Ripulire gli oceani è davvero possibile?

Torno per l’ennesima volta sul problema dell’inquinamento degli oceani. Per ulteriori info, potete visitare la pagina facebook Garbage Patch o il blog dedicato, creato da Debora Serra. A breve su queste pagine seguiranno approfondimenti sul laboratorio in programma per il prossimo Festival della Scienza di Genova a opera di Chiara Segré, Debora Serra, Paolo Degiovanni e del sottoscritto.

L'inquinamento di una spiaggia delle Azzorre (foto Marcus Eriksen)

L’inquinamento di una spiaggia delle Azzorre (foto Marcus Eriksen)

Immaginate di essere in mare, in viaggio a bordo di una barca nel cuore dell’oceano. Dopo giorni e giorni di navigazione vi trovate in mezzo al nulla: la vista a 360° non fa vedere altro che il blu dell’acqua e l’azzurro del cielo. Il mare che vi circonda è piatto, calmo. Ne approfittate per fare un tuffo. All’improvviso, a centinaia di chilometri dal più vicino insediamento umano, vi trovate in una situazione del tutto inaspettata: siete circondati dai rifiuti. Ma non si tratta di vecchie lavatrici alla deriva o reti abbandonate dai pescherecci di passaggio: sono miliardi e miliardi di minuscoli pezzi di plastica, di pochi millimetri ciascuno. Sono ovunque. E, soprattutto, sono assolutamente invisibili dal ponte della nave. Bisogna trovarcisi immersi per rendersi conto della loro esistenza. Sembra una specie di zuppa. E, proseguendo con la navigazione, la situazione rimane immutata per decine, centinaia di chilometri. Vi trovate in uno dei cinque “Vortici di plastica” (Garbage Patches) che si incontrano nel cuore degli oceani del nostro pianeta. Li abbiamo creati noi, anno dopo anno, scaricando la nostra spazzatura in mare. E la plastica, in particolare, non è biodegradabile. Esposta al sole diventa fragile e si spezzetta, ma per il resto rimane quasi intatta, abbandonata al moto ondoso. Una parte raggiunge le coste, un’altra affonda, ma una grande percentuale rimane in acqua. I pesci la mangiano, gli uccelli anche, gli animali filtratori se la ritrovano nei tessuti. Sono passati oltre cinquant’anni dall’ingresso della plastica nei mercati mondiali: da allora, centinaia di tonnellate di rifiuti non biodegradabili ogni singolo giorno hanno raggiunto i nostri mari.

Detriti causati dallo tsunami del 2012 in Giappone (foto Stiv Wilson)

Detriti causati dallo tsunami del 2012 in Giappone (foto Stiv Wilson)

La scoperta dei vortici di plastica è avvenuta per caso nel 1997 per merito di Charles Moore, un ex falegname (!) appassionato di navigazione. Dal giorno del suo incontro con il North Pacific Garbage Patch, a migliaia di chilometri dalle coste nordamericane, la vita di Moore è cambiata. Da allora si è dedicato anima e corpo allo studio del problema e ha fondato il 5 Gyres Institute, un’associazione indipendente di scienziati, giornalisti, volontari che si dedicano al monitoraggio dell’inquinamento da plastica negli oceani.

Marcus Eriksen (foto: Stiv Wilson)

Marcus Eriksen (foto: Stiv Wilson)

Il suo co-fondatore è Marcus Eriksen, scienziato, navigatore, uomo d’avventura, artista ed ex soldato. È proprio la sua esperienza come sergente a capo di una squadra di ricognizione dei Marines nella Prima Guerra del Golfo ad aver acceso in lui il desiderio di diventare un attivista ambientale: l’aver respirato i fumi tossici dei pozzi petroliferi in fiamme, l’aver camminato nelle sabbie impregnate di idrocarburi, l’aver visto la totale distruzione di interi habitat per mano dell’uomo hanno avuto una profonda influenza nel plasmare la persona che è oggi. Così, dopo un dottorato in Science Education e un viaggio di oltre tremila chilometri lungo il Mississippi su una zattera costruita in casa, Eriksen si è dedicato anima e corpo allo studio dell’impatto umano sugli ambienti marini. Oggi, dopo oltre 40000 chilometri di navigazione in giro per il mondo, è uno dei pochi scienziati ad aver visto di persona tutti e 5 i Gyres oceanici, ed è costantemente impegnato nella sensibilizzazione del pubblico sulle tematiche legate all’inquinamento da plastica.

Resti plastici trovati in un pesce (foto Marcus Eriksen)

Resti plastici trovati in un pesce (foto Marcus Eriksen)

La plastica è un grave problema anche nel Mediterraneo. Nel Mare Nostrum però non si incontra un unico grande vortice di rifiuti, ma molte zone di accumulo isolate, legate alle particolari condizioni locali del moto ondoso e di altri fattori. Uno studio sulla situazione nel nostro mare viene portato avanti dall’Expédition MED, un collettivo di scienziati, giornalisti, artisti e volontari che organizza spedizioni di monitoraggio delle acque alla ricerca dei principali accumuli di rifiuti nel Mediterraneo. L’associazione, guidata dal francese Bruno Dumontet, ha lanciato una nuova spedizione nel corso dell’estate 2015. Ogni anno è possibile partecipare come volontari alla spedizione: a questo indirizzo (in francese) si possono trovare tutte le informazioni necessarie.

Fin qui abbiamo parlato di ricerche condotte per inquadrare il problema. Ma come risolverlo? Molti studiosi, spesso appartenenti ad associazioni ed enti privati, stanno portando avanti progetti ambiziosi. Tra questi, uno in particolare è balzato più volte agli onori della cronaca: la Ocean Cleanup Foundation, creata dal ventenne olandese Boyan Slat. Di recente, Slat ha annunciato che nel secondo quarto del 2016 verrà installato un sistema di raccolta dei rifiuti al largo dell’isola di Tsushima, in Giappone. Secondo quanto dichiarato dal giovanissimo scienziato, si tratterà della più lunga struttura galleggiante mai creata dall’uomo, oltre che l’inizio formale del suo ambizioso progetto di pulizia dei mari. Con il raggiungimento dell’obiettivo di due milioni di dollari di crowdfunding, infatti, si è messa in moto la sua macchina operativa, composta da un centinaio di collaboratori, soprattutto ingegneri e scienziati. Sulla carta, direte, questa è un’ottima cosa, viste anche le critiche che Slat aveva ricevuto agli inizi: c’era chi gli aveva dato del visionario e chi riteneva il suo progetto del tutto irrealizzabile. E invece oggi il suo sistema di pulizia dei mari sembra destinato a diventare realtà. Ma c’è chi ancora non è convinto della sua utilità, e tra questi detrattori c’è anche il nostro Marcus Eriksen.

Tramite un post sul blog del 5 Gyres, Eriksen ha definito i sistemi di pulizia degli oceani, senza mezzi termini, una “terribile idea”. I motivi sono tanti: ad esempio la scarsa efficacia nel fronteggiare un problema tanto grande e diffuso, ma anche il fatto che questi progetti distolgono l’attenzione del pubblico dall’unica vera soluzione, bloccare l’arrivo della plastica in mare.

Un groviglio di reti recuperato nel nordovest Pacifico (foto di Stiv Wilson)

Un groviglio di reti recuperato nel nordovest Pacifico (foto di Stiv Wilson)

Ho avuto modo di conoscere Eriksen lavorando alla mostra dedicata al Garbage Patch. L’ho così contattato per ricevere un aggiornamento sul lavoro del 5 Gyres. Mi ha rilasciato una breve intervista (l’originale in inglese si può leggere qui) in cui chiarisce le attività dell’istituto ed elenca alcune opinioni personali su come affrontare il problema. Eccola.

Sono passati 5 anni dall’inizio della spedizione della 5 Gyres. Cos’è cambiato da allora?
Le nostre spedizioni si concentrano sulla ricerca, ma anche sull’insegnamento della scienza e sulle soluzioni. Ci sono state più pubblicazioni negli ultimi due anni che nelle precedenti quattro decadi. Adesso abbiamo una buona comprensione del problema. Ora è il momento per soluzioni mirate.

 Quali sono stati I maggiori progressi nella nostra conoscenza sull’inquinamento degli oceani?

Sappiamo che la plastica si accumula nell’oceano e si frammenta trasformandosi in microplastiche, creando quello che noi chiamiamo “smog plastico”. Abbiamo trovato microplastiche ovunque nel mondo, lungo tutta la colonna d’acqua, nei sedimenti di mare profondo, nel ghiaccio marino e all’interno di centinaia di organismi. Ci sono molti impatti ecologici documentati. Possiamo dire con certezza che la plastica nell’oceano è pericolosa.

 Hai dichiarato che l’unica soluzione all’inquinamento da plastica è fermare il suo arrivo alle acque degli oceani. Ma le più recenti statistiche ci fanno sapere che oggi questi enormi apporti di plastica sono causati soprattutto dai paesi in via di sviluppo, che hanno meno tecnologie per eliminare la spazzatura in modo sostenibile. Come si può migliorare questa situazione?

Dobbiamo migliorare la gestione dei rifiuti nelle nazioni in via di sviluppo, ma anche ricordarci che il riciclo, in questi paesi, è molto efficiente quando i prodotti e le loro confezioni hanno un valore. Ho trascorso del tempo in India e posso affermare che per terra non si trovano plastiche di valore. Quindi, a parte la gestione dei rifiuti, le aziende devono puntare al riutilizzo. Se il tuo prodotto non viene riutilizzato perché non ha valore, dovrai scegliere un materiale innocuo, non la plastica.

Riassumendo, saranno la gestione dei rifiuti e la progettazione per il riutilizzo a risolvere il problema.

 5 Gyres sta collaborando con Jack Johnson e altre celebrità. In che modo verranno coinvolte nelle vostre attività?

Nelle nostre spedizioni trattiamo le celebrità come chiunque altro. Partecipano alla gestione dell’imbarcazione, fanno ricerca, e ascoltano tutte le conferenze. Ho molto apprezzato la partecipazione di Jack Johnson, che è salito a bordo per far parte dell’equipaggio. Abbiamo bisogno di persone come lui per diffondere il messaggio al grande pubblico. Jack Johnson, ambasciatore degli oceani per UNEP (United Nations Environment Programme, NdA), è una persona adatta a questo scopo.

 In che modo il pubblico vi può aiutare nelle vostre attività? Reclutate volontari per le vostre spedizioni?

Invitiamo chiunque a partecipare alle nostre spedizioni. Quando lasci l’imbarcazione sei un esperto nel campo. Hai anche le conoscenze necessarie per fare ricerca scientifica da solo. Abbiamo bisogno di più cittadini impegnati nella scienza per aiutarci a monitorare gli oceani mondiali.

 In un recente post sul tuo blog hai dichiarato che I sistemi di raccolta sono una “terribile idea”. Secondo te, esistono soluzioni sostenibili per rimuovere gli accumuli di plastica già presenti nei nostri oceani?

Una volta compreso che la plastica negli oceani è come smog, sapendo che questa si frammenta così velocemente e che l’oceano espelle lo smog plastico fuori dall’acqua, diventa stupido investire tempo e fatica nella pulizia degli oceani.

Si otterrebbe molto maggior successo concentrandosi sui fiumi e risalendo tutto il loro percorso controcorrente, fino alla progettazione e alla confezione dei prodotti stessi.

 Cos’altro è importante far sapere al pubblico italiano?

Penso che sia responsabilità dell’Italia non contribuire all’accumulo di rifiuti plastici nel Mediterraneo. È importante supportare programmi che monitorano la qualità delle acque dei fiumi quando raggiungono la costa. I cittadini italiani possono inoltre partecipare facendo scelte consapevoli di acquisto, riducendo il proprio consumo di plastica e andando sul campo per fare lavoro di ricerca e di educazione. Il 5 Gyres Institute ha mandato alcune strumentazioni a un istituto oceanografico di Venezia. L’Italia è un nostro apprezzato partner.

Discarica sull'isola di Sant'Elena (foto di Stiv Wilson)

Discarica sull’isola di Sant’Elena (foto di Stiv Wilson)

In conclusione, che ragionamenti si possono trarre da questa diatriba? Innanzitutto che di vera diatriba non si tratta: le persone impegnate nel campo sono tutte “sulla stessa barca”, per utilizzare una metafora a tema. Lo scopo è lo stesso per tutti, evitare che i nostri mari diventino una sorta di discarica, con ripercussioni che sono ancora poco prevedibili sia sulla vita marina che sulle nostre esistenze. Di certo, dopo l’avvio del primo progetto firmato The Ocean Cleanup in Giappone sarà possibile avere in mano molti più dati empirici e verificati sull’effettiva efficacia di questi sistemi, per trarne così delle prime riflessioni. Staremo a vedere.

Nel frattempo, chiunque sia interessato al problema può rimboccarsi le mani e darsi da fare: se non ha il tempo né i mezzi per fare citizen science o volontariato, può comunque concentrarsi sul proprio stile di vita. Un utilizzo ragionato della plastica, un’attenzione alla raccolta differenziata, la promozione delle aziende virtuose che rispettano l’ambiente può essere un primo, importantissimo passo.