elefanti per le loro zanne si rivelerà un’attività proficua, o perlomeno più redditizia della loro tutela, la battaglia sempre persa. Speriamo di capirlo per tempo, in modo da poter permettere a chi verrà dopo di noi su questo pianeta di godere di tutte le sue bellezze.