Parlare la stessa lingua

Indicatore golanera

Indicatore golanera (Wilferd Duckitt/Wikimedia commons)

Da millenni la popolazione degli Yao, in Mozambico, si dedica alla ricerca e alla raccolta del miele delle api selvatiche. Per trovare il dolce bottino, però, i raccoglitori si affidano al talento di un insolito aiutante, un uccellino. L’indicatore golanera (Indicator indicator), infatti, è ben più bravo dell’uomo nel trovare i nidi degli insetti e nel condurlo fino alla loro ubicazione. Spesso, infatti, gli alveari sono costruiti sui rami più alti degli alberi e trovarli non è così facile per chi non è in grado di volare. Gli uomini, per contro, sono molto più abili nel recupero del bottino: staccano l’alveare dal ramo su cui è costruito e lo affumicano per far scappare le api.

E così, seguendo una tradizione che si perpetua ormai da tantissime generazioni, i cercatori si affidano alle indicazioni del volatile, che dalla collaborazione potrà ottenere il vantaggio di nutrirsi, grazie a dei potenti enzimi digestivi, della cera dell’alveare (di scarso interesse per gli umani) una volta che questo sarà abbandonato dalle sue abitanti. Questo rapporto di collaborazione non è però esclusivo: anche i tassi del miele sfruttano le indicazioni degli uccellini per recuperare il prezioso bottino.

Questo tipo di interazione tra specie viene chiamato mutualismo: entrambe le parti in gioco ottengono un vantaggio dalla reciproca collaborazione, senza entrare in competizione diretta per le risorse (agli uomini interessa il miele, agli indicatori la cera). Questa collaborazione tra uomini e uccelli per trovare il miele è comunque conosciuta da secoli. Tra l’altro, lo stesso sistema di raccolta del miele è stato osservato in altre popolazioni africane, in Kenya e Tanzania, mentre è risaputo che i delfini sono in grado di aiutare i pescatori nella loro ricerca di pesce, ben consci che potranno trarre un vantaggio da questa collaborazione.

La novità assoluta riguardante questo comportamento è stata presentata in un articolo pubblicato su Science pochi giorni fa: i cercatori di miele Yao e gli uccellini, nella riserva nazionale di Niassa in Mozambico, comunicano tra di loro utilizzando un linguaggio comune. Nello specifico, il richiamo emesso e interpretato allo stesso modo da uomini e volatili è un particolare tipo di fischio vagamente tremolante, indicato dai ricercatori come “brrr-hm”. Il segnale sembra, dati alla mano, una sorta di comando che gli uomini impartiscono agli uccellini, qualcosa del tipo: “sono qui, dimmi dove si trova l’alveare e al resto penso io”. Per i più curiosi, qui potete ascoltare il particolare richiamo:

Ma cosa ci sarà mai di nuovo in tutto ciò, direte voi: c’è chi dirà che ogni mattina qualcuno fa un fischio al cane e questo viene dal padrone e magari gli porta pure le pantofole. In questo caso, però, la grande novità consiste nel fatto che il richiamo emesso è lo stesso per uomini e uccelli e che, soprattutto, questi ultimi sono animali selvatici. Fino ad ora, infatti, non si avevano prove di un livello di comunicazione condiviso tra uomini e animali selvatici.

Queste osservazioni personalmente mi spingono a riflettere su un argomento ben più ampio: è davvero così necessario imporre tutte queste distinzioni tra i comportamenti degli animali in natura e in cattività? Mi spiego meglio. È vero, indubbiamente, che lo stato di prigionia influisca sul modo in cui gli animali si relazionano con l’uomo e con l’ambiente circostante; nondimeno è stato fondamentale, per la conoscenza del comportamento animale, il passaggio allo studio dell’etologia degli animali in libertà, a cominciare soprattutto da Konrad Lorenz e dai suoi contemporanei: un conto è se un animale in uno zoo, per vincere un premio in cibo, impara a utilizzare un attrezzo, un’altra cosa è osservare l’utilizzo di questo utensile in natura. Detto questo, però, se osserviamo un animale comunicare con l’uomo con un linguaggio comune, come abbiamo visto per tanti primati in cattività, non dovrebbe venirci il dubbio che, almeno potenzialmente, questi possano avere questo talento anche in natura? Ovviamente ci vogliono anni e anni di insegnamento per raggiungere i livelli di Koko o Kanzi, però se guardiamo a come opera l’evoluzione, e quindi su più generazioni, una scoperta come quella che riguarda i cercatori di miele mozambicani non dovrebbe stupirci più di tanto. Ora però, come giustamente spiegato in questo articolo di National Geographic, bisogna affrettarsi a studiare a fondo il fenomeno: sempre meno africani si dedicano alla tradizionali ricerca degli alveari, e i segreti di questa antica pratica e della parlata comune di uomini e uccelli rischiano di andare perduti per sempre.

Francine Patterson, Eugene Linden – L’educazione di Koko (1981)

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Sempre meno sono le certezze rimaste all’essere umano dopo tante scoperte scientifiche che gli hanno tolto molte di quelle che fino a poco tempo fa erano considerate sue prerogative esclusive, come la creazione e l’utilizzo di utensili, oppure la divulgazione di scoperte e tradizioni di padre in figlio, ormai comprovate capacità di numerose specie animali.

Tra queste poche certezze vi era sicuramente la conoscenza del linguaggio; ci stiamo riferendo ovviamente non a un metodo di comunicazione semplice e immediato, come quello di abbaiare, pigolare, emettere gesti o marcare il territorio, tipico degli animali, ma a un linguaggio articolato, complesso e in grado di definire concetti e situazioni complesse e addirittura astratte. Anche questa certezza negli ultimi decenni è venuta meno, a causa dei colpi inflittigli dalle ricerche nel campo del linguaggio effettuate da psicologi e antropologi sugli animali più vicini a noi, ovvero le scimmie antropomorfe.

Celebre è il caso di Washoe, scimpanzè femmina allevato dai coniugi Gardner, studiosi di psicologia comparata, a cui fu insegnato nel corso di pochi anni a esprimersi con un linguaggio a gesti utilizzato dai sordomuti, l’Ameslan (Linguaggio Americano a Segni). La scelta di utilizzare una forma di espressione differente da quella vocale ha rappresentato un’autentica svolta nello sviluppo di tali ricerche, sia perchè le differenze fisiche tra uomini e scimmie rendevano assolutamente improbabile la possibilità di dialogo tramite questo tipo di comunicazione, sia perchè tutti i tentativi effettuati in passato di insegnare il linguaggio parlato agli animali avevano dato risultati sconfortanti, qualora non si fosse trattato di comportamenti indotti dagli allevatori o pedissequa imitazione. Celebre è infatti il caso degli ‘animali sapienti’, come cani e cavalli che soprattutto verso la fine del XIX secolo venivano indicati come capaci di effettuare operazioni matematiche o ragionamenti estremamente complessi e di comunicarli abbaiando o battendo gli zoccoli a terra, quando in realtà essi si comportavano basandosi su piccole reazioni innate dei loro allevatori.

Ed è proprio dall’esempio dei Gardner e da una loro conferenza a cui l’autrice assistette nei primi anni ‘70, che prende spunto l’esperimento della dottoressa Patterson, giovane psicologa di Stanford, sul gorilla femmina Koko, allevato ed educato sin da un anno di vita a utilizzare un linguaggio con cui comunicare con i suoi tutori.

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Koko e Francine Patterson in un’immagine recente

Il libro è una narrazione passo passo dei progressi compiuti da Koko nel corso degli anni, della sua incredibile versatilità e intelligenza e dei suoi straordinari miglioramenti compiuti negli anni nell’utilizzare il linguaggio dei sordomuti. Sbalorditive sono la sua fantasia e la sua ironia, così come la sua capacità di esprimere con pochi gesti concetti complessi e profondi, i propri sentimenti e le proprie paure.

Sono oltretutto estremamente spassosi alcuni dialoghi, sia per la fantasia del gorilla nell’esprimere concetti coloriti, sia per l’effettiva allegria caratteriale e la sua ironia. Eccone un esempio, tra Koko e l’assistente Cindy:

KOKO: Tempo unghie noce. (A quanto pare, Koko dà a Cyndy della noce [nuts in inglese, ossia pazza], uno dei suoi insulti preferiti, e la minaccia di graffiarla con le unghie, una delle sue minacce preferite, se non accondiscende).

KOKO: Frutto…chiave chiave tempo. (Koko vuol dire che è arrivato il momento, per Cindy, di servirsi della chiave per aprire il frigorifero).

CINDY: No, non adesso tempo chiave.

KOKO: sì tempo andiamo tempo, noce.

CINDY: No, non tempo!

KOKO: Sì tempo.

CINDY: No tempo.

KOKO: Unghie.

CINDY: Perchè?

KOKO: Tempo.

CINDY: Oh, insomma.

Allo stesso modo, sono assolutamente spassosi gli insulti utilizzati da Koko, principalmente nei confronti di un altro gorilla allevato insieme a lei, ossia Michael:

PENNY: Ti piace Mike?

KOKO: Diavolo marcio.

PENNY: Vuoi che Mike entri? Che pensi?

KOKO: Penso stupido diavolo.

PENNY: Dì cattivo

KOKO: Gabinetto marcio.

PENNY: Sei gelosa di Mike?

KOKO: Mike noce.

Lo stesso Mike, a cui è stato ugualmente insegnato l’Ameslan, ha avuto un ruolo importante nel fornire ulteriori elementi chiarificatori sugli studi effettuati su Koko: l’età difatti ha un ruolo importantissimo sull’apprendimento, e non è difatti un caso che Koko, a cui si è incominciato a insegnare il linguaggio per sordomuti in età molto più giovane, abbia un vocabolario di espressioni e delle capacità comunicative decisamente superiori rispetto al suo amico.

Resta di fatto che anche Mike ha evidenziato un intelligenza e un’ironia notevoli, soprattutto nel caso di domande che lui ritiene stupide:

ESTHER: Puoi dirmi una lunga frase per carne?

MICHAEL: Carne carne carne carne carne carne carne carne carne carne.

ESTHER: Sì, è lunga ma è sciocca. Puoi fare meglio?

MICHAEL: Dai forza gorilla piace piace.

ESTHER: Che cosa a te piace?

MICHAEL: Dai carne.

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Mamma gatto, protagonista della fiaba, sgrida i gattini. ‘Cattiva’ è la personale opinione di Koko.

Di certo la notorietà che Koko ha avuto negli anni, soprattutto grazie a una copertina e un articolo di National Geographic, e, in seguito, anche di Time, hanno avuto un peso notevole negli studi della Patterson, che proseguono tuttora; Koko ormai utilizza un vocabolario di oltre 1000 gesti Ameslan, un’associazione per la tutela delle grandi scimmie antropomorfe (in particolare i gorilla di montagna come lei) prende il suo nome e ottiene fondi e sponsorizzazioni soprattutto grazie alla sua grande celebrità, e il suo sito (http://www.koko.org, da cui oltretutto il libro è scaricabile per intero) conta migliaia di visitatori e di nuovi iscritti ogni anno.

Il futuro, insomma, sembra roseo per l’ormai ultratrentenne Koko, che sembra non solo avere coscienza della morte, ma dà anche l’impressione di averne una visione molto pacifica e filosofica: ‘…Maureen le ha chiesto di indicare uno scheletro di gorilla tra le immagini di quattro tipi di scheletri animali, e, quand’ebbe scelto quello giusto, Maureen le chiese se il gorilla era vivo o morto.

KOKO: Morti panni. [‘panni’ è un’espressione usata fequentemente da Koko]

MAUREEN: Vediamo se questo gorilla è vivo o morto.

KOKO: Morto addio.

MAUREEN Cosa provano i gorilla quando muoiono? Felici, tristi, spaventati?

KOKO: Sonno.

MAUREEN: Dove vanno gorilla quando morire?

KOKO: Comodo buco addio.

MAUREEN: Quando gorilla muoiono?

KOKO: Guaio vecchi.’

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La celebre copertina del National Geographic avente Koko per protagonista. Il titolo principale riporta ‘conversazioni con un gorilla’.

Insomma, questo libro offre molte occasioni per riflettere, proprio perchè permette al lettore di rendersi conto che i nostri parenti più prossimi non solo hanno capacità comunicative, di pensiero e di astrazione assolutamente impensabili fino a qualche decennio fa, ma che sono dotati di sentimenti, di sensibilità, di capacità che più di ogni altre venivano considerate in passato prettamente ‘umane’; è anche uno spunto per riflettere su quanto l’uomo sta compiendo sui simili di Koko, e sulla necessità di tutelare l’ambiente e la natura che ospitano i nostri ‘cugini’, anche perchè, grazie a lei, ci siamo ulteriormente resi conto di quanto essi ci assomiglino.

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Koko fa il gesto ‘amore’ alla vista di un gattino. Il gorilla ha avuto numerosi animali domestici, che ha sempre curato con grande affetto; il suo preferito era All Ball, un gattino. Quando questo morì, investito da una macchina, Koko rimase estremamente addolorata.

Danilo Mainardi – L’animale culturale (1975)

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Numerosissimi scienziati, psicologi ed etologi in particolare, hanno cercato, soprattutto nel corso del secolo passato, di stabilire dei limiti ‘culturali’ entro cui separare gli animali dall’uomo. Le scienze naturali ci hanno insegnato, soprattutto in tempi recenti, che tale limite non è stabilito né dalle capacità di apprendimento o di astrazione del linguaggio, né dall’utilizzo di arnesi, o dal riuscire a comunicare con forme di comunicazione complesse (ne sono un classico esempio le scimmie antropomorfe a cui sono stati insegnate forme di linguaggio umano, come Koko o Washoe); dove risiederebbe tale distinzione allora? Cos’è che rende l’uomo distinguibile dal resto del regno animale, qual è la chiave di volta che lo ha portato all’incredibile successo evolutivo delle ultime migliaia di anni?

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Il celebre scimpanzé femmina Washoe, a cui è stato insegnato il linguaggio dei segni.

La risposta sembra risiedere in un solo termine, ovvero cultura. Il grande etologo italiano Danilo Mainardi cerca con questo suo celebre saggio di stabilire e definire appieno gli aspetti che differenziano la capacità di produrre e trasmettere cultura degli animali in contrapposizione con quella che contraddistingue l’umanità.

Va innanzitutto sottolineato che il concetto di ‘cultura’, inteso come insieme di concetti appresi e trasmessi ai propri simili, non va assolutamente in contrapposizione o antitesi col mondo animale, anzi. Mainardi, come è tipico delle sue opere (un altro classico esempio è L’etologia caso per caso), esamina i vari aspetti del concetto di apprendimento e trasmissione della conoscenza punto per punto, fornendo numerosi esempi tratti dall’osservazione diretta del mondo animale a tutti i livelli.

Gli animali non solo possono approfondire e affinare le proprie conoscenze oltre i basilari comportamenti dettati dall’istinto, ma sono anche in grado di diffondere tale conoscenza all’interno delle comunità di cui fanno parte. Un classico esempio riguarda i Macachi del Giappone (Macaca fuscata): un gruppo di questa specie abitante l’isola di Koshima in Giappone, in condizioni di stretto contatto con l’uomo, ha preso l’abitudine nei primi anni ‘50 di accettare cibo offerto dagli uomini, in particolare patate dolci.

La scoperta che ha cambiato il comportamento di gran parte della comunità è stata compiuta da una giovane femmina di circa un anno di età, chiamata Imo, che per prima ha preso l’abitudine di portare la patata nell’acqua di un ruscello per ripulirla della sabbia. Tale comportamento si è diffuso largamente nella colonia, e in giro di pochi anni è diventata un’abitudine di gran parte del gruppo. Questa attività si è inoltre affinata con gli anni: la stessa Imo, difatti, ha scoperto che lavando la patata nell’acqua marina piuttosto che nell’acqua dolce, essa assumeva un sapore evidentemente più gradevole per i primati. Tale modifica nel comportamento si è sviluppata anch’essa nella colonia, ed è curioso notare anche come siano stati quasi sempre le fasce d’età più giovani del gruppo di scimmie a imparare e utilizzare per prime tali novità.
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Un macaco dell’isola di Koshima, in Giappone, intento a lavare una patata dolce; questo è un tipico esempio di comportamento appreso e culturalmente trasmesso all’interno di un gruppo animale.

Dunque il punto a favore dell’umanità nel confronto culturale con gli animali non è l’apprendere o il diffondere una nuova conoscenza. Mainardi esamina a questo punto un altro tipico concetto che secondo un classico modo di fare scienza distinguerebbe l’uomo dall’animale, ovvero l’utilizzo di attrezzi. Inutile sottolineare come gli esempi di utilizzo di strumenti nel regno animale per vari scopi (nutrimento, difesa, avvertimento, aggressività) siano molteplici. L’interesse è però quello di stabilire qual è il nesso tra l’utilizzo di arnesi e la cultura nel regno animale.

L’utilizzo di oggetti semplici, generalmente non modificati, per raggiungere un determinato scopo da parte dell’animale è piuttosto diffuso, si va dalle scimmie che si servono di bastoni e armi rudimentali per attaccare un potenziale nemico (un leopardo impagliato in un celebre esperimento dell’etologo danese Kortlandt), all’avvoltoio Capovaccaio che utilizza delle pietre per rompere i robusti gusci delle uova di cui si nutre, alle lontre marine che aprono bivalvi e crostacei utilizzando pietre come scalpelli, fino alle scimmie che si servono di fili d’erba per raccogliere le termiti dal termitaio. Ciò che però permea di ‘cultura’ tali comportamenti è la capacità di modificare e affinare questi tramite l’esperienza diretta, ad esempio modificando l’arnese a seconda delle necessità, oppure sostituendolo con un altro più efficace, al variare del contesto.

Un esempio classico è dato dagli studi effettuati sullo scimpanzé Sultan da parte dello studioso tedesco Wolfgang Köhler nel dopoguerra. Questa scimmia, difatti, aveva sviluppato in laboratorio una straordinaria capacità discernitiva che le permetteva di risolvere problemi di difficoltà sempre crescente. A Sultan veniva infatti offerto un premio gustoso all’interno di un tubo, non raggiungibile direttamente con le mani. Il primo passo compiuto dallo scimpanzé fu utilizzare il bastone che gli venne fornito per raccogliere il cibo dal tubo. Il successivo evolversi del problema fu privare l’animale del bastone, in modo da renderlo capace di ricavare uno strumento adatto da altri oggetti, al fine di ottenere ugualmente il premio. Sultan fu in grado di ricavare un palo di forma adatta da blocchi di legno di svariata forma anche se, almeno apparentemente, non permettevano in alcun modo di immaginare un futuro utilizzo per lo scopo, come ad esempio da un pezzo di legno di forma circolare. Il limite delle capacità di Sultan venne raggiunto quando gli fu offerto un disco di quercia, inattaccabile da unghie e denti, insieme a una rudimentale ascia di pietra. La scimmia non riuscì mai a capire il nesso tra il secondo oggetto e il suo arnese potenziale, si intestardì, si arrabbiò, provò in tutti i modi, ma non ne venne a capo, neanche quando le venne mostrata direttamente la ‘soluzione’ del problema. Sultan, insomma, sembrava non arrivare al concetto dell’utilizzo di un arnese per creare il proprio arnese. Forse è proprio questo la differenza fondamentale nella cultura delle scimmie antropomorfe rispetto all’uomo? Difficile stabilirlo, in fondo si trattava comunque di un unico esemplare di un’unica specie, forse il limite di Sultan non è il limite di un altro scimpanzé  o di un’altra scimmia, o di un altro animale. Rimane il fatto di un dato oggettivo comunque estremamente interessante, condiviso anche dal grande paleoantropologo Tobias, che ha supposto che un nostro stesso progenitore, l’Australopiteco, si sia fermato al livello di fare l’arnese per fare l’arnese, e non sia riuscito a spingersi oltre.

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Lo scimpanzé Sultan intento a risolvere un problema che richiede l’utilizzo di uno strumento, in questo caso un bastone.

Mainardi sviluppa il suo discorso sull’importanza dell’apprendimento di un comportamento creato da altri individui. Gli esempi sono molteplici, come i topi da laboratorio, che dimostrano un’enorme flessibilità nell’adottare i comportamenti di altri individui quando questi sanno risolvere un problema: i topi tenuti in compagnia di individui ‘maestri’, già in grado di risolvere semplici problemi come aprire delle porticine per sfuggire dalla gabbia, dimostrano risultati enormemente maggiori rispetto ad altri individui che non hanno una traccia guida a cui rifarsi. La massima prerogativa di questi roditori è difatti la capacità di colonizzare nuovi ambienti specializzandosi sul momento alle nuove condizioni, pur dovendo sacrificare tantissimi individui della propria specie, elemento questo che spiega la loro altissima prolificità. Allo stesso modo i gatti, che, se non vengono correttamente educati, non attaccheranno mai topi o ratti, ma anzi prenderanno l’abitudine a convivere con loro, e in certi casi ad affezionarsi ad essi e mostrare sentimenti protettivi se cresciuti assieme a loro.

Un altro tipico esempio di comportamento appreso e trasmesso dall’osservazione diretta è quello dei cosiddetti ‘fringuelli vampiri’ che popolano alcune delle isole Galapagos. Questi passeriformi, appartenenti al genere Geospiza, hanno l’abitudine di salire sul dorso di uccelli marini più grandi come le sule, per ripulirli di alcuni parassiti di cui si nutrono. La casuale rottura di una penna avrà portato alcuni individui a scoprire che era per loro possibile nutrirsi del sangue dei loro ospiti, senza che questi si accorgessero di nulla, e ora tale comportamento ha preso piede e si è diffuso in numerose colonie di uccelli marini. Si tratta, in questo caso, di cultura trasmessa non tramite l’insegnamento, ma attraverso la semplice osservazione di altri individui.

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I ‘fringuelli vampiri’ delle Galapagos.

L’apprendimento necessita forzatamente che ci sia una capacità comunicativa alta per permettere all’individuo di comprendere i concetti fondamentali del nuovo comportamento, sia che questo venga insegnato dai genitori (è tipico l’esempio di mamma gatta che porta ai gattini dei topi, prima morti e poi vivi, per insegnare loro la caccia), sia che sia semplicemente osservato su altri individui che effettuano per conto loro tali comportamenti.

Mainardi focalizza la sua attenzione sia sull’utilizzo di forme di comunicazione estremamente evolute e variabili come il canto degli uccelli e l’apprendimento vocale (con riferimenti anche alle specie con capacità imitatorie, come gracule e pappagalli), sia sulla creazione di un substrato sufficientemente ricettivo affinché l’insegnamento possa essere efficace: un tipico esempio è l’imprinting che lega i giovani uccelli al primo essere visto dalla nascita, che generalmente coincide con la figura materna.

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Il celebre etologo Konrad Lorenz nuota con la sua ‘nidiata’ di giovani oche: è un tipico esempio di imprinting.

Oltre alle capacità comunicative e di apprendimento, ciò che ha realmente fatto la differenza nella linea filetica degli Ominidi, che ha condotto all’uomo moderno, è forse proprio lo sviluppo di una forma di comunicazione vocale particolarmente evoluta e completa, che ha permesso una capacità di trasmissione delle informazioni e della conoscenza pratica ed estremamente rapida, che ha dato il via a una serie di reazioni a catena che hanno portato alla sua immensa evoluzione culturale.

La comunicazione animale esiste, ed è anche in certi casi particolarmente sviluppata (un tipico esempio è il canto degli uccelli), e laddove non c’è naturalmente può essere insegnata: oltre a Washoe e Koko, un altro classico esempio è Sarah, scimpanzé in grado di comunicare e creare frasi grammaticalmente complete e strutturate in ogni parte (!) tramite l’utilizzo di simboli magnetici apposti su una lavagna; la differenza rispetto all’uomo risiede però nel fatto che la comunicazione vocale umana è un mezzo immediato, funzionale, e sviluppatosi tramite l’evoluzione del proprio organismo, e questo è un limite, insormontabile in quanto fisico, per le scimmie antropomorfe, che hanno sempre dato risultati scarsi e deludenti quando si è provato a insegnarla loro.

Mainardi conclude il suo saggio con un confronto tra la cultura umana e quella animale delineando gli aspetti fondamentali che hanno portato l’uomo a essere l’animale culturale per eccellenza: straordinarie doti discernitive e di apprendimento, capacità di imparare dai propri errori e di risolvere i problemi, un’eccellente manualità nel creare e utilizzare arnesi, un linguaggio vocale immediato e completo, e, soprattutto, una forte socialità e una capacità di condividere e diffondere la conoscenza, aspetto questo che ha posto le basi per la creazione e l’accrescimento della cultura di ogni individuo e di ogni civiltà umana.

L’uomo, secondo Mainardi, ha evoluto e sviluppato la capacità di andare oltre quanto imposto dalle necessità immediate imposte dall’ambiente, utilizzando doti di immaginazione e progettazione straordinarie, riuscendo a superare i limiti del gruppo o della piccola comunità, per svilupparsi sia culturalmente che – soprattutto – demograficamente. Così facendo si è evoluto in una direzione diversa da quella imposta dalla natura, in cui a un eccessivo aumento di una popolazione si alterna sempre un drastico calo a compensare tale squilibrio, e questo sviluppando di continuo, di generazione in generazione, le sue straordinarie doti comunicative e discernitive.

Ciò che il grande etologo si augura, in conclusione di questo splendido e avvincente libro, è che l’umanità utilizzi ancora queste capacità quando compie danni contro la natura o i suoi stessi simili, rendendosi conto dei propri errori, e che talora si ricordi delle sue origini ‘animalesche’ e le utilizzi per ricordarsi di sentimenti forse più istintivi, ma assolutamente necessari, come la pietà, l’altruismo o la pacifica convivenza.

Stephen Hart – Il linguaggio degli animali (1996)

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Una delle dottrine scientifiche più ‘giovani’, essendo sostanzialmente nata a cavallo tra XIX e XX secolo ed essendosi sviluppata solamente in queste ultime decadi, è l’etologia, o studio del comportamento animale. Tanto ampio è il campo di studi, dato che comprende tutto l’insieme di gestualità, forme di comunicazione e comportamentali dell’intero regno animale, tanto breve è la storia della scienza preposta al suo studio: questo presuppone che gran parte delle ricerche in corso siano ancora in uno stato embrionale, e che molte grandi scoperte possano tuttora essere fatte; si tratta, in sostanza, di una scienza ‘di confine’.

Uno dei punti di forza di questa dottrina scientifica è proprio l’essere un campo di studi recente e per questo di grande fascino per il grande pubblico. In questa ottica nascono opere divulgative come Il linguaggio degli animali, del biologo statunitense Stephen Hart: una narrazione affascinante e al tempo stesso affascinata ci porta svariati esempi provenienti dai più disparati gruppi animali a dimostrare come il linguaggio, sia esso visivo, vocale, gestuale o tramite altri mezzi, sia tutt’altro che una prerogativa umana.

Ovviamente pescare in questo mare di informazioni non è affatto semplice, e infatti Hart fornisce pochi esempi significativi per alcuni dei principali gruppi tassonomici, onde evitare di sommergere il lettore con tonnellate di informazioni dispersive, esortandolo invece a interessarsi all’argomento e ad approfondire, in letteratura o meglio ancora tramite osservazione diretta in natura, i metodi e le forme di comunicazione del mondo animale.

Nonostante il grande amore per la disciplina in oggetto, l’autore ricorda ai lettori (ma è un monito soprattutto per gli studiosi) di non farsi prendere da facili entusiasmi alla vista di potenziali nuove scoperte, e cita in tal senso l’esempio del celebre ‘cavallo sapiente’ Hans. 
Questo animale, allevato verso la fine del XIX secolo da un insegnante tedesco in pensione di nome Wilhelm von Osten, aveva, almeno apparentemente, la capacità di compiere calcoli matematici estremamente complessi, capendo le domande dei propri interlocutori e fornendo risposte invariabilmente esatte, semplicemente battendo uno zoccolo a terra fino a dare il risultato del calcolo richiesto.

Hans divenne presto una celebrità e le sue capacità vennero ritenute genuine anche da alcuni scienziati, finché non ci si accorse che Hans sapeva rispondere correttamente soltanto quando chi era presente nella sua stessa stanza era a conoscenza della risposta. Ciò che lo stesso von Olsten ignorava, difatti, era che Hans non aveva sviluppato una straordinaria capacità di calcolo, ma aveva un altro talento: sapeva riconoscere quegli impercettibili segnali del corpo, sia del suo maestro ma anche di altre persone e persino degli estranei, che inconsciamente gli comunicavano quando smettere di battere lo zoccolo a terra. 

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Il ‘cavallo sapiente’ Hans

Sebbene il fallimento dell’esperienza di Hans placò gli entusiasmi nel campo della comunicazione tra uomini e animali, questo fu comunque un aiuto per le esperienze di ricerca successive, evitando che altri studi in questo campo fossero viziati da possibili imbrogli o errori; uno sbaglio analogo alla vicenda del cavallo sapiente, peraltro, avvenne in seguito, quando si scoprì che uno scimpanzé di nome Nim, a cui era stato insegnato il linguaggio dei segni, in realtà imitava le movenze dei propri insegnanti, pur non avendo idea del significato dei propri gesti.

La comunicazione tramite segnali di varia forma (visiva, sonora, odorosa) è propria anche di organismi non particolarmente complessi, come insetti, ragni, persino molluschi. Tra gli esempi forniti da Hart spicca l’interazione sociale dei Cefalopodi (calamari e seppie) tramite il mutamento del colore del corpo, dovuto a particolari cellule epidermiche chiamate cromatofori.

Gli esempi di insetti ‘comunicatori’ non sono meno numerosi, a partire dalla danza delle api operaie, studiata dal premio nobel Karl von Frisch, passando per il trillio dei grilli maschi, atto sia ad attirare le femmine che a scoraggiare eventuali contendenti, per arrivare addirittura al ronzio delle zanzare, che serve anch’esso ad attirare il partner.

I ragni hanno svariate forme di comunicazione: rilevano le vibrazioni della ragnatela, alcune specie si basano sugli odori e in determinati casi vengono compiute danze rituali per placare il partner. Il caso più estremo è dato però dal maschio di Metellina segmentata, che si apposta ai margini della tela della femmina e attende, a volta anche per giorni interi, finché questa non cattura una preda e se ne sazia. Solamente a tal punto il maschio si presenta, evitando così di essere sbranato.

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Metellina segmentata

Procedendo con gruppi tassonomici più complessi, Hart cerca di descriverci le particolarità più peculiari di ciascuno di essi: per i pesci, insieme alla linea laterale,  caratteristica esclusiva del loro regno con l’eccezione di alcuni anfibi, un organo che permette una ricezione estremamente sensibile dei movimenti dell’acqua, c’è l’elettricità: oltre a essere in grado di crearla per stordire le proprie prede (come nel caso delle torpedini), alcuni pesci la utilizzano come mezzo per ‘vedere’ in ambienti particolarmente torbidi o oscuri, o in certi casi per comunicare con altri individui della propria specie.

Passando per forme di comunicazione ben più conosciute, come il gracidio delle rane e il canto degli uccelli, che comunque presentano complessità e esempi di imitazione e forme di apprendimento fino a qualche anno fa impensabili, giungiamo agli esempi più insoliti della classe dei Mammiferi: quelli che Hart definisce ‘i contrabbassi’, ovvero la comunicazione tramite onde sonore dalle frequenze estremamente gravi, spesso al di sotto della soglia dell’udibile (infrasuoni), da parte di alcune specie di balena e degli ippopotami. Questo tipo di emissione sonora avviene sott’acqua, lungo il corso del fiume per gli ippopotami, e sembra avere funzioni sociali di una certa importanza. La particolarità principale è però il potersi propagare anche per distanze lunghissime (decine di chilometri), e a grande velocità. Ai ‘contrabbassi’ appartengono anche i rinoceronti e gli elefanti, in grado di sprigionare una grande potenza infrasonora, ma anche animali di taglia ben più piccola, come i merluzzi, i polpi, le seppie e i galli cedroni.

Altri mammiferi con notevoli capacità di linguaggio sono i delfini, che hanno una particolare struttura anatomica della testa (melone) che consente loro di concentrare e orientare i suoni che emettono, e in grado di avere comunicazioni sociali anche particolarmente complesse con i propri compagni. 

Il gruppo tassonomico che però offre maggiori spunti di studio sono sicuramente i Primati, sia per l’alto livello di complessità nelle forme di comunicazione e nella gestualità già presenti in natura, sia perché alcune scimmie (il gorilla Koko, lo scimpanzé Washoe, l’orango Chantek) hanno dimostrato di essere in grado di poter comunicare con l’uomo in maniera anche molto complessa e simbolica con il linguaggio dei segni, in particolare l’Ameslan (American Sign Language); in tale campo di studi, sottolinea giustamente Hart, bisogna essere particolarmente attenti alle false scoperte dovute alla grande capacità di emulazione di alcune scimmie, vedi il caso sopracitato di Nim.

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Washoe

In definitiva questo breve e piacevole saggio che si legge in un pomeriggio offre soltanto una sbirciatina nell’amplissimo mondo della comunicazione animale: sono stato costretto a tralasciare moltissime cose, ma spero che il mio libro serva da stimolo ai lettori per saperne di più, scrive Hart. L’operazione in tal senso è sicuramente riuscita, e la lettura è consigliata veramente a tutti.