Danilo Mainardi – L’animale culturale (1975)

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Numerosissimi scienziati, psicologi ed etologi in particolare, hanno cercato, soprattutto nel corso del secolo passato, di stabilire dei limiti ‘culturali’ entro cui separare gli animali dall’uomo. Le scienze naturali ci hanno insegnato, soprattutto in tempi recenti, che tale limite non è stabilito né dalle capacità di apprendimento o di astrazione del linguaggio, né dall’utilizzo di arnesi, o dal riuscire a comunicare con forme di comunicazione complesse (ne sono un classico esempio le scimmie antropomorfe a cui sono stati insegnate forme di linguaggio umano, come Koko o Washoe); dove risiederebbe tale distinzione allora? Cos’è che rende l’uomo distinguibile dal resto del regno animale, qual è la chiave di volta che lo ha portato all’incredibile successo evolutivo delle ultime migliaia di anni?

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Il celebre scimpanzé femmina Washoe, a cui è stato insegnato il linguaggio dei segni.

La risposta sembra risiedere in un solo termine, ovvero cultura. Il grande etologo italiano Danilo Mainardi cerca con questo suo celebre saggio di stabilire e definire appieno gli aspetti che differenziano la capacità di produrre e trasmettere cultura degli animali in contrapposizione con quella che contraddistingue l’umanità.

Va innanzitutto sottolineato che il concetto di ‘cultura’, inteso come insieme di concetti appresi e trasmessi ai propri simili, non va assolutamente in contrapposizione o antitesi col mondo animale, anzi. Mainardi, come è tipico delle sue opere (un altro classico esempio è L’etologia caso per caso), esamina i vari aspetti del concetto di apprendimento e trasmissione della conoscenza punto per punto, fornendo numerosi esempi tratti dall’osservazione diretta del mondo animale a tutti i livelli.

Gli animali non solo possono approfondire e affinare le proprie conoscenze oltre i basilari comportamenti dettati dall’istinto, ma sono anche in grado di diffondere tale conoscenza all’interno delle comunità di cui fanno parte. Un classico esempio riguarda i Macachi del Giappone (Macaca fuscata): un gruppo di questa specie abitante l’isola di Koshima in Giappone, in condizioni di stretto contatto con l’uomo, ha preso l’abitudine nei primi anni ‘50 di accettare cibo offerto dagli uomini, in particolare patate dolci.

La scoperta che ha cambiato il comportamento di gran parte della comunità è stata compiuta da una giovane femmina di circa un anno di età, chiamata Imo, che per prima ha preso l’abitudine di portare la patata nell’acqua di un ruscello per ripulirla della sabbia. Tale comportamento si è diffuso largamente nella colonia, e in giro di pochi anni è diventata un’abitudine di gran parte del gruppo. Questa attività si è inoltre affinata con gli anni: la stessa Imo, difatti, ha scoperto che lavando la patata nell’acqua marina piuttosto che nell’acqua dolce, essa assumeva un sapore evidentemente più gradevole per i primati. Tale modifica nel comportamento si è sviluppata anch’essa nella colonia, ed è curioso notare anche come siano stati quasi sempre le fasce d’età più giovani del gruppo di scimmie a imparare e utilizzare per prime tali novità.
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Un macaco dell’isola di Koshima, in Giappone, intento a lavare una patata dolce; questo è un tipico esempio di comportamento appreso e culturalmente trasmesso all’interno di un gruppo animale.

Dunque il punto a favore dell’umanità nel confronto culturale con gli animali non è l’apprendere o il diffondere una nuova conoscenza. Mainardi esamina a questo punto un altro tipico concetto che secondo un classico modo di fare scienza distinguerebbe l’uomo dall’animale, ovvero l’utilizzo di attrezzi. Inutile sottolineare come gli esempi di utilizzo di strumenti nel regno animale per vari scopi (nutrimento, difesa, avvertimento, aggressività) siano molteplici. L’interesse è però quello di stabilire qual è il nesso tra l’utilizzo di arnesi e la cultura nel regno animale.

L’utilizzo di oggetti semplici, generalmente non modificati, per raggiungere un determinato scopo da parte dell’animale è piuttosto diffuso, si va dalle scimmie che si servono di bastoni e armi rudimentali per attaccare un potenziale nemico (un leopardo impagliato in un celebre esperimento dell’etologo danese Kortlandt), all’avvoltoio Capovaccaio che utilizza delle pietre per rompere i robusti gusci delle uova di cui si nutre, alle lontre marine che aprono bivalvi e crostacei utilizzando pietre come scalpelli, fino alle scimmie che si servono di fili d’erba per raccogliere le termiti dal termitaio. Ciò che però permea di ‘cultura’ tali comportamenti è la capacità di modificare e affinare questi tramite l’esperienza diretta, ad esempio modificando l’arnese a seconda delle necessità, oppure sostituendolo con un altro più efficace, al variare del contesto.

Un esempio classico è dato dagli studi effettuati sullo scimpanzé Sultan da parte dello studioso tedesco Wolfgang Köhler nel dopoguerra. Questa scimmia, difatti, aveva sviluppato in laboratorio una straordinaria capacità discernitiva che le permetteva di risolvere problemi di difficoltà sempre crescente. A Sultan veniva infatti offerto un premio gustoso all’interno di un tubo, non raggiungibile direttamente con le mani. Il primo passo compiuto dallo scimpanzé fu utilizzare il bastone che gli venne fornito per raccogliere il cibo dal tubo. Il successivo evolversi del problema fu privare l’animale del bastone, in modo da renderlo capace di ricavare uno strumento adatto da altri oggetti, al fine di ottenere ugualmente il premio. Sultan fu in grado di ricavare un palo di forma adatta da blocchi di legno di svariata forma anche se, almeno apparentemente, non permettevano in alcun modo di immaginare un futuro utilizzo per lo scopo, come ad esempio da un pezzo di legno di forma circolare. Il limite delle capacità di Sultan venne raggiunto quando gli fu offerto un disco di quercia, inattaccabile da unghie e denti, insieme a una rudimentale ascia di pietra. La scimmia non riuscì mai a capire il nesso tra il secondo oggetto e il suo arnese potenziale, si intestardì, si arrabbiò, provò in tutti i modi, ma non ne venne a capo, neanche quando le venne mostrata direttamente la ‘soluzione’ del problema. Sultan, insomma, sembrava non arrivare al concetto dell’utilizzo di un arnese per creare il proprio arnese. Forse è proprio questo la differenza fondamentale nella cultura delle scimmie antropomorfe rispetto all’uomo? Difficile stabilirlo, in fondo si trattava comunque di un unico esemplare di un’unica specie, forse il limite di Sultan non è il limite di un altro scimpanzé  o di un’altra scimmia, o di un altro animale. Rimane il fatto di un dato oggettivo comunque estremamente interessante, condiviso anche dal grande paleoantropologo Tobias, che ha supposto che un nostro stesso progenitore, l’Australopiteco, si sia fermato al livello di fare l’arnese per fare l’arnese, e non sia riuscito a spingersi oltre.

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Lo scimpanzé Sultan intento a risolvere un problema che richiede l’utilizzo di uno strumento, in questo caso un bastone.

Mainardi sviluppa il suo discorso sull’importanza dell’apprendimento di un comportamento creato da altri individui. Gli esempi sono molteplici, come i topi da laboratorio, che dimostrano un’enorme flessibilità nell’adottare i comportamenti di altri individui quando questi sanno risolvere un problema: i topi tenuti in compagnia di individui ‘maestri’, già in grado di risolvere semplici problemi come aprire delle porticine per sfuggire dalla gabbia, dimostrano risultati enormemente maggiori rispetto ad altri individui che non hanno una traccia guida a cui rifarsi. La massima prerogativa di questi roditori è difatti la capacità di colonizzare nuovi ambienti specializzandosi sul momento alle nuove condizioni, pur dovendo sacrificare tantissimi individui della propria specie, elemento questo che spiega la loro altissima prolificità. Allo stesso modo i gatti, che, se non vengono correttamente educati, non attaccheranno mai topi o ratti, ma anzi prenderanno l’abitudine a convivere con loro, e in certi casi ad affezionarsi ad essi e mostrare sentimenti protettivi se cresciuti assieme a loro.

Un altro tipico esempio di comportamento appreso e trasmesso dall’osservazione diretta è quello dei cosiddetti ‘fringuelli vampiri’ che popolano alcune delle isole Galapagos. Questi passeriformi, appartenenti al genere Geospiza, hanno l’abitudine di salire sul dorso di uccelli marini più grandi come le sule, per ripulirli di alcuni parassiti di cui si nutrono. La casuale rottura di una penna avrà portato alcuni individui a scoprire che era per loro possibile nutrirsi del sangue dei loro ospiti, senza che questi si accorgessero di nulla, e ora tale comportamento ha preso piede e si è diffuso in numerose colonie di uccelli marini. Si tratta, in questo caso, di cultura trasmessa non tramite l’insegnamento, ma attraverso la semplice osservazione di altri individui.

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I ‘fringuelli vampiri’ delle Galapagos.

L’apprendimento necessita forzatamente che ci sia una capacità comunicativa alta per permettere all’individuo di comprendere i concetti fondamentali del nuovo comportamento, sia che questo venga insegnato dai genitori (è tipico l’esempio di mamma gatta che porta ai gattini dei topi, prima morti e poi vivi, per insegnare loro la caccia), sia che sia semplicemente osservato su altri individui che effettuano per conto loro tali comportamenti.

Mainardi focalizza la sua attenzione sia sull’utilizzo di forme di comunicazione estremamente evolute e variabili come il canto degli uccelli e l’apprendimento vocale (con riferimenti anche alle specie con capacità imitatorie, come gracule e pappagalli), sia sulla creazione di un substrato sufficientemente ricettivo affinché l’insegnamento possa essere efficace: un tipico esempio è l’imprinting che lega i giovani uccelli al primo essere visto dalla nascita, che generalmente coincide con la figura materna.

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Il celebre etologo Konrad Lorenz nuota con la sua ‘nidiata’ di giovani oche: è un tipico esempio di imprinting.

Oltre alle capacità comunicative e di apprendimento, ciò che ha realmente fatto la differenza nella linea filetica degli Ominidi, che ha condotto all’uomo moderno, è forse proprio lo sviluppo di una forma di comunicazione vocale particolarmente evoluta e completa, che ha permesso una capacità di trasmissione delle informazioni e della conoscenza pratica ed estremamente rapida, che ha dato il via a una serie di reazioni a catena che hanno portato alla sua immensa evoluzione culturale.

La comunicazione animale esiste, ed è anche in certi casi particolarmente sviluppata (un tipico esempio è il canto degli uccelli), e laddove non c’è naturalmente può essere insegnata: oltre a Washoe e Koko, un altro classico esempio è Sarah, scimpanzé in grado di comunicare e creare frasi grammaticalmente complete e strutturate in ogni parte (!) tramite l’utilizzo di simboli magnetici apposti su una lavagna; la differenza rispetto all’uomo risiede però nel fatto che la comunicazione vocale umana è un mezzo immediato, funzionale, e sviluppatosi tramite l’evoluzione del proprio organismo, e questo è un limite, insormontabile in quanto fisico, per le scimmie antropomorfe, che hanno sempre dato risultati scarsi e deludenti quando si è provato a insegnarla loro.

Mainardi conclude il suo saggio con un confronto tra la cultura umana e quella animale delineando gli aspetti fondamentali che hanno portato l’uomo a essere l’animale culturale per eccellenza: straordinarie doti discernitive e di apprendimento, capacità di imparare dai propri errori e di risolvere i problemi, un’eccellente manualità nel creare e utilizzare arnesi, un linguaggio vocale immediato e completo, e, soprattutto, una forte socialità e una capacità di condividere e diffondere la conoscenza, aspetto questo che ha posto le basi per la creazione e l’accrescimento della cultura di ogni individuo e di ogni civiltà umana.

L’uomo, secondo Mainardi, ha evoluto e sviluppato la capacità di andare oltre quanto imposto dalle necessità immediate imposte dall’ambiente, utilizzando doti di immaginazione e progettazione straordinarie, riuscendo a superare i limiti del gruppo o della piccola comunità, per svilupparsi sia culturalmente che – soprattutto – demograficamente. Così facendo si è evoluto in una direzione diversa da quella imposta dalla natura, in cui a un eccessivo aumento di una popolazione si alterna sempre un drastico calo a compensare tale squilibrio, e questo sviluppando di continuo, di generazione in generazione, le sue straordinarie doti comunicative e discernitive.

Ciò che il grande etologo si augura, in conclusione di questo splendido e avvincente libro, è che l’umanità utilizzi ancora queste capacità quando compie danni contro la natura o i suoi stessi simili, rendendosi conto dei propri errori, e che talora si ricordi delle sue origini ‘animalesche’ e le utilizzi per ricordarsi di sentimenti forse più istintivi, ma assolutamente necessari, come la pietà, l’altruismo o la pacifica convivenza.

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