Alla scoperta della vita

Le grandi rivoluzioni delle scienze naturali

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Il libro raccoglie alcune tra le più grandi scoperte delle scienze naturali degli ultimi secoli, narrate dal punto di vista dei grandi scienziati che le compirono: uno sguardo più umano sulla storia delle rivoluzioni scientifiche che ci hanno permesso di conoscere e amare la natura del pianeta Terra. Dai viaggi dei grandi avventurieri dell’Ottocento, come Alexander von Humboldt, fino alle scoperte paleontologiche di Mary Anning e alle “guerre dei dinosauri” tra scienziati a caccia del fossile più bello. Dall’incredibile rivoluzione dell’evoluzionismo fino agli studi sul comportamento animale, per arrivare alla scoperta del calamaro gigante, uno dei mille misteri che ancora si celano negli oceani. Partendo dalla storia dell’orchidea del Madagascar e della ricerca del suo unico impollinatore da parte di Wallace, Darwin e altri grandi scienziati, si può comprendere come si siano evolute le scienze naturali nei secoli. Come pure la scoperta delle alghe Prochlorococcinae, gli organismi fotosintetici più diffusi al mondo, viste per la prima volta soltanto nel 1986, sono la testimonianza di quanto affascinanti e in divenire siano questi campi di studio. La storia delle scienze naturali come un costante susseguirsi di scoperte e di nuove meraviglie vissute in prima persona dai loro grandi protagonisti.

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A cosa pensava Darwin?

Piccole storie di grandi naturalisti

 

 

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A cosa pensava Charles Darwin quando, ormai anziano, passeggiava nei boschi che circondano la sua casa in campagna? E qual era il sogno di Konrad Lorenz, prima di voler diventare un’oca? Perché Jane Goodall si è ritrovata all’improvviso nel cuore dell’Africa a studiare gli scimpanzé? E cosa ha spinto David Attenborough sulla cima del monte Roraima, nel cuore dell’Amazzonia?
Il libro è una raccolta di brevi biografie di alcuni tra i più grandi naturalisti degli ultimi due secoli: ogni capitolo ha un diverso protagonista di cui vengono narrati pregi e difetti, vicissitudini e successi. Di storia in storia, si indaga cosa abbia spinto queste grandi donne e questi grandi uomini a dedicare la loro vita allo studio della natura, pur dovendo fronteggiare difficoltà di ogni genere per riuscire nell’impresa. Il libro è disponibile anche su Amazon, ha ottenuto ottime recensioni su varie riviste scientifiche (tra cui Le Scienze e la Rivista della Natura), sul sito della Fondazione Umberto Veronesi e su Ansa Scienza, è stato presentato in radio (Radio3 Scienza e Il Giardino di Albert, sulla Rete 2 Svizzera) e in televisione (GEO su Raitre). Si è inoltre classificato terzo nella categoria Scienze della vita e della salute per il 2016 nel concorso nazionale di divulgazione scientifica dell’Associazione Italiana del Libro.

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Quella volta che i conigli misero in fuga Napoleone

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Napoleone Bonaparte fu uno dei più grandi e abili strateghi e condottieri della storia, eppure anche lui in un’occasione dovette capitolare di fronte a un nemico numeroso e meglio organizzato che lo costrinse a una fuga indecorosa.
Pensate forse al Duca di Wellington e alla battaglia di Waterloo? Sbagliato, la sua capitolazione più inaspettata avvenne a causa di un gruppo di animaletti apparentemente innocui come i conigli.
Nel luglio del 1807, in seguito alla pace di Tilsit che sanciva la fine della guerra con Russia e Prussia, Napoleone decise di festeggiare il suo successo con una battuta di caccia.
L’Imperatore di Francia delegò l’organizzazione dell’evento al suo braccio destro, il generale Louis Alexandre Berthier.
Berthier fece raccogliere dai suoi uomini un gran numero di conigli nelle fattorie vicine. E con “gran numero” intendiamo proprio tanti, TANTI conigli: qualche storico parla di alcune centinaia, altri di ben tremila esemplari.
Gli animali vennero rinchiusi in gabbie ai margini di una grande distesa erbosa, il luogo ideale per una battuta di caccia a questo animale. Non appena Napoleone e gli altri grandi capi dell’esercito francese arrivarono per iniziare la caccia, le gabbie degli animali vennero aperte.
E qui avvenne il colpo di scena: i conigli non solo non scapparono terrorizzati, ma si diressero con decisione verso l’imperatore. Un tappeto mobile di centinaia di animali si mosse in direzione dell’uomo più potente del mondo e dei suoi uomini più fidati. All’inizio, Napoleone e i suoi uomini risero divertiti. Ma le cose presto degenerarono.
I conigli iniziarono pizzicare le caviglie e ad arrampicarsi lungo la marsina e i pantaloni dell’imperatore, poi fin sulle spalle e sulla sua testa. Napoleone cercò di scacciarli col frustino ma i conigli erano davvero troppi e sembravano non voler mollare la presa. Poi, dopo esserseli scrollati di dosso, imbracciò il fucile e sparò qualche colpo, ma l’orda pelosa non apparve minimamente impaurita. I conigli avanzavano inesorabili e Napoleone insieme con i suoi uomini fu costretto a scappare in direzione della sua carrozza.
Ma non era finita: dimostrando capacità strategiche degne dello stesso condottiero francese, l’implacabile marcia dei conigli si divise in due gruppi, riuscendo così ad accerchiare il mezzo e, in certi casi, persino a salire a bordo.
La carrozza di Napoleone alla fine riuscì ad allontanarsi, segnando così la più ingloriosa e inaspettata delle sconfitte.
La colpa, in questo caso, fu di Berthier: pur essendo un grande stratega militare, il generale aveva preso con leggerezza il suo compito, non facendo portare sul campo un gruppo di animali selvatici, che sarebbero stati prede perfette per una battuta di caccia. Invece, Berthier pensò che puntando ai grandi numeri tutta la faccenda si sarebbe rivelata ben più divertente. Così fece raccogliere degli animali domestici, dimenticando che questi erano del tutto avvezzi alla compagnia umana e quindi non c’era alcuna ragione per cui dovessero scappare.
E così, con ogni probabilità la nostra orda di conigli era semplicemente affamata, e si aspettava da Napoleone e dai suoi generali un po’ di carote e lattuga fresca.
Cosa possiamo imparare da questa vicenda grottesca? Beh, forse poco, ma di sicuro una morale c’è: quando ci si rapporta con degli animali, qualsiasi sia l’attività che li coinvolge, è sempre bene avere un minimo di conoscenze sul loro comportamento. Non si sa mai.
Aggiungerei che, in grandi numeri, anche i conigli possono far paura: nella seconda foto vedete un gruppo di questi simpatici animaletti in Australia dove, dopo essere stati importati dall’Europa nel 1859 nel ridicolo numero di 24 individui, sono poi diventati un’autentica piaga, arrivando a centinaia di milioni di esemplari.

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L’eredità di Mendel – All’origine della genetica

L’eredità di Mendel – All’origine della genetica

La prima biografia italiana, scritta con fonti di prima mano, del padre della genetica Gregor Johann Mendel.
Il libro porta a scoprire come Mendel, monaco agostiniano, condusse le sue ricerche all’interno dell’abbazia di Brno: dall’osservazione dell’orto e degli incroci di piante fino al primo autentico studio scientifico sulla trasmissione dei caratteri ereditari.
Grazie alla scelta di un metodo di ricerca impeccabile e a una grande passione, Mendel fu in grado di formulare le leggi che ancora oggi sono alla base della genetica. La sua storia, tra meticolosi esperimenti e grandi scoperte, ma anche tra delusioni e ambizioni disattese, è un perfetto riassunto delle vicende che, ancora oggi, caratterizzano la vita di tanti scienziati.
Il libro è stato realizzato in seguito a una visita nei luoghi di Mendel in Moravia. Nondimeno sono stati intervistati storici della scienza, giornalisti e i curatori del museo di Mendel, in modo da ottenere informazioni originali e di prima mano sul padre della moderna genetica.
Per ulteriori informazioni: https://bit.ly/2FbTN1R

L’8 marzo e Mary Anning

Mary Anning (1799-1847)

E insomma, ogni 8 marzo si discute sempre molto, ma poi alla realtà dei fatti le cose non cambiano mai, o cambiano con una lentezza esasperante.

Quando mi chiedono come mai ho dedicato la prima sezione di “A cosa pensava Darwin?” a un gruppo di scienziate, la risposta è sempre quella: perché se lo sono meritato. Perché per ottenere lo stesso risultato, lo stesso prestigio, la stessa notorietà degli scienziati uomini hanno dovuto faticare di più, affrontando più avversità, dovendo spesso combattere anche la semplice indifferenza. E il tutto a parità di competenze e dedizione.

Ma il caso di Mary Anning è forse ancora più eclatante. Chi è appassionato di cose di scienza conosce già la sua storia, per tutti gli altri faccio un brevissimo riassunto.

Mary Anning vive a Lyme Regis, nel sud dell’Inghilterra, nelle prime decadi del XIX Secolo. Nasce in una famiglia di umili origini, figlia di un carpentiere che muore quando lei ha solo 11 anni. Per buona parte della sua vita è costretta a fronteggiare gravi difficoltà economiche. Di dieci fratelli, lei è l’unica a sopravvivere insieme a Joseph, suo fratello minore. Gli altri muoiono tutti prima di raggiungere l’età adulta.

Lyme Regis è una località costiera che attira turisti dall’entroterra. Gli strati rocciosi che si affacciano sulla scogliera nascondono piccoli tesori, provenienti da un lontano passato. E infatti l’attività di Mary è quella di raccogliere, ripulire e rivendere ai turisti i fossili più belli. La passione le è stata tramandata dal papà, che accompagnava, quando ancora era bambina, a caccia di quei reperti che avrebbero garantito un piccolo reddito extra alla famiglia.

William Buckland (1784-1856)

Mary sviluppa con gli anni un enorme talento nella paleontologia e diventa una piccola celebrità, così come il suo negozietto di fossili a Lyme Regis. Quando Joseph scopre i resti di un gigantesco ittiosauro, un rettile marino vissuto ai tempi dei dinosauri, è Mary a pulire, preparare ed esporre al pubblico il meraviglioso ritrovamento, che attrae scienziati e curiosi da ogni angolo dell’Inghilterra. Stringe una forte amicizia con lo scienziato William Buckand, geologo e uomo di chiesa, che si rivolge spesso a lei per chiederle a quale animale del passato appartenga questa vertebra o quella costola. Ben presto gli scienziati più noti del paese fanno riferimento a Mary per il riconoscimento o la preparazione di fossili. E tra questi anche il giovane Richard Owen, che diventerà il deus ex machina del Museo di Storia Naturale di Londra e lo scienziato politicamente più potente della nazione.

Ciononostante, Mary muore di malattia a neanche cinquant’anni, nella miseria che l’ha accompagnata per buona parte della vita. Questo perché, senza giri di parole, era una donna, per giunta di umili origini. E in quegli anni alle donne non era permesso accedere ai salotti scientifici. Non vedrete mai un articolo scientifico a nome suo, non una specie fossile la cui scoperta si possa attribuire a lei.

E questo nonostante una discreta notorietà (parlò di lei anche Charles Dickens), e la stima e il rispetto di tutta la comunità scientifica. Non sono bastati libri, documentari, persino film ispirati a Mary Anning per vedere riconosciuto il suo talento scientifico. Se sentite parlare di coproliti, le feci fossili (sì esatto, cacche fossili), vedrete che il primo a parlarne fu Buckland. Ma il merito della scoperta fu di Mary, non del suo amico scienziato. Fu lei a fargli notare in che parte del corpo si trovavano solitamente quei resti, qual era la loro natura e la loro importanza nel far capire comportamento e alimentazione degli animali del passato. Ma se oggi si parla di coproliti, sembra che a scoprirli fu Buckland. Il perché lo sapete.

Coprolite

Se vogliamo parlare di riconoscimenti scientifici, in vita Mary Anning non ne ricevette uno. Di postumo ci fu un premio, da parte della Royal Society, che la identificò come una delle dieci donne inglesi che maggiormente contribuirono al progresso della scienza. Questo venne assegnato nel 2010, ossia 163 anni dopo la sua morte. Centosessantatré. Ecco, se i tempi di attesa sono questi, forse non è cambiato molto nel modo in cui le donne vengono trattate nel mondo scientifico (e non solo) dai tempi della regina Vittoria. E magari è arrivato il momento di fare le cose un po’ più alla svelta.

The Lazarus syndrome, ovvero il ritorno dei mai-estinti

Una brulla, arida e frastagliata colonna di roccia alta oltre cinquecento metri si erge, imponente e solitaria, dalle acque del Pacifico, a circa seicento chilometri a est delle coste australiane. Questo isolato sperone di roccia prende il nome di Ball’s pyramid, la piramide di Ball. Si trova all’incirca a metà strada tra Australia e Nuova Zelanda, nel Mar di Tasman e, grazie ai suoi 562 metri di quota raggiunti dalla sua vetta, detiene il primato di faraglione più alto del mondo.

Ma non è per questo insolito record che Ball’s pyramid è conosciuta in tutto il mondo. Qui, nel febbraio 2001, i due scienziati australiani David Priddel e Nicholas Carlile, insieme ad altri due compagni di viaggio, si avventurarono sulle sue ripidissime pareti nella speranza di rinvenire un piccolo tesoro ritenuto ormai perduto da decenni.

L’obiettivo della ricerca non era ritrovare una gemma preziosa, bensì un organismo vivente: la cosiddetta “aragosta di terra”, in realtà un insetto dell’ordine dei Fasmidi, l’insetto stecco dell’isola di Lord Howe (Dryococelus australis), animale dalle dimensioni sorprendenti (fino a 25 grammi di peso e 15 centimetri di lunghezza), ritenuto estinto dal 1920. La sua scomparsa era stata causata dall’arrivo dei ratti neri sull’isola, che non avevano avuto difficoltà a predare l’insetto, lento e non abituato a questo tipo di predatori. L’arrivo dei roditori era indirettamente legato all’uomo: infestavano la nave da rifornimenti Makambo, e invasero rapidamente l’isola in seguito al suo arenaggio.

Questo insetto in effetti era una specie esclusiva dell’isola da cui prende il nome, un affascinante polo di straordinaria biodiversità, distante pochi chilometri dal desolato faraglione di Ball’s pyramid, dove, oltre all’insetto gigante, si possono tuttora incontrare molti altri endemismi, tra cui circa metà delle specie di piante presenti e un uccello incapace di volare (caratteristica tipica di molte specie insulari), il rallo di Lord Howe (Gallirallus sylvestris).

I due scienziati australiani si avventurarono sulle ripide pareti del faraglione, spinti dalla speranza di ritrovare ancora qualche esemplare vivente. Nel 1964 alcuni scalatori avevano trovato su Ball’s pyramid il resto di un esemplare ormai essiccato da tempo e cinque anni dopo ne erano stati rinvenuti altri due. Questi ritrovamenti casuali davano ancora una flebile speranza a Priddel e Carlile, sebbene fosse estremamente improbabile ipotizzare la presenza di un insetto vegetariano, tipico abitante del sottobosco, in un ambiente così arido e inospitale.

L’ascesa fu improduttiva, se non per il rinvenimento di un piccolo crepaccio nella roccia, a circa 70 metri di quota, popolato da una fitta vegetazione dove era presente un unico arbusto di Melaleuca, habitat ideale dell’animale; al ritorno al campo base un’intuizione di David Priddel fu però fondamentale: l’insetto stecco era un animale notturno, bisognava pertanto ritornare in quella piccola oasi nel pieno della notte. Così venne fatto, e il sorprendente rinvenimento di circa trenta esemplari, questa volta vivi, tutti assiepati sotto quell’unico arbusto, tramutò la spedizione in un autentico successo. In breve, grazie al grande clamore suscitato dalla scoperta, venne dato il via a un programma di conservazione e recupero della specie, definita “l’insetto più raro del mondo” dai media, che è tuttora in atto. Dopo anni di tentativi, a partire da pochissimi esemplari prelevati con la massima cura dal faraglione, gli insetti stecco giganti si sono ora riprodotti con successo in cattività sia in Australia (a Melbourne e Sydney), sia nello zoo di San Antonio in Texas, ed è ora in corso un programma di reintroduzione nella loro isola originaria in un ambiente controllato, insieme all’avanzamento di un programma di eradicazione del ratto nero.

Le sorprendenti vicissitudini del fasmide ci offrono lo spunto per scoprire quei rari casi in cui, secondo la cosiddetta Lazarus syndrome, alcune specie ritenute ormai estinte vengano riscoperte in natura. I casi sono pochi ma possono aiutarci a tenere accesa la fiammella della speranza, sia per quelle specie di cui ormai si è persa traccia, sia per quelle ancora esistenti, ma a un passo dall’estinzione.

Un altro esempio recente è dato dal “ferreret” o rospo delle Baleari (Alytes muletensis), descritto e identificato sulla base di resti fossili nel 1977, e ritenuto estinto fino a due anni dopo, quando alcuni animali vivi vennero riscoperti in aree particolarmente impervie di Maiorca, isola di cui è endemico. Anche in questo caso, un programma di recupero in cattività e reintroduzione sull’isola ha condotto al recupero della specie, ora considerata come “vulnerabile” dalla Lista Rossa IUCN, elenco che raccoglie le informazioni sullo stato di conservazione di animali e vegetali di tutto il mondo.

Da non dimenticare il petrello di Madera (o petrello di Zino, Pterodroma madeira), ritenuto uno degli uccelli più rari d’Europa, endemico dell’isola portoghese di Madera e riscoperto nel 1969 dopo che per quasi trent’anni se ne erano perse quasi totalmente le tracce e che ora è rigidamente protetto e costantemente monitorato, e la wollemia (Wollemia nobilis), una conifera della famiglia Araucariacee, di cui si conoscevano solamente esemplari fossili e che fu riscoperta nel 1994 in un remoto canyon del Wollemi National Park, nel Nuovo Galles del Sud in Australia, dal guardaparco David Noble, da cui prese il nome. Prima di allora, le uniche tracce conosciute di questa pianta erano resti fossili risalenti a circa novanta milioni di anni fa. Un sorprendente programma di commercializzazione e distribuzione dei semi, con lo scopo di finanziare autonomamente il recupero della specie in natura, ha condotto al salvataggio di una pianta che era sull’orlo dell’estinzione con soltanto un centinaio di esemplari, e che rappresentava, e rappresenta tuttora, un incredibile esempio di fossile vivente, ossia di specie rimasta immutata (o quasi) per milioni di anni.

Ma il caso più conosciuto di specie ritornata dal mondo dei “non-estinti” è, senz’ombra di dubbio, il celacanto, ultimo rappresentante della più antica linea evolutiva di pesci conosciuta, risalente addirittura al Devoniano, circa 390 milioni di anni fa.

L’animale venne scoperto nel 1938 dalla curatrice del museo di East London in Sudafrica Marjorie Courtenay-Latimer, in mezzo al raccolto di alcuni pescatori locali. Non ritenendola ascrivibile a nessuna specie conosciuta, mostrò l’esemplare ormai imbalsamato al professor James Leonard Brierley Smith, che lo identificò come il celacanto, una specie conosciuta soltanto in forma fossile, ritenuta estinta dal Cretaceo. Dalla sua scopritrice e dal luogo del ritrovamento (la foce del fiume Chalumna, nell’Oceano Indiano) prese il nome scientifico, essendo chiamato Latimeria chalumnae. Oggi nella sala centrale del Museo di Storia Naturale di Londra fanno bella mostra di sé due esemplari di celacanto, uno fossile e vecchio di milioni di anni, l’altro pescato nel 1960.

In realtà sarebbe più corretto parlare di “celacanti” al plurale, dato che in tempi recenti (1999) è stata identificata una seconda specie, chiamata Latimeria menadoensis, il celacanto indonesiano, distinta dalla prima specie, il celacanto delle Comore.

Nonostante i severi regolamenti di conservazione e l’incredibile notorietà portata dalla sua riscoperta, il celacanto, essendo spesso vittima di battute di pesca che hanno come obiettivo ben altre specie, è tuttora in grave rischio: Latimeria chalumnae è gravemente minacciato, mentre Latimeria menadoensis è ritenuto vulnerabile dall’IUCN. Il motivo è presto detto: l’impoverimento dei mari e il conseguente spingersi delle reti dei pescatori verso acque sempre più profonde, mai raggiunte in passato, colpisce in pieno l’habitat del celacanto, pesce che vive abitualmente oltre i cento metri di profondità.

Una testimonianza viva e profonda di come sia possibile modificare la natura fino a colpire gravemente anche specie note al grande pubblico e fortemente tutelate, ma anche di come sia sempre necessario tenere duro fino all’ultimo: per recuperare una specie dal baratro dell’estinzione bastano a volte pochissimi esemplari, persino, in certi rari casi, quando è stato persino superato il confine della stimata MVP (Popolazione Minima Vitale), sotto la quale, teoricamente, nessuna specie può sopravvivere. Un promemoria da tenere sempre a mente, per ricordarci che gli sforzi per conservare le specie che popolano il nostro pianeta non sono mai inutili.

Le sfortunate vicende di Gideon Mantell, “papà” dei dinosauri

ATTENZIONE: questo post riprende parte del quarto capitolo del mio nuovo libro “Alla scoperta della vita – le grandi rivoluzioni delle scienze naturali”. Per ulteriori informazioni, clicca qui.

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Chi più chi meno, tutti gli appassionati di paleontologia conoscono a menadito la storia geologica delle più grandi (in tutti i sensi) mascotte della loro disciplina, i dinosauri: dalle specie più celebri agli stili di vita, dai ritrovamenti più belli alle teorie sulla loro estinzione. Quello che invece in pochi hanno avuto modo di approfondire è la loro storia su scala umana, ovvero tutte quelle vicissitudini che condussero alcuni scienziati e collezionisti, nei primi decenni del XIX secolo, a identificare per primi questi organismi tra i giacimenti fossili, con tutte le implicazioni connesse. Gli eventi legati a questo periodo della storia della paleontologia sono fondamentali per il successivo sviluppo delle scienze della vita, perché hanno scosso alle fondamenta il pensiero e le convinzioni di gran parte dei naturalisti e geologi dell’epoca.

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Gideon Algernon Mantell (1790-1852)

Lo sfortunato protagonista di questi eventi fu Gideon Algernon Mantell che, nonostante il suo ruolo fondamentale nell’identificazione di questo nuovo gruppo tassonomico, a causa del suo “dilettantismo” e soprattutto della sua ingenuità fu vittima di soprusi e per lungo tempo non ricevette il giusto credito da parte della comunità scientifica. Ma andiamo per ordine. Mantell nacque a Lewes, Sussex, nel 1790, figlio di un calzolaio discendente da una nobile famiglia inglese decaduta. Sin da giovane ebbe una grande passione per la geologia e lo studio dei fossili, in particolare trilobiti, che cercava regolarmente tra le cave e le formazioni geologiche dell’Inghilterra meridionale. dopo la morte del padre, avvenuta nel 1807, grazie a una piccola somma messa da parte poté dedicarsi agli studi in medicina a Londra, per poi dedicarsi ad una brillante carriera di medico di campagna nella sua natia Lewes. Sebbene le sue competenze mediche fossero vaste, la sua specialità era l’ostetricia: in un periodo storico in cui, mediamente, morivano 14 donne ogni 1000 parti, Mantell perse soltanto due pazienti nel corso di tutta la sua carriera, in cui aiutò oltre 2400 madri a partorire. Grazie ai guadagni provenienti dalla sua professione, riuscì ad acquistare una villa in cui realizzò un piccolo museo dedicato alla sua collezione di fossili, che continuava ad accrescersi. Il poco tempo lasciato libero dal suo lavoro, principalmente le ore notturne, veniva dedicato agli studi di geologia e paleontologia. Grazie all’influenza di James Parkinson (scopritore dell’omonimo morbo), Mantell mise in dubbio le stime sull’età della terra, al tempo ritenuta di poche migliaia di anni. Inoltre, nei primi decenni dell’Ottocento, tutti i fossili provenienti da giacimenti del Cretaceo inglese erano marini: l’unico rettile fossile di grandi dimensioni conosciuto al tempo era l’ittiosauro, scoperto nel 1811 a Lyme Regis in Dorset dalla collezionista Mary Anning. Mantell prese accordi con la cava di Whiteman’s Green, vicino a Cuckfield nel West Sussex, risalente al Cretaceo Inferiore, per farsi inviare tutti i fossili scoperti accidentalmente negli scavi. E tra questi vi era l’indubbia presenza di ambienti terrestri e d’acqua dolce, che ribattezzò gli strati della Foresta di Tilgate.

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I denti di iguanodonte scoperti da Mantell

Iniziò a collezionare ossa di grandi animali. Tra queste vi fu il suo più grande contributo alla storia della paleontologia: un dente di grandi dimensioni appartenuto a un gigantesco rettile erbivoro, qualcosa di assolutamente sconosciuto all’epoca. Mantell nel 1822 pubblicò il suo primo libro,The Fossils of South Downs or Illustrations of the Geology of Sussex, dedicato a queste scoperte, che ottenne un discreto successo (quattro copie vennero anche ordinate dal Re Giorgio IV). Il trattato, così come tutte le sue prime opere, venne realizzato in un’edizione particolarmente lussuosa e costosa (l’equivalente di 1000 dollari attuali a volume). Mantell intuì che se voleva aumentare sensibilmente le vendite doveva puntare a un pubblico un po’ meno d’élite. Più avanti nella sua carriera realizzò così libri dal costo ben più limitato. In ogni caso, incoraggiato dal successo iniziale della sua opera e dall’aiuto del suo amico geologo Charles Lyell, Mantell fece esaminare il dente fossile dal grande anatomista francese Georges Cuvier, la massima autorità a quell’epoca nel campo, che però lo attribuì erroneamente a un rinoceronte.

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Georges Cuvier (1769-1832)

A tarpare le ali dell’entusiasmo del medico-paleontologo fu poi la Geological Society di Londra, i cui membri non furono convinti della sua interpretazione del reperto. Forse anche la formazione scientifica da autodidatta di Mantell, che quindi godeva di scarso prestigio negli ambienti accademici, fu la causa di questo disinteresse. Nonostante la fatica, le grandi spese sostenute e le delusioni subite, la forza delle sue convinzioni superò le avversità: Mantell ripropose un paio di anni dopo, nel 1824, nuovi reperti provenienti dallo stesso strato roccioso a Cuvier, che a questo punto ammise di buon grado il proprio errore, confermando che si trattava indubitabilmente di parti di un rettile. Nello stesso anno, Mantell si prese la rivincita anche sulla Geological Society, presentando la lettera in cui il luminare francese ammetteva pubblicamente il suo sbaglio.

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Una ricostruzione dello scheletro dell’iguanodonte realizzata da Mantell

Mantell diede al rettile il nome di Iguanodonte (“dente d’iguana”), e, non appena ebbe sufficienti evidenze fossili, ipotizzò una sua struttura del corpo che oggi sappiamo essere corretta, con gli arti anteriori molto più corti dei posteriori. Nello stesso anno il teologo e paleontologo William Buckland identificò e descrisse scientificamente il Megalosauro, a cui fu lo stesso Mantell a dare il nome scientifico, dedicato al suo scopritore, nel 1827: Megalosaurus bucklandii.

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Ricostruzione ottocentesca di Megalosaurus

Con il riconoscimento delle sue scoperte, arrivò anche un discreto successo: Notice on the Iguanodon, a Newly Discovered Fossil Reptile, from the Sandstone of Tilgate Forest, in Sussex, pubblicato nel 1825, fu letto pubblicamente in una riunione della Royal Society, di cui Mantell fu eletto Fellow. Nel 1833 Mantell decise di trasferirsi da Lewes a Brighton per trovarsi “nel cuore dell’azione”. Mai scelta fu più sbagliata. Il lavoro di medico gli aveva assicurato una vita più che dignitosa, che gli consentiva anche di pagare gli operai che di volta in volta gli procuravano i fossili. Con il trasferimento, Mantell avrebbe dovuto procurarsi nuovi clienti, ma, nella sua prima conferenza pubblica, commise due gravi errori: prima assicurò i medici locali che non sarebbe stato un loro concorrente, poi affermò, di fronte a potenziali nuovi pazienti, che le sue ricerche non lo avrebbero distolto dal suo lavoro di dottore. In breve le sue finanze andarono in grave crisi e, per pagare i propri debiti, la sua villa venne trasformata in un museo pubblico, con biglietto di ingresso di uno scellino, cifra altissima per l’epoca. Anche la situazione familiare precipitò: prima Mantell fu lasciato dalla moglie Mary Ann nel 1839, stesso anno in cui il figlio Walter emigrò in Nuova Zelanda, dalla quale in seguito gli avrebbe inviato fossili di grande valore. L’anno dopo morì la figlia Hannah. A tutto questo si sommarono gravi problemi di salute. Nel 1841 infatti Mantell cadde dalla propria carrozza, rimanendo intrappolato nelle redini e venendo trascinato al suolo. Come risultato, ebbe una grave lesione alla spina dorsale, che gli causò dolori costanti per il resto della sua vita. Ciononostante, Mantell proseguì nei suoi studi con la caparbietà che aveva contraddistinto tutta la sua carriera.

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Richard Owen (1804-1892)

È fondamentale a questo punto introdurre un’altra figura cruciale nella paleontologia inglese di quegli anni: Richard Owen. Egocentrico e ambizioso, Owen era un brillante paleontologo (è lui l’ideatore del termine “dinosauro”), ma era anche visto come un personaggio odioso e ampiamente controverso, ad esempio per la violenza con cui si oppose alle teorie di Darwin. Owen tenne sempre un atteggiamento ostile nei confronti di Mantell, opponendosi a gran parte delle sue teorie e cercando di sminuire le sue scoperte. Non perdeva mai occasione di sottolineare la scarsa formazione scientifica, da autodidatta, del medico di campagna. Owen aveva gioco facile in tal senso: a differenza del suo rivale, era benestante e aveva una brillante carriera accademica in corso, grazie anche al matrimonio con la figlia di un suo professore. Oltre ad aver litigato pubblicamente con Mantell sui dinosauri ma anche su molti altri fossili, attribuì a se stesso e a Cuvier la scoperta dell’iguanodonte, cercò di impedire alla Royal Society di conferirgli la Royal Medal e di pubblicare molte sue ricerche, in modo tale da attribuirsene il merito. Nel 1851 arrivò al punto di visionare di nascosto i disegni di un nuovo dinosauro che Mantell avrebbe dovuto presentare alla Geological Society e, sfruttando un rinvio della conferenza, pubblicò la scoperta, attribuendosene il merito, su un’altra rivista. Alla fine, Owen venne allontanato dalla Royal Society con l’accusa di plagio, ma ormai il danno era fatto. Per Mantell la morte arrivò nel 1852, in seguito a un sovradosaggio di oppiacei, che prendeva regolarmente per lenire i dolori alla schiena. Ma l’accanimento di Owen non si placò neppure in seguito alla scomparsa del suo rivale: la grande collezione di oltre 20000 fossili, costata decenni di sacrifici, venne acquistata dallo stesso Owen, che la smembrò tra donazioni e scambi con altri musei. Acquistò anche la spina deformata di Mantell, in modo che venisse esposta al Royal College of Surgeons. Fu addirittura accusato di essere l’autore di un necrologio in cui Mantell veniva descritto come uno scienziato mediocre che nella vita non aveva conseguito nessun successo significativo. Per fortuna, nonostante la malvagità e l’accanimento del suo rivale, la memoria di Gideon Mantell è rimasta intatta, così come l’eredità lasciata dal suo monumentale lavoro di ricerca. All’epoca della sua morte era accreditato della scoperta di quattro degli allora cinque generi conosciuti di Dinosauri, e, oltre all’iguanodonte, identificò per primo anche il brachiosauro, insieme a innumerevoli altre specie di vertebrati e invertebrati. Fu anche il primo a teorizzare, a ragione, l’esistenza di forme di vita su antichissime rocce risalenti al Precambriano, ai suoi tempi ritenute troppo antiche per portarne traccia. Per chi volesse ripercorrere nel dettaglio la drammatica epopea di Mantell, Owen e degli altri pionieri dello studio dei dinosauri, due opere imperdibili sono il libro di Deborah Cadbury “Cacciatori di dinosauri. L’acerrima rivalità scientifica che portò alla scoperta del mondo preistorico”, pubblicato da Sironi editore nel 2004 e un film per la tv realizzato da National Geographic nel 2002, intitolato sempre The dinosaur hunters.

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La leggenda di un obiettivo

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È divertente pensare come, in certi frangenti, le vicende legate a freddi oggetti tecnologici possano essere ben più interessanti dei fatti di noi persone in carne e ossa. Addirittura, in certi rari casi, questi possono offrirci spunti di riflessione proprio su noi stessi.

E così, anche se ai più “Zeiss Planar 50mm f/0.7” non dirà nulla, agli appassionati di fotografia e cinema questo nome risuonerà come una specie di chimera, un oggetto leggendario per il quale sarebbero disposti a donare un rene o a sacrificare qualche parente pur di poterci mettere le mani sopra.

Il perché è semplice: questo obiettivo fotografico, sviluppato dai laboratori del grande Carl Zeiss a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, è uno dei più luminosi mai creati. Nota per i non appassionati di fotografia (da qui in poi, NPINAF): “luminoso” significa dotato di grande apertura di diaframma, e quindi in grado di funzionare in maniera eccellente anche in condizioni di scarsa luce.

Per creare un’ottica del genere si partì da progetti inizialmente sviluppati dalla Germania nazista per le osservazioni all’infrarosso, poi trafugati dai sovietici e infine arrivati nella Germania Ovest, dove l’azienda di Zeiss aveva la sua sede. Ovviamente un obiettivo del genere non era per nulla economico, e difatti lo sviluppo del progetto venne portato avanti perché occorreva alla NASA per le sonde che ai tempi venivano mandate a fotografare e mappare la superficie della Luna: si era in piena Guerra Fredda ed era cominciata la corsa per chi, tra USA e URSS, avrebbe per primo mandato un uomo sul nostro satellite. In particolare, le fotografie alla faccia “nascosta” della Luna rischiavano di venire troppo scure. Persino alcuni obiettivi con diaframma 1.0, e quindi luminosissimi, non si erano rivelati soddisfacenti. NPINAF: l’apertura del diaframma aumenta col diminuire del suo valore, quindi lo 0.7 dello Zeiss sta a significare che era ben più luminoso degli obiettivi 1.0, che comunque non scherzavano affatto a livello di performance in scarsa luce.

Comunque sia, la corsa alla Luna è andata come tutti conosciamo e, anche se motivata da ragioni a dir poco opinabili come dimostrare agli avversari di essere tecnologicamente (e quindi militarmente) più forti, il risultato è stato una lunga serie di progressi tecnologici di cui godiamo tuttora.

Dell’obiettivo vennero creati solo 10 esemplari: 1 rimase a Carl Zeiss, 6 furono venduti alla NASA e tre vennero invece acquistati dal grande regista Stanley Kubrick. So quanto quest’associazione farà felici quei complottisti che credono che lo sbarco sulla Luna del ’69 sia una messinscena filmata proprio dal grande cineasta. Sfortunatamente per loro però, Kubrick si interessò alla lente perché era, tra le altre cose, un grande esperto di tecnica fotografica oltre che uno dei pochi che ai tempi potesse permettersi un acquisto del genere.

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Opportunamente adattato per la cinepresa, l’obiettivo venne utilizzato per filmare alcune scene di “Barry Lyndon”, sfruttando soltanto l’illuminazione delle candele. Per un perfezionista come Kubrick, questo era il modo giusto per rendere giustizia alle atmosfere settecentesche della sceneggiatura. C’era il rovescio della medaglia: un obiettivo così luminoso, per le basilari leggi dell’ottica, ha anche una cortissima profondità di campo (NPINAF: questa è la zona a fuoco dell’immagine). E così, per non apparire mai sfuocati, gli attori impegnati nelle scene a lume di candela non poterono quasi muoversi. Comunque, anche se tecnicamente complicatissimo, il risultato finale fu straordinario. La lente utilizzata per le riprese venne poi donata a Sage Stallone, figlio del più celebre Sylvester, che era un appassionato cineasta e fan di Kubrick (e come non esserlo?) e che purtroppo sarebbe mancato a soli 32 anni.

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Oggi un paio di queste lenti si possono affittare e provare su una macchina fotografica appositamente adattata. Non mi sono però informato sui costi: in fondo, ci tengo a rene e parenti. Ma la riflessione che più di ogni altra andrebbe fatta, pensando a questo oggetto, è di come spesso la tecnologia abbia fatto grandi balzi in avanti per le ragioni sbagliate. Prima gli obiettivi all’infrarosso dei nazisti, che ovviamente avevano ragione d’essere solo per utilizzo militare, poi la corsa alla Luna vinta dagli americani sui sovietici: risultato nobile, motivazione discutibile. E invece potremmo – e, a mio avviso, dovremmo – concentrarci sul creare qualcosa di nuovo solo perché aiuta il progresso dell’Umanità o, perché no, ci regala semplicemente qualcosa di bello, come un film girato a lume di candela.

 

La Notte Europea dei Ricercatori, edizione 2017

Ed eccoci qui a ricordare, come ogni anno, un evento da non perdere per tutti gli appassionati di scienza: il prossimo 29 settembre è la Notte Europea dei Ricercatori, edizione 2017.

Il programma degli eventi, come ogni anno, è fittissimo e coinvolge tantissime città e ogni fascia di età e ogni tipo di pubblico: ci sono infatti tantissimi spettacoli, convegni, laboratori didattici orientati a un pubblico misto, e altrettanti studiati apposta per le varie classi scolastiche, a partire dalla scuola dell’infanzia per arrivare fino agli ultimi anni delle superiori. E soprattutto, una proposta adatta ad ogni tipo di palato: si parla di biologia, di fisica, di chimica, di astronomia, di ingegneria ma anche di società, di futuro, di innovazione. Tutto orientato a “ridurre le distanze” tra il pubblico comune e chi lavora e vive di scienza. Qualche piccolo esempio:

Piccoli esperimenti di Termodinamica”, laboratorio organizzato dall’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, venerdì 29 settembre 2017 dalle ore 10:00 alle ore 12:00. La location è l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale – Area Ingegneria – via Gaetano Di Biasio, 43 – Cassino, IT.

Perché si è rotto il pedale della bicicletta?” Venerdì 29 settembre 2017, dalle ore 10:00 alle ore 19:00, presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale – Viale dell’Università – Cassino, IT.

Alice nel paese delle meraviglie dei materiali”, venerdì 29 settembre 2017, dalle ore 11:00 alle ore 23:59, presso il Fortino di Sant’Antonio Abate – Lungomare imperatore augusto – Bari, IT.

I mostri dentro di loro: un viaggio nel mondo dei parassiti”, venerdì 29 settembre 2017 dalle ore 15:00 alle ore 19:00. La location è l’Università di Parma – Via Università, 12 – Parma, IT.

Piccoli Fisici!”, venerdì 29 settembre 2017, dalle ore 14:00 alle ore 23:59. Presso l’INFN sezione di Pavia – Broletto, piazza della Vittoria – Pavia, IT.

Il filo conduttore della manifestazione è il Made in Science, ossia una “filiera della conoscenza” come visione per il mondo della scienza e della ricerca. La lista completa degli eventi è online ed è visualizzabile all’indirizzo http://www.frascatiscienza.it/pagine/notte-europea-dei-ricercatori-2017/programma/. È possibile filtrare gli eventi per data, luogo, fascia d’età a cui è orientato l’evento, tipologia. Come sempre, la Notte Europea dei Ricercatori di Frascati Scienza è un progetto finanziato dalla Commissione Europea. L’evento vanta oltre 50 partner scientifici e opera su più di trenta città italiane. Il suggerimento è quello di studiarsi per bene il programma e trovare l’evento più adatto ai propri interessi. Per esplorare, scoprire, avvicinarsi al mondo della ricerca con un sorriso.

Per ulteriori informazioni: www.frascatiscienza.it, sito ufficiale dell’associazione Frascati Scienza che coordina l’evento.

Perché proprio il pangolino?

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Pangolino tricuspide (Valerius Tygart – Wikimedia Commons)

All’ordine dei mammiferi Folidoti appartengono esclusivamente le otto specie conosciute di pangolino. Per chi non li conoscesse, questi simpatici animaletti sono specializzati nella cattura di insetti e larve di vario genere, con una particolare predilezione per termiti e formiche. Le tante scaglie di cheratina, che in certi esemplari possono essere mille o anche di più, coprono la quasi totalità del corpo degli animali e donano loro un aspetto corazzato che li rende facilmente riconoscibili. A seconda della specie, i pangolini possono misurare da poche decine di centimetri fino ad arrivare al metro di lunghezza.

I pangolini, se escludiamo le loro piccole prede, sono animali sostanzialmente innocui. Sono per lo più notturni e per questo motivo quasi del tutto ciechi. Per difendersi da pericoli esterni non usano artigli o denti (che non hanno), ma si appallottolano un po’ come fanno i ricci, sfruttando così la loro protezione esterna. Grazie a un notevole esempio di convergenza evolutiva, dispongono di lunghi artigli per attaccare i termitai e una lunga lingua appiccicosa che serve a catturare gli insetti che li fa in questi aspetti assomigliare ai formichieri americani.

Le varie specie si possono trovare in buona parte del continente africano (dalle nazioni subsahariane fin giù al Sudafrica) e in Asia, in particolare in India, Cina e Indonesia. Sono inoltre difficilissimi da allevare: in cattività il loro tasso di mortalità è altissimo.

E fin qui, nulla di nuovo per chi è appassionato di natura e di animali esotici un po’ particolari. Il pangolino è sostanzialmente una creatura timida, insolita, bella. La novità del 2016 è che il pangolino è stato dichiarato ufficialmente “L’animale più trafficato al mondo“. La sua carne è ritenuta particolarmente prelibata e viene mangiata sia in Africa sia nel Sudest asiatico, le scaglie di cheratina vengono utilizzate per la creazione di gioielli e decorazioni di vario genere. Le scaglie sono inoltre sfruttate dalla famigerata medicina tradizionale cinese, che, quando si tratta di contribuire alla scomparsa di animali già in grave declino, non riesce proprio a mancare all’appello.

March of the Pangolins from WildAid on Vimeo.

Ma è soprattutto nel Sudest asiatico che il pangolino viene considerato una specie di status symbol. In Vietnam un chilogrammo di carne di pangolino può arrivare a costare 200 dollari sul mercato nero. Le quattro specie asiatiche sono quelle più a rischio di estinzione ma, data la grande richiesta, ora anche in Africa il bracconaggio sta crescendo in maniera esponenziale. E, conseguentemente, il traffico illecito che porta carne e scaglie di pangolino dal continente nero al Sudest asiatico è in costante aumento. Alcuni mesi fa sono state sequestrate 1,4 tonnellate di scaglie di pangolino, provenienti dalla Sierra Leone, nel porto vietnamita di Haiphong. Si è stimato che fossero state prelevate da circa diecimila animali. In un’altra occasione, ancora nel 2016, al porto di Hong Kong sono state sequestrate circa 4,4 tonnellate di scaglie: le casse riportavano l’indicazione “scaglie di plastica”. In un’altra occasione, sempre nel corso del 2016 e sempre a Hong Kong, le scaglie confiscate erano quasi 10 tonnellate ed erano dirette alle Filippine. Ad agosto, in un ristorante sull’isola di Giava, le autorità hanno confiscato 650 corpi di pangolino, conservati nel freezer di un ristorante.

Nonostante il lavoro incessante di tutela portato avanti sul territorio (decine di bracconieri vengono arrestati ogni anno, soprattutto in Africa), gli altissimi prezzi del mercato asiatico sembrano rendere il traffico illegale degli animali sempre più intenso e sempre più difficile da contrastare. Secondo la IUCN, l’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, oltre un milione di persone ha acquistato pangolini negli ultimi dieci anni. E non solo come cibo o come fonte di scaglie: si sta diffondendo sempre di più la moda di tenere i pangolini in casa come animali domestici, cosa che, come abbiamo visto, è del tutto incompatibile con la loro natura e che causa lA loro morte nella stragrande maggioranza dei casi.

E così nel settembre scorso, al meeting di Johannesburg, i rappresentanti del CITES (Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione) hanno votato all’unanimità un bando totale sul commercio internazionale dei pangolini. Gli animali sono stati inseriti nell’Appendice 1 della convenzione, che garantisce loro la massima protezione possibile. Le otto specie sono oggi tutte classificate tra “vulnerabile” e “a rischio di estinzione” nella Lista rossa dell’IUCN. Ulteriori informazioni sull’attuale status dei pangolini si possono trovare in un lungo articolo in italiano sul sito naturalistico Mongabay.

Personalmente mi ritengo piuttosto scettico su quanto questo tipo di tutela possa influire su un mercato nero immenso, che coinvolge decine di nazioni su due continenti (e non solo: pare che anche in Europa e in America si stia diffondendo un certo interesse per l’animaletto corazzato). Tra l’altro, il commercio di pangolini genera un giro di affari nell’ordine di decine di milioni di euro ogni anno (e forse anche di più): difficile contrastare un mercato di tale portata. Ciononostante, la dichiarazione del Cites ha dato una tenue speranza in più al nostro timido raccoglitore di termiti. Speriamo bene.

Nel frattempo, pur cercando di conservare una visione il più possibile ottimistica sul futuro del nostro pianeta, non posso esimermi dal ricordare che ogni anno decine, forse centinaia o migliaia di specie scompaiono dalla faccia della Terra. Ecco un breve riassunto di alcune specie a cui abbiamo definitivamente dato l’addio nel 2016. Sperando che l’anno a venire non sia ancora peggiore.

Il primo convegno di Jane Goodall

Jane Goodall

Per celebrare l’8 marzo, vi racconto un aneddoto che spero aiuti a riflettere.
Era il 1962, e la giovanissima Jane Goodall partecipava per la prima volta a un convegno. Si trattava di un simposio sui primati organizzato dalla Zoological Society di Londra.
Ai tempi, i convegni scientifici erano una cosa serissima, e le donne presenti una sparuta minoranza.
Jane era emozionata e aveva preparato l’evento nei minimi dettagli. Aveva ripetuto il suo intervento per ore, e si era presentata con un completo elegantissimo, i capelli raccolti e un elegante cappellino. Aveva attirato l’attenzione di molti presenti.
Nonostante la giovane età Jane, con i suoi studi sugli scimpanzé condotti a Gombe, in Tanzania, aveva già collezionato un numero di ore di osservazione diretta degli animali nel loro ambiente naturale ineguagliato da chiunque. Le scimmie avevano fiducia in lei, l’avevano accettata nel gruppo e le permettevano di osservarle durante la giornata. Nessun altro era riuscito ad ottenere risultati simili fino ad allora.

Solly Zuckerman

Ciononostante il moderatore della conferenza, sir Solly Zuckerman, aveva un atteggiamento ostile nei suoi confronti. Zuckerman era un soggetto imponente, sia per la sua fisicità sia, soprattutto, per la lunga carriera scientifica. Era un anatomista comparato, aveva studiato le scimmie (soprattutto i babbuini) e il loro comportamento, sia in natura sia in cattività. Inoltre era anche un eroe di guerra, quindi alla statura scientifica si sommava un grande rispetto da parte di tutti i suoi interlocutori. Zuckerman temeva che Jane fosse la solita ragazzina entusiasta e priva della minima formazione teorica. E così prese a correggere, contestare e sminuire ogni sua affermazione.
Ma Jane Goodall aveva già fatto grandi scoperte: aveva visto che gli scimpanzé erano in grado di creare e utilizzare strumenti; aveva visto che erano anche carnivori e che si avventuravano regolarmente in battute di caccia; aveva scoperto che i maschi erano promiscui e si accoppiavano con più femmine, ma senza avere harem fissi.
Quest’ultima affermazione strideva con le convinzioni di sir Solly. Eppure Jane quelle osservazioni le aveva fatte sul campo, e le aveva supportate con foto e filmati.
Non solo: quando uno spettatore chiese degli harem a Jane, per due volte Zuckerman rifiutò di girare la domanda alla relatrice, e quando, innervosito, lo spettatore si rivolse direttamente a lei e Jane ovviamente rispose descrivendo quanto aveva osservato, sir Solly osservò stizzito che c’era gente che “preferiva gli aneddoti alle rigorose prove scientifiche”.
Peraltro, quello spettatore era lo zoologo Desmond Morris, che a brevissimo avrebbe ottenuto un grande successo come divulgatore con “La scimmia nuda”, libro tornato in auge in questi giorni in Italia grazie alla citazione di una canzone di Sanremo (sic). Ebbene, Zuckerman, per scusarsi dell’uscita infelice, scrisse poi un bigliettino a Morris per dirgli che aveva capito che voleva solo stimolare il dibattito, ma che temeva che si andasse a finire nelle discussioni antiscientifiche “per colpa della sensualità”.
Insomma, quando per l’8 marzo spuntano i soliti discorsi sulle donne che in realtà possono fare il lavoro che vogliono e ottenere gli stessi risultati degli uomini, potete raccontare questa storia. Così magari si rifletterà un po’ più nel dettaglio sul fatto che sì, le donne possono raggiungere ogni traguardo nella vita, ma che spesso, per farlo, sono costrette a superare qualche ostacolo in più.

Desmond Morris

Imitare, imparare, migliorare: il genio imprevisto di api e bombi

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Bombo (Bombus terrestris – Ivar Leidus/Wikimedia commons)

Karl von Frisch fu il primo a rendersene conto: gli insetti, in particolare le api, hanno un’intelligenza vivace, flessibile, adattabile. Questa capacità permette alle esploratrici di utilizzare un linguaggio astratto per comunicare alle loro compagne l’ubicazione del cibo che hanno appena individuato. Dando loro le indicazioni esatte su dove raccoglierlo, le compagne potranno dirigersi direttamente alla fonte di approvvigionamento, riducendo al minimo gli sforzi e gli sprechi di energia. Prima delle scoperte dell’etologo austriaco, pochissimi scienziati ritenevano gli insetti capaci di compiere ragionamenti complessi e distanti dal comportamento puramente istintivo. La danza delle api esploratrici, atta a comunicare l’ubicazione del cibo alle compagne nell’alveare, era però un’azione selezionata da milioni di anni di evoluzione. In definitiva, si trattava comunque di una dimostrazione di intelligenza strettamente legata alle necessità pratiche della colonia e, soprattutto, connessa con le loro attività abituali.

In questi giorni, invece, una ricerca pubblicata su Science ha dimostrato che i bombi (Bombus terrestris), parenti stretti delle api, sono in grado di fare ancora di più: possono apprendere comportamenti ben distanti dalla loro quotidianità. Nello specifico, agli imenotteri è stato insegnato a “fare gol”, ossia spingere dentro ad un buco una piccola pallina di legno per ottenere in cambio una ricompensa di acqua zuccherata. Già questo è un comportamento del tutto inedito tra gli insetti, ma la parte più sorprendente dell’esperimento riguarda proprio la loro fase di apprendimento. Gli autori dello studio, gli scienziati Olli Loukola e Clint Perry della Queen Mary University di Londra, hanno proceduto per fasi: prima hanno fatto scoprire agli insetti che al centro della piattaforma, ogni tanto, poteva apparire del nettare zuccherino; poi hanno fatto vedere che la sua comparsa era direttamente collegata alla caduta della pallina dentro al buco al centro del piano di studio; inizialmente, la pallina veniva spostata tramite un magnete posto sotto alla piattaforma o tramite un bombo di plastica che “insegnava” agli osservatori come ottenere la ricompensa; infine, dopo che alcuni insetti hanno imparato la procedura e hanno iniziato ad utilizzarla, altri bombi hanno osservato e appreso dai loro simili.

Anche il livello di apprendimento degli insetti ha rivelato quanto fossero importanti i metodi di insegnamento: quasi tutti i bombi (il 99%) sono riusciti a realizzare la procedura al primo tentativo dopo aver visto i loro simili effettuarla, circa tre quarti (78%) hanno imparato dopo aver visto in azione il magnete, mentre una percentuale molto più bassa (34 %) ci è riuscita dopo aver visto la pallina già nel buco. E non è tutto: i bombi hanno ottimizzato la procedura, prendendo l’abitudine di scegliere la pallina più vicina al foro per risparmiare fatica. E questo nonostante i ricercatori avessero obbligato alcuni bombi “istruttori” a scegliere la pallina più lontana, incollando le altre alla piattaforma. Gli allievi hanno comunque ottimizzato il lavoro, scegliendo la pallina più vicina al foro che, nel loro caso, non era incollata. Questo ha dimostrato che il problema era stato da loro elaborato e non si trattava di pedissequa imitazione. In un altro studio pubblicato recentemente, si erano viste delle api raccogliere del cibo legato ad un cordino tirandolo fino ad essere in grado di raccoglierlo, ma si trattava, tutto sommato, di un risultato meno sorprendente, dato che agli insetti venivano presentate condizioni che potevano in qualche modo essere incontrate in natura.

Il dover “fare gol” per ottenere una ricompensa, per contro, è qualcosa di assolutamente inedito nel mondo dei bombi e, più in generale, nella classe degli insetti (qui è possibile vedere il video dell’esperimento).

Gli scienziati sono tuttora in cerca delle spiegazioni per questo comportamento. La risposta più credibile è che i bombi, e più in generale questo tipo di insetti, abbia una capacità di elaborare le informazioni e di risolvere i problemi che potrebbe aiutarli in caso di ricerca del cibo e di risposte alle modifiche ambientali, ma quello che è certo è che si tratta di animali molto più intelligenti di quanto siamo abituati a pensare. Nel 2016 un altro studio, pubblicato da Andrew B. Barron e Colin Klein su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha scombussolato la nostra tradizionale visione degli insetti, ipotizzando che le api abbiano un certo grado di autoconsapevolezza. Anche se si tratta di pure ipotesi, si tratta comunque di una visione molto innovativa sulle capacità mentali degli insetti. Ora bisognerà riconsiderare gli studi in questo campo, per capire fino a che livello l’intelligenza degli animali a sei zampe si possa spingere. Difficile stabilirlo, finché non sarà ben chiaro che cosa intendiamo per “intelligenza”. Di certo, però, sarà ben difficile mantenere i nostri vecchi pregiudizi su questi animali e sulle loro capacità.