Tra bioetica e mammut

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Un gruppo di mammut lanosi (Mammuthus primigenius) in un’illustrazione di Mauricio Antón (foto: Wikimedia commons)

Un’interessante notizia ha fatto il giro del mondo alcuni giorni fa: un gruppo di scienziati di Harvard, guidati dal famoso genetista George Church, ha inserito frammenti di DNA di mammut nel codice genetico di un elefante indiano, e le cellule così ottenute per ora sembrano sopravvivere bene in un ambiente di laboratorio (su piastre di Petri).

Il DNA apparteneva a un esemplare proveniente dall’isola di Wrangel, a nord della Siberia, dove gli ultimi esemplari di mammut sono sopravvissuti fino al 1700 a.C. circa, quindi molto dopo l’estinzione di tutti gli altri. La scoperta non è stata ancora pubblicata su una rivista scientifica peer-reviewed, ma il team di Church è al lavoro per elaborare i dati, in modo da presentarli al più presto. Questa notizia dovrebbe rappresentare un grosso passo avanti verso la possibilità di clonare l’animale, ma il lavoro di ricerca (e le evidenti difficoltà nel recuperare un completo codice genetico almeno da un animale) sembrano far capire che l’attesa sarà ancora lunga.

A conferma di questo, c’è una lunga lista di tentativi di clonazione nel passato, e speranze, tutte disattese, che ci fanno molto chiaramente intuire che anche questo progetto potrebbe portare a un nulla di fatto. Il caso più celebre è il tentativo operato da un team di scienziati russi e giapponesi, guidati da Akira Intani, che dopo circa vent’anni non ha portato risultati significativi.

Il professor Frans de Waal, da persona intelligente qual è, ha subito sollevato alcuni dubbi condivisibilissimi tramite la sua pagina facebook:

BRINGING BACK THE MAMMOTH
Do we really want to do this?
As every biologist, I am mightily curious, and would be delighted to see a mammoth. I’d love to study their behavior. But is this a reason to bring the species back? What about the ethics of it? For example, what would prevent them from being hunted for ivory?
I also don’t know what to make of the following statement in the article … “Professor Church believes that bringing the ancient mammoth back eventually could have a positive impact on the ecosystems in Russia. “The Siberian permafrost is melting with climate change, but research suggests large mammals could stabilize it.”
How?

Ovviamente, il discorso ha varie sfaccettature. Da un lato, l’entusiasmo e la curiosità dello scienziato che sogna di vedere per la prima volta un mammut in vita e non congelato o sotto forma di scheletro, dall’altro una lunga serie di interrogativi molto sensati: perché clonarlo? Se dovesse avere successo la clonazione e la successiva reintroduzione in natura (tra l’altro, dove?) non porterebbe agli stessi problemi che stanno minacciando gli elefantidi sopravvissuti, come la caccia di frodo per l’avorio? Inoltre, il professor Church afferma che in Siberia, con lo scioglimento del permafrost per il riscaldamento globale, i mammut potrebbero stabilizzare l’ambiente. Ma come?

A quest’ultima domanda provo a ipotizzare una risposta: Church forse immagina che  in una immaginaria Siberia in cui il permafrost si è sciolto, il mammut potrebbe svolgere un ruolo simile a quello degli elefanti in Africa, in cui la loro presenza, grazie alle enormi quantità di vegetali che consumano ogni giorno, oltre alla dispersione dei semi con le feci, effettivamente mantiene l’ambiente stabile. Gli animali che svolgono questo ruolo vengono definiti specie chiave. Siamo sicuri che il mammut lo fosse? In tutto questo progetto sembrano nascondersi un po’ troppi se e un po’ troppi ma.

A questi legittimi dubbi, aggiungerei che un mammut clonato dovrebbe essere, per forza di cose, allevato da degli elefanti, e questo comporterebbe un’ulteriore perdita di somiglianza con l’originale: sappiamo bene come negli elefantidi le cure parentali siano lunghe e fondamentali nella formazione del piccolo, e tutta la componente culturale dell’essere mammut verrebbe, in questo caso, mischiata con quella dell’elefante (che in teoria potrebbe essere anche simile, ma non è chiaramente dato saperlo).

Dal sito di Focus ho raccolto un’altra obiezione al progetto, da parte di Alex Greenwood, biologo del Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research:

«Stiamo andando incontro alla potenziale estinzione degli elefanti asiatici e africani – ha detto Greenwood in un intervento sul Telegraph – perché riportare indietro un altro elefantide dall’estinzione, quando non riusciamo a tenere in vita quelli che abbiamo già? Qual è il messaggio? Che possiamo essere irresponsabili con l’ambiente quanto vogliamo, al massimo lo cloniamo di nuovo?».

Queste critiche, invece, mi sembrano abbastanza immotivate: qui si parla di genetica, non di biologia della conservazione, e i fondi destinati dall’Università di Harvard per queste ricerche non sono certo stati sottratti a qualche programma di conservazione di specie in via di estinzione. Anzi, potrebbero offrire una speranza in più per le specie estintesi in tempi recenti e, in minima parte, recuperare sui danni causati dall’uomo, che è il principale fattore di estinzione degli ultimi millenni. Per lo stesso mammut, una delle teorie più accreditate sostiene che la sua estinzione fu causata dall’eccessiva caccia da parte dell’uomo preistorico, e una conferma potrebbe provenire dal fatto che l’animale è sopravvissuto molto più a lungo sull’isola di Wrangel, completamente disabitata e sconosciuta all’uomo fino al XIX secolo.

Ma l’etica, e in particolare la bioetica, lavora anche su altri piani, altri livelli, con cui i genetisti devono spesso confrontarsi ma di cui è sempre bene parlare: il mammut clonato vivrebbe una vita felice? Si dovrebbe tenere in uno zoo per il pubblico pagante o lasciarlo in libertà? Una volta clonato, bisognerebbe ricrearne grandi popolazioni? E conoscere la sua specie, che vantaggi porterebbe, utilitaristicamente parlando, all’uomo?

Insomma, gli interrogativi sono tantissimi e sarà bene sfruttare questi anni di attesa che, è sempre bene ricordarlo, non è assolutamente detto che portino a qualche risultato concreto, per rifletterci su. Io, dal canto mio, pur non avendo la presunzione di dare risposte assolute su argomenti così complessi, mi crogiolo nell’idea che un giorno potrò vedere dal vivo il “grande elefante peloso” camminare ancora una volta sulla terra.

Con il cuore (e le tonsille) nella foresta

ATTENZIONE: quanto segue, pur abbreviato e con le modifiche necessarie per il formato web, è il capitolo iniziale del mio libro “A cosa pensava Darwin? – Piccole storie di grandi naturalisti”. Per ulteriori informazioni, clicca qui.
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“Signora, non ho ancora un’idea chiara su di lei. Prima di prendere una decisione, voglio farle un test.”

“Mi dica.”

“Spero abbia presente che tipo di ambiente è la foresta pluviale del Borneo.”

“Certamente.”

“Bene. Allora mi dica, secondo lei, nella foresta pluviale del Borneo si possono trovare degli ospedali?”

“Ovviamente no.”

“Esattamente, non ci sono. E non ci sono strutture adeguate in caso di emergenza.”

“Ne sono perfettamente consapevole.”

“Bene. Allora mi dica, cosa pensa di fare della sua appendice?”

“La mia appendice?”

“Esattamente. Poniamo il caso che dovesse ammalarsi di appendicite fulminante in mezzo alla foresta, a decine di chilometri di distanza dal più vicino pronto soccorso, cosa penserebbe di fare? Se questa degenerasse in peritonite, potrebbe rischiare la vita. Ci ha pensato? L’unica soluzione sarebbe arrivare in Indonesia già senza l’appendice, in modo da non correre alcun rischio. Sarebbe disposta a farsela rimuovere prima di partire?”

“Certamente.”

“Ne è sicura?”

“Sì, ne sono sicura. Se lo riterrà necessario, mi farò togliere anche le tonsille.”

Immaginate la scena: una semisconosciuta primatologa di 22 anni di fronte a uno dei più grandi paleoantropologi di sempre, impegnata a convincerlo a sponsorizzare una spedizione nella foresta del Borneo per studiare gli orangutan. Il tutto dopo che quest’ultimo aveva già risposto in precedenza in modo tutt’altro che confortante.

Tre anni dopo, nel settembre 1971, la giovane scienziata, di nome Birutė Galdikas, grazie alla sua tenacia, stava per partire per un’avventura che l’avrebbe portata nel cuore della foresta pluviale indonesiana, e che dura tuttora.

Dopo non poche discussioni, suo marito Rod Brindamour decise di accantonare i suoi studi in campo informatico per seguirla. Avrebbe così svolto il ruolo di fotografo. Il giorno della partenza da Los Angeles, con loro avevano solo degli zaini con quattro cambi di vestiti ciascuno e tre copie di National Geographic. Dopo una breve tappa a Washington per un corso rapido di fotografia naturalistica, i nostri si fermarono in Kenya per incontrare il loro mecenate, Louis Leakey, e subito dopo in Tanzania, in visita a Jane Goodall per una formazione sul campo. Quest’ultima era stata scelta da Leakey per studiare gli scimpanzé nel loro habitat naturale.

 

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Louis Leakey (1903-1972) (foto: Wikimedia Commons)

Dian Fossey era stata invece inviata in Ruanda tra i gorilla di montagna. Insieme alla new entry di Birutė, le tre ricercatrici andarono così a comporre il gruppo delle Trimates, tre donne completamente dedicate allo studio delle grandi scimmie antropomorfe nel loro habitat naturale.

Grazie all’aiuto e al supporto del celebre paleoantropologo, arrivarono ben presto congrui finanziamenti dalla National Geographic Society e dalla Wilkie Brothers Foundation.

In breve tempo, nel cuore della foresta del Borneo, in quello che oggi è diventato il Parco Nazionale Tanjung Puting, nasceva il campo base di Birutė e Rod, battezzato, non a caso, Camp Leakey. Originariamente si trattava solo di un paio di capanne scalcinate, ex dimora di boscaioli, ubicate in un’area raggiungibile solo dopo un viaggio in canoa di alcune ore.

Ad accoglierli, però, invece degli oranghi ci furono soltanto legioni di zanzare e sanguisughe. Le scimmie, nei primi tempi, erano praticamente introvabili.

Prima di studiare i comportamenti di un orango bisogna riuscire a trovarlo. Questi animali, infatti, non solo sono particolarmente schivi, ma hanno anche l’abitudine di vivere ai piani alti della foresta pluviale, nell’intrico di rami e fronde che forma la sua sommità. In aggiunta, a differenza delle altre grandi scimmie antropomorfe, sono animali tendenzialmente solitari: i maschi conducono la propria esistenza in gran parte da soli, mentre le femmine possono al limite essere accompagnate da un unico cucciolo.

Per trovarli bisogna innanzitutto conoscere alla perfezione il loro stile di vita e, soprattutto, fare poco affidamento sulla propria vista: lassù in alto la massa rossastra dell’animale, che a terra salterebbe subito agli occhi, è molto poco distinguibile. L’intrico di rami è molto fitto, e quando è presente un’apertura, la visione controluce non aiuta a distinguere le sagome degli animali. Quello che tradisce la loro presenza è un rumore inconfondibile, il movimento dei rami piegati dal loro peso mentre si spostano placidamente di albero in albero. Altri indizi possono essere il rumore della corteccia strappata dagli alberi, o l’apertura di un frutto. Le “persone della foresta” (questo il significato del loro nome in lingua indonesiana) sono animali pacifici, silenziosi, molto intelligenti.

I piccoli seguono la madre ovunque vada, imparano da lei come si sopravvive nella foresta, come si cercano e si aprono i frutti, in che modo si apre un termitaio per mangiare gli insetti al suo interno, come ci si sposta di ramo in ramo, come si costruisce un solido nido per passare la notte tra le cime degli alberi. Il distacco avviene dopo 7-8 anni, e solo allora la femmina può provare ad avere un nuovo cucciolo: l’orango è la specie di mammifero in cui è presente la più grande distanza temporale tra una maternità e la successiva. Il perché è chiaro: la vita, lassù in alto tra i rami, richiede molte conoscenze e la separazione dalla madre, per i piccoli oranghi, può avvenire soltanto quando sono perfettamente in grado di nutrirsi, spostarsi e non correre rischi di alcun tipo anche senza una guida al loro fianco.

 

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(foto: Wikimedia Commons)

Senza le foreste, gli oranghi non possono sopravvivere. Tra i rami, le grandi scimmie rosse conducono il 95% della loro esistenza; la foresta pluviale è l’unico ambiente in cui sono in grado di procurarsi del cibo e proteggersi dalle insidie esterne.

Negli anni, l’opera di Biruté è diventata sempre più fondamentale per la conoscenza e la conservazione della specie: ben presto, infatti, all’attività di studio sul comportamento è stato affiancato un lungo e costante lavoro di salvataggio e reintroduzione dei piccoli oranghi rimasti orfani per la deforestazione.

La scomparsa della foresta tropicale indonesiana, la seconda per estensione al mondo dopo quella brasiliana, ha un principale colpevole: l’olio di palma. Questa materia prima è un componente base di tantissimi prodotti della nostra vita quotidiana e richiede costantemente nuovi terreni dove coltivare gli alberi da cui viene ricavata. Sebbene in tempi recenti alcune aziende virtuose abbiano iniziato a perseguire campagne per l’utilizzo di piantagioni create su terreni non originati dalla deforestazione, ancora oggi le foreste pluviali di Borneo e Sumatra, l’unica casa degli oranghi e di tantissime altre specie rare ed endemiche, continuano a cedere il passo a nuove piantagioni. Secondo le stime della stessa Birutė, negli ultimi 20 anni le popolazioni di oranghi allo stato selvatico si sono praticamente dimezzate.

 

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L’attuale areale di distribuzione dell’orango (Wikimedia Commons)

I pochi piccoli che sopravvivono alla deforestazione vengono talvolta catturati per essere rivenduti come animali da compagnia. Sebbene dopo una certa età questi debbano comunque essere allontanati e uccisi perché troppo grandi e intelligenti per poter essere tenuti in una casa, si tratta comunque di una minoranza fortunata: tutti gli altri orfani abbandonati nella foresta sono destinati a morte certa.

In questo contesto, il centro di rieducazione fondato da Birutė svolge ormai un ruolo molto importante. Decine di piccoli oranghi vengono salvati ogni anno. Gli operatori del centro seguono gli animali passo passo, talvolta prendendosi cura di animali di pochi giorni di vita. Ai piccoli viene insegnato come arrampicarsi sugli alberi, come procurarsi il cibo, come vivere nella foresta. Un poco alla volta, gli orfani imparano ad essere indipendenti, fino al momento in cui possono essere liberati: un prezioso lavoro di supporto a una specie sempre più a rischio.

Molto spesso, però, i più grandi successi arrivano solo dopo aver fronteggiato grandi sofferenze: dopo alcuni anni di permanenza in Borneo arrivò il divorzio da Rod, che aveva ormai intuito che per Birutė non ci sarebbe mai stato un ritorno in Canada, come lui invece desiderava. Birutė accettò anche la più dolorosa delle scelte: il loro unico figlio Binti, di pochissimi anni, sarebbe andato con suo padre; la sua vita al tempo consisteva nel vivere in mezzo agli oranghi e non aveva contatti con altri bambini. Era giusto lasciarlo partire.

 

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Birutė Galdikas nel 2012 (foto: Wikimedia Commons)

Al giorno d’oggi, Birutė Galdikas può essere tranquillamente considerata una delle massime autorità a livello mondiale sulla vita selvatica degli orangutan. Questo grazie a oltre 40 anni di esperienza sul campo, a una fondazione che salva decine di animali ogni anno, a centinaia di pubblicazioni scientifiche e conferenze in giro per il mondo, ad alcuni libri, tra cui il bestseller Reflections of Eden, alle copertine su National Geographic e molte altre riviste, a numerosi documentari televisivi di cui è protagonista. Ha collezionato una lunghissima serie di onorificenze per il suo lavoro di sensibilizzazione sul declino delle foreste asiatiche e sulla necessità di conservare la loro biodiversità.

Ancora oggi vive a Camp Leakey, nel cuore della foresta del Borneo, insieme a tanti collaboratori e scienziati, al suo nuovo marito indonesiano e ai suoi figli, e ad alcune decine di oranghi che stanno imparando ad affrontare le sfide della foresta.

E tutto questo senza mai farsi togliere le tonsille.