Giorgio Celli – Ecologi e scimmie di Dio (1985)

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Come tutta l’opera del professor Giorgio Celli, questo suo Ecologi e scimmie di Dio è un lavoro assolutamente sui generis nel campo della lettura scientifica italiana. Immaginatevi di fondere assieme l’entusiasmo narrativo di Konrad Lorenz, il rigore scientifico, seppure inserito in un contesto ‘divertito’, di Richard Feynman, la sinteticità ‘giornalistica’ di Enzo Biagi e la capacità immaginifica e colorita di un grande narratore, come ad esempio Italo Calvino, e otterrete qualcosa di molto simile a quanto prodotto in campo letterario dal professor Celli.

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Giorgio Celli

Nello specifico di quest’opera, tra le sue più conosciute, il trait d’union che sembra unire le apparentemente disparate tematiche trattate è il voler riflettere sul futuro del nostro pianeta e su come l’Umanità stia mettendo a repentaglio il suo stesso futuro con la presunzione di poterlo modificare con la tecnologia e le sue capacità intellettive e discernitive, che, per quanto straordinarie se paragonate al resto del mondo animale, potrebbero tramutarsi in un’arma a doppio taglio. Il cervello ha inventato i nostri killer, scrive Celli nella nota introduttiva, e l’esempio non potrebbe essere più azzeccato. Il parallelismo che viene descritto è tratto dal mondo animale, e riguarda il cosiddetto fenomeno dell’ortogenesi, in cui i cambiamenti nella struttura corporea di determinati organismi portano a un immediato successo adattativo, senonché le modifiche possono essere talmente radicali e drastiche da portare in breve tempo la specie stessa all’estinzione.

È classico il caso dell’Alce d’Irlanda, in realtà una specie di cervo, il cui palco si accrebbe a dismisura fino a diventare di dimensioni sproporzionate, e, nonostante un successo adattativo immediato, l’impaccio e il peso delle corna (definite in questi casi iperteliche) divenne insostenibile, al punto da segnare la scomparsa della specie. E se il nostro cervello fosse il prodotto di una ugualmente rovinosa ortogenesi? L’interrogativo posto da Celli è tuttora aperto, a quasi vent’anni dalla pubblcazione di questo libro, che per tantissimi aspetti si è rivelato profetico. Le nostre capacità immaginative e realizzative si sono spinte fino ai limiti con velocità imprevedibile, eppure i nostri sogni sono cresciuti più in fretta della saggezza.

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Scheletro di Alce d’Irlanda (Giganteus megaloceros), specie estintasi presumibilmente a causa del suo palco di dimensioni spropositate.

La narrazione ci riporta alla mente uno dei primi esempi di ‘ecologismo’ in letteratura, il dottor Stockmann di un’opera di Henrik Ibsen: costui è il protagonista di un autentico dramma ambientale ante litteram, in quanto, da medico delle terme, indaga su misteriosi inquinamenti delle acque che portano dolori e malesseri ai pazienti, fino a scoprire gli effetti nefasti di una conceria posta a monte del centro termale; denunciando l’accaduto, però, non assurge al ruolo di eroe, ma piuttosto di guastafeste che cerca di rovinare il successo economico dell’area, e viene accusato di truffa e fuggito da tutti.

L’inseguire ‘chimere’ tecnologiche e scientifiche è però tanto dannoso quanto accusare o ostracizzare gli scienziati mossi da buona fede: un classico esempio citato da Celli è l’incredibile successo che ottenne il celebre pesticida DDT (abbreviazione di diclorodifeniltricloroetano), sviluppato inizialmente da Zeidler e successivamente da Muller, che dai tempi della II Guerra Mondiale fino agli anni ’60 venne utilizzato in tutto il mondo come killer micidiale (in particolare sulle piantagioni di patate minacciate dalla famigerata Doriphora), ritenendolo versatile e sicuro; purtroppo, poco per volta, se ne scoprirono i suoi effetti nefasti sia sull’ambiente che sull’uomo, dall’indebolimento dei gusci delle uova di uccello e le altissime mortalità conseguenti, alla scoperta di fattori mutageni e cancerogeni, che, causa principale il cosiddetto ‘bioaccumulo’, finivano per raggiungere in quantità sempre maggiori i vari anelli della catena alimentare, uomo compreso.

In questo senso fu esempio premonitore il libro Primavera silenziosa di Rachel Carson, citato dallo stesso Celli, che ci narra anche della nascita dei primi rimedi naturali agli agenti infestanti, ovvero la cosiddetta ‘lotta biologica’, introdotta dal russo Metnikoff, che per primo debellò alcuni parassiti dei cereali utilizzando dei funghi, a loro volta parassiti naturali di questi ultimi. L’impresa ebbe talmente tanto successo che il ricercatore creò la prima vera e propria fabbrica biotecnologica, verso fine XIX secolo, per la coltura delle spore del fungo.

La narrazione di Celli ci porta poi ad alcuni fantasiosi dialoghi che il dottor Mario, tipico rappresentante del mondo occidentale, ha con alcune figure diaboliche (!) tra cui Jezabel, che lo portano in più occasioni a riflettere sul relativo benessere del pianeta su cui vive, con due terzi della popolazione sotto la soglia della povertà, un costante accumulo dell’inquinamento portato dalla produzione industriale, un’esplosione demografica difficilmente controllabile… anche in questo caso, il racconto di Celli si è dimostrato profetico.

In certi casi, ci ricorda il professore bolognese, la figura dello scienziato può scadere in ingenui entusiasmi che troppo spesso lo portano a conclusioni affrettate e approssimative, fino a donare all’intera comunità scientifica facili illusioni; un classico esempio fu la ‘scoperta’ dei ‘Raggi N’, ad opera del professor Blondot dell’Università di Nancy (da cui il nome), che ben presto si rivelarono un buco nell’acqua, una semplice interferenza su ondulazioni già conosciute: in tal caso, l’entusiasmo iniziale venne dato dal fervore scientifico del tempo, in cui venivano costantemente individuate nuove frequenze di trasmissione (Raggi X, raggi gamma e via dicendo), e l’entusiasmo della nuova scoperta fece sottovalutare l’importanza del rigore scientifico e delle controprove nella ricerca.

Altra tipica ‘chimera’ della storia della scienza furono i cosiddetti ‘Animali sapienti’, come il cane Rolf o il cavallo Hans (Clever Hans), considerati, verso la fine dell’Ottocento, in grado di compiere difficili calcoli matematici e ragionamenti complessi e di comunicarli battendo le zampe o gli zoccoli a terra, quando questi in realtà altro non facevano che cogliere impercettibili segni di assenso da parte dei loro padroni.

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Il cavallo Hans, ritenuto in grado di compiere strabilianti calcoli matematici.

In realtà l’essere visionari è uno dei punti di forza dei grandi scienziati: ne è un celebre esempio Alfred Russel Wallace, che fu ideatore (sebbene in molti lo ignorino) quasi in contemporanea con Charles Darwin della teoria dell’origine delle specie per selezione naturale. La sua straordinaria e innata capacità immaginifica però fu in parte anche la sua disgrazia, in quanto il suo essere personaggio particolare, dal passato avventuroso e dai più disparati interessi, anche nel campo dello spiritismo e della parapsicologia, lo resero decisamente più ‘scomodo’ del suo tranquillo collega, che ottenne ben maggiore riconoscimento presso la comunità scientifica.

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Alfred Russel Wallace e Charles Darwin

Altro esempio di capacità ‘visionaria’ la ebbe lo stesso Darwin, anche se un’indole schiva e sensibile non lo aiutò, e a questo suo carattere non certo rivoluzionario Celli dedica un capitolo dell’opera, che però ci dimostra che lo scienziato inglese aveva comunque intraprendenza almeno nella sua visione diagnostica del mondo naturale: Darwin fu anche un eccellente botanico e ipotizzò che a ogni fiore corrispondesse un apposito animale impollinatore (cosa che in realtà non è sempre vera), e, qualora questo non fosse ancora stato scoperto, egli era comunque certo della sua esistenza. Un esempio venne dato da un’orchidea del Madagascar il cui nettario si trova in fondo a una lunga cavità dove nessun apparato boccale di un insetto conosciuto avrebbe potuto arrivare; i fatti diedero ragione a Darwin quando venne scoperta una farfalla notturna dotata di una spirotromba di circa 20 cm di lunghezza (!) a cui, non a caso, venne dato il nome di praedicta.

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L’orchidea del Madagascar Angraecum sesquipedale, visitata dal suo unico impollinatore, la falena Xanthopan morgani praedicta

Celli ci ricorda che l’uomo è in tutto e per tutto un animale, e riassume in sé caratteristiche psicologiche e comportamentali già presenti da milioni di anni nei suoi progenitori. Gli animali provano sentimenti, giocano, hanno capacità diagnostiche e discernitive, in certe occasioni hanno addirittura comportamenti superstiziosi o dettati da una sorta di moralità, specie nel caso di animali domestici, e non usano mai la violenza se non hanno un motivo ben preciso; in tal senso il capitolo conclusivo del libro, in cui Sherlock Holmes descrive al dottor Watson di come il padre di Giosuè Carducci, Michele, avrebbe secondo lui assassinato il fratello del celebre scrittore, suo figlio Dante, e avrebbe successivamente mascherato il misfatto come suicidio, per togliersi la vita lui stesso pochi mesi dopo. Questi eventi rivelano una natura violenta che si cela da sempre nell’indole umana, e che bisognerebbe cercare di controllare in ogni modo, in particolare in un periodo storico come questo, in cui l’opera degli scienziati, le ‘Scimmie di Dio’ del titolo, ci consentono di fare passi più lunghi della gamba e mettere a repentaglio il futuro nostro e dell’intero pianeta.

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Konrad Lorenz – L’altra faccia dello specchio (1973)

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Tra le opere teoretiche di maggior importanza di Konrad Lorenz vi è senz’altro questo saggio datato 1973 (anno di conseguimento del premio Nobel da parte del suo autore). In quest’opera viene sottolineato come tutte le componenti del comportamento umano innato e appreso possano essere inserite in un’ottica di continuità filogenetica con la realtà naturale che circonda l’uomo.

In questo libro ho compiuto il tentativo, forse troppo audace, di dare una visione generale dei meccanismi cognitivi nell’uomo, scrive Lorenz.

Di certo il background culturale dell’autore, sia medico che biologo, lo ha aiutato a mettere insieme un’opera di tale portata, che rivela umiltà nel sottolineare l’ambiziosità del progetto in relazione alle sue comunque non illimitate conoscenze, associata però all’orgoglio nel tentare un lavoro mai realizzato in precedenza.

Finora infatti nel nostro pianeta non si è mai dato il caso di un’autoanalisi riflessiva della cultura umana, esattamente come, prima dei tempi di Galilei, non esisteva una scienza oggettivante della natura nel senso in cui la intendiamo noi. Ecco il perché di questo tentativo di un’analisi naturalistica della società e del comportamento umano, con tutti gli elementi classici dell’etologia di Lorenz, in particolare la difesa dell’idea del comportamento come l’intersecarsi di due elementi indispensabili e irrinunciabili come l’istinto e l’appreso. Tutti gli aspetti dell’analisi biologica degli individui, del loro comportamento e della struttura delle società che costituiscono, per la prima volta vengono così applicate all’uomo.

I tanti aspetti della vita umana, come l’abbigliamento, le mode, l’invarianza e l’evoluzione culturale, l’apprendimento e più in generale l’acquisizione di informazioni a qualunque livello vengono pertanto toccate con il distacco tipico di un naturalista: così Lorenz cerca di dimostrare, non senza ricchezza di esempi, che esiste una notevole continuità nella crescita e sviluppo della cultura umana in relazione al mondo naturale che la circonda.

Tutte le forme e i metodi di apprendimento presenti in natura, viceversa, si presentano nei vari piani che vanno a strutturare l’intelletto umano, sia a livello di singolo che di società. Il distacco tra il mondo naturale e l’ambito umano, teorizzato e sostenuto per secoli, viene poco per volta superato da una nuova ottica di continuità in cui quanto apparso precedentemente in natura è stato acquisito e sviluppato dall’uomo in forme culturali sempre più evolute e complesse, utilizzando però elementi già esistenti.

Il messaggio del saggio di Lorenz è probabilmente quello di sottolineare la straordinarietà dell’uomo in questo senso, ovvero il raggiungimento di livelli di complessità culturale e conoscitiva straordinari, pur utilizzando gli stessi metodi e forme di apprendimento che sono propri del mondo naturale. Sicuramente il lavoro in questione è estremamente ampio e ambizioso, ed è accostabile per forma e complessità ai lavori più ostici e teoretici dell’etologo austriaco, come Evoluzione e modificazione del comportamento, trattante le stesse tematiche, ed è pertanto consigliabile principalmente agli addetti ai lavori, sebbene alcuni passaggi (in particolare i ‘prolegomeni gnoseologici’ che fanno da introduzione al saggio e che esplorano le apparenti contraddizioni e i paradossi dell’Idealismo, in parte riconducibile a Kant, e i loro attriti con la visione del mondo da parte del Naturalista) possano rendere la lettura particolarmente appetibile anche agli appassionati di filosofia. In ogni caso un’opera di alto livello che cerca di spiegare e approfondire i concetti di ‘cultura’ e ‘apprendimento’ analizzandoli con l’occhio distaccato dello scienziato.

Konrad Lorenz – L’anello di Re Salomone (1949)

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Ho da sempre associato la figura di Konrad Lorenz a quella di un vecchio saggio che ha condotto la sua vita in maniera appassionata ma al tempo stesso equilibrata, in armonia con sé stesso, con la natura e gli animali che lo hanno circondato nel corso tutta la sua esistenza, molto più che a quella del grande e influente scienziato, principale artefice della nascita di una nuova disciplina scientifica, l’etologia o studio del comportamento animale; ciò è dovuto in gran parte a questa sua opera, datata 1949, in cui è Lorenz stesso a confessare di averla scritta spinto dalla passione per lo studio degli animali e per la rabbia nata dall’aver letto tante, troppe storie ingiuste e crudeli nei confronti dei suoi beniamini.

Non si tratta difatti di un classico saggio scientifico scritto con rigore e compostezza di termini, ma di un vero e proprio gesto d’amore del grande scienziato nei confronti del mondo animale in tutta la sua varietà e meravigliosa ricchezza. È difatti un libro scritto con trascinante passione, che narra di oche selvatiche che credono di appartenere alla specie umana a causa dell’imprinting, che le ha legate indissolubilmente allo scienziato che le ha ‘covate’, e che per primo hanno visto al momento della loro nascita; di taccole disposte a sacrificare la loro vita pur di salvare le loro compagne; di pesci incredibilmente passionali, di gatti falsi, cani bugiardi, volpi molto meno furbe di quanto non voglia la tradizione; di acquari che si tramutano in grandi mondi inesplorati, creati con poche pianticelle e pesciolini raccolti dallo stagno vicino a casa, e di altri mille piccoli episodi legati a tutta la vita dell’autore, condotta nella casa di Altemberg in un piccolo paradiso incontaminato e popolato da tantissime specie diverse, conviventi in perfetta armonia. Vediamo insomma uno scienziato premio Nobel impegnarsi, in maniera quasi romanzesca, a narrare tutte le piccole e grandi meraviglie del mondo animale, rivelando di avere un coinvolgimento nei suoi studi che si spinge ben oltre la semplice ricerca di nuove scoperte per tramutarsi in una vera e propria passione che riesce a rendere partecipe il lettore dopo pochissime pagine.

Ciononostante, c’è molto più del semplice gusto di Lorenz nel raccontare con ironia e coinvolgimento in questo romanzo; si delinea, a poco a poco, il pensiero del grande scienziato austriaco sulle discusse tematiche dello studio del comportamento animale, come il corteggiamento, l’aggressività (protagonista di un altro suo grande saggio), l’amore, la territorialità e così via, ricordandoci, se ce ne fosse bisogno, che i comportamenti di noi umani non sono poi così lontani da quelli dei nostri ‘fratelli minori’; non è certo un caso, difatti, se gli studi di Lorenz, Von Frisch, Tinbergen (insigniti del premio Nobel per la medicina nel 1973) e pochi altri grandi scienziati hanno fornito un contributo prezioso allo studio del comportamento e della psicologia umana.

Forse questo libro ha due differenti chiavi di lettura: da un lato c’è l’amore, la passione e soprattutto il rispetto per la vita in tutte le sue forme, raccontata in maniera ora ironica, ora coinvolgente e appassionata, ora triste e malinconica, che ci permette di affrontare un approccio alla lettura analogo a quello per un romanzo sensu stricto, mentre dall’altro, forse parzialmente nascosta tra le righe, c’è la rigida convinzione dello scienziato che cerca di insegnarci che l’uomo non è poi così evoluto e superiormente distaccato nei confronti del resto del mondo naturale, e che il rispetto per la vita è un qualcosa di imprescindibile in una società che si presuppone civile. Il piccolo paradiso di Altenberg ha insegnato agli scienziati che per studiare a fondo e coerentemente il comportamento gli animali questi devono essere osservati in libertà; questo libro, invece, ci ha insegnato che per capire realmente la natura del mondo in cui viviamo forse non è sufficiente osservarla e rispettarla, ma bisogna realmente sentirsene parte. Probabilmente non sarebbe male ricordarselo anche in questi tempi di ecologia ‘usa e getta’.

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Konrad Lorenz (1903-1989) gioca con un’oca selvatica, specie protagonista del suo saggio sul comportamento ‘Io sono qui, tu dove sei?’

Piero Angela – Viaggio nel mondo del paranormale (1978)

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Questo non è un libro per coloro che vogliono credere. Ma per coloro che vogliono capire.
Con questa introduzione Piero Angela presenta uno dei suoi lavori più famosi, con la chiara intenzione di approfondire in ogni suo aspetto una tematica di estremo interesse scientifico come la parapsicologia, per sondare e scoprire quanto ci sia di vero e credibile nei fenomeni paranormali di cui parlano costantemente le cronache.
Angela indaga, con spirito critico e rigore scientifico, tutti gli aspetti di tale tematica, dalla telepatia alla chiaroveggenza, dalla precognizione, alla psicocinesi, alle sedute spiritiche e a quant’altro riguardi questo amplissimo territorio di ricerca.
E le sorprese, soprattutto per chi comincia ad avvicinarsi a tali tematiche con un interesse critico, sono decisamente numerose, a partire da alcuni principi di base della fisica che cominciano già di partenza a far dubitare il lettore di grandissima parte delle ‘prove’ che vengono fornite a supporto di un buon numero dei fenomeni paranormali esaminati al giorno d’oggi. Un esempio: per quanto riguarda la comunicazione telepatica, o anche la psicocinesi, essa viene resa fisicamente impossibile dal fatto che la potenza elettrica di una singola cellula nervosa è di un miliardesimo di Watt, valore eccessivamente basso per poter essere distinto dal ‘rumore di fondo’. Tanto più che l’intensità di un campo magnetico diminuisce col quadrato della distanza… Oltretutto, il cervello umano genera frequenze di pochi hertz. Per poter trasmettere con queste frequenze bisognerebbe che gli uomini avessero sulla testa un’antenna di 5 Km di altezza, oppure bisognerebbe immergerli nell’elio liquido, a 260° sotto zero…
Dagli evidenti limiti fisici che rendono se non impossibili almeno estremamente improbabili buona parte di tali fenomeni, la descrizione delle indagini di Angela sul paranormale si dedica all’esame di alcuni degli esempi più noti di parapsicologia, in taluni casi esaminati anche da scienziati celebri senza che si fosse mai giunti a una spiegazione scientifica dei fenomeni.

Un esempio è quello di Eusapia Palladino, celebre medium del XIX secolo, conosciuta principalmente per la levitazione dei tavolini durante le sedute spiritiche. Sebbene fosse stata smascherata varie volte a utilizzare dei trucchi, la sua fama crebbe a dismisura e molti scienziati che assistettero alle sue performances valutarono come assolutamente veri e non spiegabili scientificamente tali presunti fenomeni spiritici.
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Eusapia Palladino

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Eusapia Palladino in alcune delle sue celebri ‘levitazioni’ di tavolini

Altro celebre caso è quello dei Welsh boys, due ragazzi che sembravano possedere doti di telepatia, riuscendo a comunicare tra di loro numeri e frasi pur non essendoci alcun contatto fisico o visivo tra di loro. Anche in questo caso, il trucco fu smascherato: consisteva nell’utilizzo di una pompetta collegata a un fischietto a ultrasuoni (che per alcune frequenze sono percepibili solamente dalle persone di età inferiore ai 20 anni), eppure la loro notorietà rimase intatta.

Gli esempi celebri si susseguono, come ad esempio quello del famoso sensitivo olandese Gerard Croiset, particolarmente noto durante la metà degli anni ‘70 per la sua presunta capacità (che in realtà in molte occasioni si rivelò del tutto inconsistente) di reperire persone smarrite, o decedute, ma l’esempio che con maggiore attenzione è preso in considerazione da Piero Angela è quello di Uri Geller, celebre medium israeliano, conosciuto principalmente per la sua capacità di piegare cucchiai e chiavi con la sola forza del pensiero, oltre a un vasto repertorio di altri esperimenti paranormali.
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Uri Geller

Molti degli esperimenti sullo stesso Geller effettuati anche da celebri scienziati per dimostrare la veridicità dei poteri da lui dichiarati diedero esito positivo; dalle premonizioni di vario genere, alla telepatia (di solito manifestata riconoscendo i disegni o le frasi scritte da altri e chiuse dentro una busta), alle ‘foto spiritiche’ effettuate con macchine con l’obiettivo chiuso, raffiguranti immagini sbiadite di paesaggi e ambienti, per arrivare alla sua specialità, ovvero il piegare chiavi e cucchiai sotto gli occhi di tutti senza trucchi apparenti. La chiave di volta negli studi su Geller si ebbe quando le osservazioni non vennero più effettuate solo da studiosi e scienziati, ma furono chiamati in causa prestigiatori e illusionisti. Lo stesso Angela richiese la collaborazione del celebre illusionista James Randi (The amazing Randi), da sempre impegnato a dimostrare di essere in grado di effettuare gli stessi esperimenti dei medium più famosi utilizzando semplicissimi trucchi da prestigiatore.

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L’illusionista James Randi

Il risultato fu notevole, Randi riuscì a riproporre tutti i trucchi di Geller senza problemi, e in certi casi aumentando anche il grado di difficoltà degli esperimenti stessi. Non è certo un caso che Geller si sia sempre rifiutato di riproporre i suoi ‘prodigi’ sotto il controllo di prestigiatori professionisti, e allo stesso Randi non è mai stato concesso di assistere in prima persona alle esibizioni del medium. Il prestigiatore ha raccolto le sue osservazioni e svelato tutti i trucchi di Geller in un libro, ed ha anche offerto una ricompensa di 10000 dollari (cifra che ora è salita a un milione, e che nessuno è mai riuscito ad aggiudicarsi), a chiunque riuscisse a dimostrare le proprie capacità ‘paranormali’ sotto il controllo suo e di uno staff di scienziati e prestigiatori.

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Il libro di James Randi in cui vengono svelati tutti i trucchi di Uri Geller

Altre tematiche ancora vengono trattate, in questo caso legate principalmente alla superstizione o alla ‘voglia di credere’ nel paranormale della gente comune, e in certi casi, come per la rabdomanzia, le guarigioni miracolose, la preveggenza o anche l’astrologia, non è il fenomeno in sé che va analizzato, ma la risposta del pubblico, disposto ad accettare qualunque verità gli venga proposta, quando anche statisticamente le previsioni o i successi non hanno nulla di straordinario nell’insieme totale dei tentativi di predizione.

Un fenomeno di autoconvincimento che si può, per molti versi, associare all’effetto placebo, ovvero il fenomeno per cui su molti pazienti un finto farmaco (denominato placebo), ottiene risultati paragonabili a quelli di un medicinale con reali effetti terapeutici; su tale effetto fanno forte presa anche le figure dei ‘guaritori’ che, mediante l’utilizzo esclusivo delle mani (e probabilmente di qualche abile trucco), sarebbero in grado di curare i malati gravi.
Certo, ai tempi in cui questo libro venne pubblicato (fine anni ‘70), in associazione con un interessante ciclo di documentari a opera dello stesso Piero Angela su queste tematiche, l’argomento era forse di maggior interesse, sia perché imperversavano sui mezzi di comunicazione medium celebri come lo stesso Geller; ciononostante, visto che anche al giorno d’oggi queste tematiche sono di attualità (basti pensare ai recenti scandali di numerose persone imbrogliate da sedicenti maghi e guaritori di vario genere), una letta forse sarebbe il caso di dargliela.

Non credo difatti che sia un caso che ancora per molta gente la voglia di credere sia più forte della voglia di comprendere, o della semplice razionalità. E’ incredibile in tal senso il caso di un medium che confessò di aver imbrogliato moltissima gente con sedute spiritiche fasulle, sentendosi in colpa per aver ricevuto in cambio dei suoi servizi donazioni di ogni genere (persino una casa!), e che non solo non venne accusato per i suoi inganni da nessuno, ma anzi venne ringraziato; addirittura, in un altro caso equivalente, un medium reo confesso venne perdonato, e addirittura gli venne chiesto di continuare comunque le sue sedute! Pensiamoci su…

Linda Wasmer Smith – La mente e il corpo (1997)

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Un campo di studi in ampio sviluppo nella medicina moderna è la ricerca delle interazioni tra la componente fisica e quella mentale nell’organismo. Dopo secoli in cui corpo e mente sono stati interpretati dalla medicina occidentale come entità ben distinte, separate e non interagenti, negli ultimi decenni una nuova corrente di ricerca ha preso piede, ammettendo dall’osservazione diretta che esiste un rapporto di stretta interazione tra i due ambiti.

L’inedito sviluppo di questi studi ha portato alla nascita di nuove dottrine e componenti della cosiddetta medicina alternativa, di origine inizialmente orientale, per evolversi su vari piani, al fine di studiare in che modo la mente (comportamenti, stati d’animo, interazioni con altre persone, attività di vario genere) possa influire direttamente sull’organismo, e in che modo questa correlazione possa avere effetti terapeutici se correttamente interpretata.

La giornalista scientifica statunitense Linda Wasmer Smith ha realizzato questo saggio con lo specifico intento di fare il punto su tutti i campi in cui si stanno sperimentando e testando le nuove forme di terapia alternativa, quanto realmente conosciamo sull’argomento e quanto deve ancora essere dimostrato sperimentalmente o chiarito dal punto di vista teorico.

La storica concezione della cultura occidentale della biomedicina, secondo cui ogni tipo di disturbo dell’organismo potesse essere ricondotto a una causa fisica, come un batterio o un virus, ha cominciato a mostrare i primi segni di cedimento negli anni ‘30, quando si sono iniziate a studiare patologie o malfunzionamenti come la nevrosi organica, ovvero disturbi cardiaci o della digestione causati da condizioni emotive.

La Seconda Guerra Mondiale, con l’elevatissimo stato di stress che ha comportato, ha fatto emergere definitivamente questo tipo di problematiche, e già dai primi anni ‘50 la lista dei cosiddetti disturbi psicosomatici, causati principalmente dall’influenza dello stress, ha incluso l’asma, l’ipertensione, l’artrite reumatoide, l’ulcera peptica, la colite ulcerosa, l’ipertiroidismo.

La medicina mente-corpo ha mosso i suoi primi passi negli anni ‘60, ma ha definitivamente preso piede e si è sviluppata su ampio raggio solamente a partire dagli anni ‘80. I campi di studio non riguardano solamente ricerce psicologiche, anzi. L’approccio che sta prendendo maggiormente piede in questi ultimi anni è l’olismo, in cui tutti gli elementi che influiscono sull’essere umano (fisici, mentali, emotivi e spirituali) vengono considerati per lo studio delle patologie. Ciò si riscontra nel trattamento più orientato su un atteggiamento positivo di medici e infermieri e sull’ospitalità nei confronti dei pazienti da parte degli ospedali olistici, che effettivamente sembrano comportare tempi di guarigione mediamente più rapidi. In tal senso, una nuova associazione chiamata Planetree alliance ha incentrato il proprio campo di studi sullo sviluppo di un ambiente ospedaliero particolarmente accogliente e positivo. Il limite dell’olismo, come sottolineato dalla Wasmer, è una sostanziale mancanza di ricerche approfondite e rigorose nel campo, e ciò comporta l’assenza di un approccio rigido e unitario nell’applicare questo tipo di cure.

Vari studi psicologici stanno pian piano approfondendo il campo dell’atteggiamento psicologico del paziente nell’affrontare la malattia e nell’accettare le cure. Un atteggiamento positivo sembra, almeno dal punto di vista statistico, offrire percentuali di guarigione più alte, e tempistiche di recupero più brevi. Anche il temporaneo stato mentale del paziente sembra influire: le disgrazie e i lutti sembrano al contrario influire negativamente sui pazienti e anche atteggiamenti disillusi e di rassegnazione sembrano rallentare l’efficacia delle cure.

Nel campo di studi della medicina alternativa una delle branche che fornisce apparentemente maggiori basi scientifiche documentate è la Psiconeuroimmunologia (PNI), termine nato nel 1981 da un’opera di Robert Ader, che studia le interrelazioni tra cervello e sistema immunitario nell’influenzare la salute dell’organismo, in particolare, nello studio sul sistema endocrino, che risulta essere ricco di terminazioni nervose, e dell’attività indiretta di vari messaggeri chimici rilasciati dal sistema nervoso.

Per quanto riguarda patologie direttamente causate da motivi nervosi, come lo stress, esistono studi approfonditi sul’interazione tra il sistema nervoso simpatico (eccitatore) e il parasimpatico (inibitore), e sembra che un’induzione condizionata di quest’ultimo possa avere effetti terapeutici per le condizioni più gravi di tensione e angoscia. Questo campo di studi non va assolutamente sottovalutato: il Karoshi, la morte per eccesso di lavoro, indicata non a caso da un termine giapponese, miete 30.000 vittime ogni anno, e l’ipertensione stessa può provocare l’insorgere di svariate patologie ben più gravi.

Il rilassamento può essere raggiunto tramite varie metodologie, da quelle più diffuse e sperimentate come la meditazione, di origine culturale prettamente orientale, fino a quelle meno note e approfondite come l’ipnosi (le cui vere cause non sono ancora conosciute a fondo). Una metodologia che sta prendendo piede in vari ospedali del mondo è il biofeedback, che consiste nel fornire ai pazienti dati accurati e approfonditi sul proprio stato di salute, praticamente in tempo reale. Osservando tramite monitor i propri dati il paziente può, procedendo per tentativi, provare a controllare alcuni processi come la pressione sanguigna, la temperatura del corpo, le onde cerebrali e la funzione gastrointestinale. Sebbene sia ancora in fase embrionale, questa nuova disciplina sta fornendo risultati significativi.

Passando per l’influenza della cultura, dell’immaginismo e delle credenze, il saggio si chiude nella descrizione di altri elementi psicologici che sembrano influire sullo stato di salute delle persone. Un atteggiamento positivo e utile alla guarigione può essere portato dalla musica, dall’attività artistica, dagli animali domestici, dagli amici. I piani su cui si può sviluppare questo tipo di terapie sono numerosissimi, a seconda delle situazioni e degli individui.

Il saggio in oggetto dà solamente un’idea generale, seppur molto ben approfondita, su quanto questo tipo di ricerche si siano sviluppate e siano diventate articolate e complesse. Tantissimi ospedali effettuano ricerca costante sul rapporto mente-corpo al fine di scoprire e migliorare terapie sempre più efficaci e produttive. Oltre a numerosi suggerimenti per il lettore su come approfondire la conoscenza di sé, il libro offre una nuova visione di queste tecniche, che, se associate alle metodologie della medicina tradizionale, potranno rendersi sempre più diffuse e complete in futuro.

Konrad Lorenz – Evoluzione e modificazione del comportamento (1965)

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Lo studio del comportamento animale o etologia ha avuto una storia estremamente complessa e travagliata, con innumerevoli correnti e sottocorrenti di pensiero che hanno sfaccettato l’interpretazione delle conoscenze preesistenti e delle osservazioni sperimentali fornite dalla zoologia nel campo dello studio del comportamento animale.

In poco più di un secolo, da quando cioè l’etologia ha potuto definire i propri campi di indagine approfonditamente, distaccandosi dalle altre discipline naturalistiche per diventare scienza a sé stante, il dibattito sul comportamento animale ha cercato di stabilire quali siano le componenti fondamentali che danno origine al comportamento stesso.

Gli elementi basilari sono due: da un lato c’è un patrimonio genetico, ereditato da millenni di evoluzione e perciò selezionato e adattato all’ambiente, che dovrebbe fornire la matrice ‘innata’ del comportamento, dall’altra vi è l’influenza, tutt’altro che trascurabile, dell’ambiente stesso sulla crescita e la formazione dell’animale stesso e del suo comportamento (‘appreso’).

Konrad Lorenz, considerato il padre della moderna etologia (‘moderna’ in quanto una scuola di pensiero già piuttosto evoluta aveva posto le radici alla cosiddetta ‘psicologia comparata’ a cavallo tra XIX e XX secolo, e tra gli scienziati che la componevano vi era lo stesso maestro di Lorenz, Oskar Heinroth), al tempo della pubblicazione di questo libro cercò di fare il punto sulla situazione della disciplina, chiarendo gli aspetti fondamentali del suo pensiero e criticando la visione di alcune nuove scuole di pensiero.

Va detto difatti che ai tempi era ancora imperante tra gli etologi di scuola americana la corrente del ‘Behaviorismo’, che eliminava completamente dal piano comportamentale degli animali la sua componente innata, sottolineando il peso delle influenze ambientali nell’ontogenesi (sviluppo dell’individuo) dell’animale adulto, ponendo oltretutto l’accento sul fatto che una componente genetica, qualora presente, non fosse identificabile sperimentalmente e quindi dimostrabile, e su come in certi casi lo stesso sviluppo prenatale potesse influire sul comportamento dell’individuo.

Per molti altri etologi di lingua inglese invece il concetto di ‘innato’ non solo era inutile, ma anche sbagliato, poichè essi ritenevano che il comportamento fosse determinato in qualunque sua forma da due componenti, quella appresa e quella ereditata filogeneticamente e geneticamente, in livelli differenti a seconda dei casi, ma che comunque né l’una né l’altra parte fossero distinguibili e identificabili sperimentalmente in ogni singolo comportamento.

La primissima scuola di etologi europei, a cui faceva capo Heinroth e a cui si ascrive lo stesso Lorenz, aveva invece il difetto di ritenere che i due concetti di innato e appreso si escludessero a vicenda, e che ciascun comportamento potesse essere identificabile sperimentalmente come appartenente all’una o all’altra categoria. In questo senso lo stesso Lorenz confessa il proprio errore.

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Konrad Lorenz (1903-1989)

Lo scopo principale del presente volume è quello di evitare che sia screditato un concetto che, anche se a volte è stato utilizzato in modo impreciso, è tuttavia indispensabile per affrontare in modo etologico lo studio degli animali. Il concetto è quello di “innato”, scrive Lorenz. Per perseguire questo scopo lo scienziato austriaco controbatte punto per punto le posizioni delle scuole sopraccitate, sottolineando come uno studio etologico debba essere compiuto, senza dimenticare una componente come quella dell’osservazione diretta in natura delle specie e l’approfondita conoscenza di tutti gli schemi di comportamento prefissati e preesistenti in esse (etogramma), e come, specie nella scuola Behavioristica, fosse stato dato un peso addirittura eccessivo allo studio sperimentale in laboratorio, che comunque forniva una fotografia deformata del comportamento reale dell’animale in natura, e spesso eccessivamente condizionato (ai limiti del patologico) per far sì che una componente innata fosse identificabile in esso. Lorenz inoltre sottolinea come sia fondamentale la funzione dei processi selettivi ereditati geneticamente, e già preformati per rispondere alle esigenze ambientali a cui la specie è adattata; l’influenza ambientale è sì importante, ma in molti casi fa da ‘fattore scatenante’ a determinati comportamenti ereditati geneticamente e quindi istintivi.

Infine, Lorenz sottolinea quelli che devono essere gli aspetti fondamentali del cosiddetto ‘esperimento di privazione’, ovvero verificare se l’animale, in assenza del fenomeno scatenante presente in natura, presenti ugualmente un determinato comportamento che in tal caso sarebbe innato, nel caso contrario appreso; l’esempio più classico è dato dal maschio di Spinarello Gasterosteus aculeatus, che in fase riproduttiva assume una colorazione rossastra sul ventre. Uno spinarello nel periodo degli amori attaccherà qualunque altro maschio rosso se invaderà il suo territorio, pur non avendone mai visto un altro nel corso della propria esistenza.

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Maschio di spinarello (Gasterosteus aculeatus) nel periodo degli amori

Lorenz identifica gli aspetti fondamentali dell’esperimento di privazione in 5 punti fondamentali:

1)Un esperimento di privazione può dare informazioni certe solo sulla componente innata di un comportamento, non su quella appresa;

2)Chi compie questo tipo di studi deve conoscere nei minimi dettagli ogni singolo aspetto di tutta la catena di comportamenti che caratterizza la specie (ad es. tutta la fase di corteggiamento-riproduzione dello Spinarello) in modo da avere un buon ‘occhio clinico’ e verificare ogni minimo cambiamento in essa;

3)Ogni animale deve essere utilizzato per un solo esperimento, oppure per ogni soggetto deve essere stabilita una determinata sequenza di studi, in modo che in ciascuno di essi l’acquisizione di dati sia sotto controllo e permetta la verifica in esperimenti successivi; inoltre bisogna compiere un’approfondita distinzione tra i meccanismi motori e attivatori, e tra le sperimentazioni volte a identificarli;

4)L’ambiente artificiale in cui viene effettuato l’esperimento deve contenere anche l’azione-stimolo necessaria a scatenare lo schema di comportamento studiato;

5)I risultati di tali esperimenti potranno dare uno schema comportamentale affidabile solo se effettuati su animali con patrimonio genetico estremamente simile.

Per quanto ovvi, tali presupposti sperimentali non erano stati quasi mai rispettati in passato, e Lorenz fornisce a tal proposito numerosi esempi, sottolineando l’approssimazione e l’incertezza data da studi etologici ancora acerbi e incompleti. Un esempio su tutti viene esposto da Lorenz in conclusione del suo saggio, ovvero delle ‘confutazioni’ sperimentali effettuate su studi compiuti del suo allievo Tinbergen su tacchini, fagiani e oche selvatiche, effettuati in laboratorio su galline bianche livornesi(!).

In conclusione mi sento di sottolineare l’importanza di questo trattato, sia perché riassume il ‘Lorenz-pensiero’ su tutte le principali tematiche storiche dell’etologia, sia per l’appassionata ed estremamente interessante difesa alla componente istintiva del comportamento, spesso trascurata o di scarso interesse per gli studiosi del comportamento ‘in erba’, nonostante la sua fondamentale importanza. Ovviamente non bisogna aspettarsi una narrazione leggera e scorrevole come quella di un’opera divulgativa come può essere ad esempio L’anello di Re Salomone, anche se Lorenz si dimostra un eccellente narratore anche impegnandosi nel rigido e formale trattato scientifico, che risulta comunque ‘digeribile’ anche da chi non è solitamente abituato a questo tipo di lettura; ciononostante mi sento comunque di consigliarne la lettura a tutti gli appassionati di psicologia ed etologia, data la sua importanza storica e i temi trattati, tuttora fonte di dibattito presso la comunità scientifica.

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Jane Goodall – Le ragioni della speranza (1999)

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Questo libro non è una semplice autobiografia della protagonista di alcune delle più grandi scoperte riguardanti le scimmie antropomorfe più vicine a noi, ovvero gli scimpanzé, né un arido trattato scientifico in cui vengono elencati gli sviluppi dei suoi studi, ma si tratta in realtà della risposta a una domanda frequentemente posta alla sua autrice: c’è ancora speranza per il mondo in cui viviamo? La domanda che mi viene rivolta più spesso nei miei viaggi intorno al mondo scaturisce dal timore più profondo della gente: Jane, lei pensa che ci sia speranza? C’è speranza per le foreste pluviali in Africa? Per gli scimpanzé? Per gli africani? C’è speranza per il pianeta, il nostro bel pianeta che stiamo saccheggiando? C’è speranza per noi e per i nostri figli e nipoti?, scrive la Goodall.

La risposta fornita in questo libro a tutti questi interrogativi è il racconto della vita di una donna condotta prima in Inghilterra, poi tra le montagne dell’attuale Tanzania, a Gombe, nello studio ravvicinato degli scimpanzé in libertà, e infine, ed è tuttora così, in giro per il mondo a promuovere, con passione e coinvolgimento, il lavoro del Jane Goodall Institute, per la salvaguardia non solo del futuro delle scimmie a noi più simili e del loro habitat naturale, ma anche e soprattutto del mondo in cui viviamo. Speranza mantenuta e accresciutasi negli anni nonostante le infinite avversità che la Goodall ha dovuto affrontare, a cominiciare dall’infanzia vissuta in Inghilterra nel periodo bellico, la visita ad Auschwitz, la morte di una sua collega in Africa durante i suoi studi e al rapimento di altri quattro per chiederne un riscatto, la morte del secondo marito per cancro e altre mille difficoltà incontrate da una donna che ha sempre fatto della perseveranza, basata su una forte fede religiosa, il suo credo.

La narrazione della Goodall, fresca e coinvolgente, ci porta a far nostra la sua passione per la natura, gli animali e i viaggi in terre lontane e inesplorate, avuta sin dall’infanzia e che la condusse a fare il suo primo viaggio in Africa a 23 anni, per far visita a un’amica, e che cambiò radicalmente la sua vita. Ci racconta della scelta da parte del grande antropologo Louis Leakey di fare di lei la prima vera studiosa degli scimpanzé nel loro habitat naturale, dell’aver successivamente osservato l’utilizzo da parte di questi di ramoscelli, ben ripuliti e lisciati, per la raccolta delle termiti (scoperta rivoluzionaria nel campo delle scienze antropologiche, dato che fino ad allora solo l’uomo era ritenuto capace di creare e utilizzare degli utensili), dell’incontro con David Greybeard, primo degli scimpanzé ad aver stretto un contatto con lei e ad averla introdotta nel branco creando fiducia e rispetto tra i suoi compagni nei confronti della nuova arrivata, dell’osservazione diretta e commovente dei mille sentimenti ed emozioni che vivono i nostri cugini nel condurre la loro esistenza, del successo dei suoi studi e della nascita del Jane Goodall Institute for Wildlife Research, Education and Conservation e infine delle mille battaglie vinte per sensibilizzare l’opinione pubblica sui gravi danni che l’umanità sta arrecando al pianeta.

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E la risposta è chiaramente sì, c’è ancora speranza, perchè se è vero che da un lato le sofferenze, le atrocità e le ingiustizie che l’uomo arreca ai suoi simili e al mondo in cui vive sono sotto gli occhi di tutti, da un altro è innnegabile, e la vita della Goodall ne è una prova, che avendo fiducia nelle proprie possibilità e trovando tante persone nobili e generose che aiutano le giuste cause (è commovente l’incontro con Henri Landwirth, magnate sopravvisssuto in gioventù alla prigionia ad Auschwitz, emigrato in America, creatore dell’associazione Give Kids the World per i bambini malati terminali), alla fine si può essere ripagati appieno della propria opera e dei risultati ottenuti con essa, anche se, ed è Jane Goodall stessa a ricordarcelo, il viaggio non finisce mai.

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Jane Goodall in una foto recente

Francine Patterson, Eugene Linden – L’educazione di Koko (1981)

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Sempre meno sono le certezze rimaste all’essere umano dopo tante scoperte scientifiche che gli hanno tolto molte di quelle che fino a poco tempo fa erano considerate sue prerogative esclusive, come la creazione e l’utilizzo di utensili, oppure la divulgazione di scoperte e tradizioni di padre in figlio, ormai comprovate capacità di numerose specie animali.

Tra queste poche certezze vi era sicuramente la conoscenza del linguaggio; ci stiamo riferendo ovviamente non a un metodo di comunicazione semplice e immediato, come quello di abbaiare, pigolare, emettere gesti o marcare il territorio, tipico degli animali, ma a un linguaggio articolato, complesso e in grado di definire concetti e situazioni complesse e addirittura astratte. Anche questa certezza negli ultimi decenni è venuta meno, a causa dei colpi inflittigli dalle ricerche nel campo del linguaggio effettuate da psicologi e antropologi sugli animali più vicini a noi, ovvero le scimmie antropomorfe.

Celebre è il caso di Washoe, scimpanzè femmina allevato dai coniugi Gardner, studiosi di psicologia comparata, a cui fu insegnato nel corso di pochi anni a esprimersi con un linguaggio a gesti utilizzato dai sordomuti, l’Ameslan (Linguaggio Americano a Segni). La scelta di utilizzare una forma di espressione differente da quella vocale ha rappresentato un’autentica svolta nello sviluppo di tali ricerche, sia perchè le differenze fisiche tra uomini e scimmie rendevano assolutamente improbabile la possibilità di dialogo tramite questo tipo di comunicazione, sia perchè tutti i tentativi effettuati in passato di insegnare il linguaggio parlato agli animali avevano dato risultati sconfortanti, qualora non si fosse trattato di comportamenti indotti dagli allevatori o pedissequa imitazione. Celebre è infatti il caso degli ‘animali sapienti’, come cani e cavalli che soprattutto verso la fine del XIX secolo venivano indicati come capaci di effettuare operazioni matematiche o ragionamenti estremamente complessi e di comunicarli abbaiando o battendo gli zoccoli a terra, quando in realtà essi si comportavano basandosi su piccole reazioni innate dei loro allevatori.

Ed è proprio dall’esempio dei Gardner e da una loro conferenza a cui l’autrice assistette nei primi anni ‘70, che prende spunto l’esperimento della dottoressa Patterson, giovane psicologa di Stanford, sul gorilla femmina Koko, allevato ed educato sin da un anno di vita a utilizzare un linguaggio con cui comunicare con i suoi tutori.

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Koko e Francine Patterson in un’immagine recente

Il libro è una narrazione passo passo dei progressi compiuti da Koko nel corso degli anni, della sua incredibile versatilità e intelligenza e dei suoi straordinari miglioramenti compiuti negli anni nell’utilizzare il linguaggio dei sordomuti. Sbalorditive sono la sua fantasia e la sua ironia, così come la sua capacità di esprimere con pochi gesti concetti complessi e profondi, i propri sentimenti e le proprie paure.

Sono oltretutto estremamente spassosi alcuni dialoghi, sia per la fantasia del gorilla nell’esprimere concetti coloriti, sia per l’effettiva allegria caratteriale e la sua ironia. Eccone un esempio, tra Koko e l’assistente Cindy:

KOKO: Tempo unghie noce. (A quanto pare, Koko dà a Cyndy della noce [nuts in inglese, ossia pazza], uno dei suoi insulti preferiti, e la minaccia di graffiarla con le unghie, una delle sue minacce preferite, se non accondiscende).

KOKO: Frutto…chiave chiave tempo. (Koko vuol dire che è arrivato il momento, per Cindy, di servirsi della chiave per aprire il frigorifero).

CINDY: No, non adesso tempo chiave.

KOKO: sì tempo andiamo tempo, noce.

CINDY: No, non tempo!

KOKO: Sì tempo.

CINDY: No tempo.

KOKO: Unghie.

CINDY: Perchè?

KOKO: Tempo.

CINDY: Oh, insomma.

Allo stesso modo, sono assolutamente spassosi gli insulti utilizzati da Koko, principalmente nei confronti di un altro gorilla allevato insieme a lei, ossia Michael:

PENNY: Ti piace Mike?

KOKO: Diavolo marcio.

PENNY: Vuoi che Mike entri? Che pensi?

KOKO: Penso stupido diavolo.

PENNY: Dì cattivo

KOKO: Gabinetto marcio.

PENNY: Sei gelosa di Mike?

KOKO: Mike noce.

Lo stesso Mike, a cui è stato ugualmente insegnato l’Ameslan, ha avuto un ruolo importante nel fornire ulteriori elementi chiarificatori sugli studi effettuati su Koko: l’età difatti ha un ruolo importantissimo sull’apprendimento, e non è difatti un caso che Koko, a cui si è incominciato a insegnare il linguaggio per sordomuti in età molto più giovane, abbia un vocabolario di espressioni e delle capacità comunicative decisamente superiori rispetto al suo amico.

Resta di fatto che anche Mike ha evidenziato un intelligenza e un’ironia notevoli, soprattutto nel caso di domande che lui ritiene stupide:

ESTHER: Puoi dirmi una lunga frase per carne?

MICHAEL: Carne carne carne carne carne carne carne carne carne carne.

ESTHER: Sì, è lunga ma è sciocca. Puoi fare meglio?

MICHAEL: Dai forza gorilla piace piace.

ESTHER: Che cosa a te piace?

MICHAEL: Dai carne.

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Mamma gatto, protagonista della fiaba, sgrida i gattini. ‘Cattiva’ è la personale opinione di Koko.

Di certo la notorietà che Koko ha avuto negli anni, soprattutto grazie a una copertina e un articolo di National Geographic, e, in seguito, anche di Time, hanno avuto un peso notevole negli studi della Patterson, che proseguono tuttora; Koko ormai utilizza un vocabolario di oltre 1000 gesti Ameslan, un’associazione per la tutela delle grandi scimmie antropomorfe (in particolare i gorilla di montagna come lei) prende il suo nome e ottiene fondi e sponsorizzazioni soprattutto grazie alla sua grande celebrità, e il suo sito (http://www.koko.org, da cui oltretutto il libro è scaricabile per intero) conta migliaia di visitatori e di nuovi iscritti ogni anno.

Il futuro, insomma, sembra roseo per l’ormai ultratrentenne Koko, che sembra non solo avere coscienza della morte, ma dà anche l’impressione di averne una visione molto pacifica e filosofica: ‘…Maureen le ha chiesto di indicare uno scheletro di gorilla tra le immagini di quattro tipi di scheletri animali, e, quand’ebbe scelto quello giusto, Maureen le chiese se il gorilla era vivo o morto.

KOKO: Morti panni. [‘panni’ è un’espressione usata fequentemente da Koko]

MAUREEN: Vediamo se questo gorilla è vivo o morto.

KOKO: Morto addio.

MAUREEN Cosa provano i gorilla quando muoiono? Felici, tristi, spaventati?

KOKO: Sonno.

MAUREEN: Dove vanno gorilla quando morire?

KOKO: Comodo buco addio.

MAUREEN: Quando gorilla muoiono?

KOKO: Guaio vecchi.’

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La celebre copertina del National Geographic avente Koko per protagonista. Il titolo principale riporta ‘conversazioni con un gorilla’.

Insomma, questo libro offre molte occasioni per riflettere, proprio perchè permette al lettore di rendersi conto che i nostri parenti più prossimi non solo hanno capacità comunicative, di pensiero e di astrazione assolutamente impensabili fino a qualche decennio fa, ma che sono dotati di sentimenti, di sensibilità, di capacità che più di ogni altre venivano considerate in passato prettamente ‘umane’; è anche uno spunto per riflettere su quanto l’uomo sta compiendo sui simili di Koko, e sulla necessità di tutelare l’ambiente e la natura che ospitano i nostri ‘cugini’, anche perchè, grazie a lei, ci siamo ulteriormente resi conto di quanto essi ci assomiglino.

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Koko fa il gesto ‘amore’ alla vista di un gattino. Il gorilla ha avuto numerosi animali domestici, che ha sempre curato con grande affetto; il suo preferito era All Ball, un gattino. Quando questo morì, investito da una macchina, Koko rimase estremamente addolorata.

Daniel Quinn – Ishmael

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Nel corso dei primi anni ‘90, in corrispondenza di un discreto ritorno alla spiritualità e a temi tipicamente New Age come la presa di coscienza di sé e del proprio ruolo nella società e nel mondo da parte dei singoli individui, un certo numero di romanzi e saggi trattanti queste tematiche ha riscosso un discreto seguito, trascinati dall’enorme successo ottenuto principalmente da La profezia di Celestino di James Redfield del 1993; tra questi una storia a sé stante ha Ishmael di Daniel Quinn, pubblicato nel 1992, che, con un gran successo di pubblico (oltre mezzo milione di copie vendute), una lunga serie di premi e riconoscimenti letterari per il suo autore, tra cui spicca il Turner Tomorrow Fellowship, assegnato per le “concrete e innovative soluzioni ai problemi mondiali”, e un film ispirato a esso (Instinct di Jon Turteltaub, con Anthony Hopkins e Cuba Gooding, jr), rappresenta sicuramente il capofila di questa corrente nella sua versione più ecologica e ambientalista.

Daniel Quinn, nato nel 1935 a Omaha, Nebraska, laureato alla Loyola University di Chicago e con una lunga carriera nel campo dell’editoria, ha abbandonato il suoi impegni istituzionali per dedicarsi alla creazione dei suoi romanzi nel 1975, ma la grande fama mondiale l’ha raggiunta solamente con questo suo Ishmael, raccogliendo unanimi consensi e numerosissimi proseliti in giro per il mondo. Le tematiche trattate dal romanzo sono difatti molto convincenti e argomentate alla perfezione, e descrivono accuratamente la visione del mondo e del ruolo che la specie umana ha ricoperto nelle ultime migliaia di anni sul pianeta Terra, ovvero la mentalità di possedere e dominare le altre specie, al fine di ottenere il controllo sulla natura e sulle risorse del globo, causando danni forse irreparabili, a partire dalla scomparsa di tantissime specie e habitat per fare spazio all’urbanizzazione e al ‘progresso’.

Non è però il narratore o l’autore stesso a descriverci questa visione del mondo: un uomo della società moderna non potrebbe convincersi appieno di tutti i difetti e le contraddizioni di un sistema di cui è parte integrante. Occorre pertanto la visione esterna di un testimone adattato a convivere con la natura, e a far parte di essa, senza cercare di dominarla o di prevalere sulle altre creature che ne fanno parte. “Maestro cerca allievo. Si richiede un sincero desiderio di salvare il mondo”; il narratore, leggendo queste righe sul giornale in un breve annuncio, pensa da subito al solito imbroglione desideroso di spillare soldi a degli ingenui malcapitati.

Tante sono state le delusioni del protagonista, ormai disilluso sui grandi temi del rinnovamento e della libertà, ma comunque desideroso di approfondire la sua conoscenza e comunque convinto della bontà degli ideali che essi propugnavano: durante la ribellione giovanile degli anni Sessanta e Settanta io ero abbastanza vecchio da capire cos’avevano in mente – rivoltare il mondo da capo a piedi – e abbastanza giovane da credere che ci sarebbero riusciti. Spinto pertanto dalla curiosità e dal desiderio di accertare di persona se il presunto ‘maestro’ sia realmente un ciarlatano, il narratore si presenta all’indirizzo indicato dall’annuncio, e la sorpresa è enorme quando si viene a trovare dinanzi a un gorilla di pianura di enorme mole all’interno di un ufficio apparentemente abbandonato.

Ancora più grande è lo sconcerto quando è l’animale stesso a comunicare col protagonista per via telepatica, presentandosi col nome di Ishmael, e affermando di essere egli stesso il maestro indicato sull’annuncio. Ripresosi dallo sconvolgimento iniziale, il protagonista si rende conto sin dai primi ‘colloqui’ telepatici con il suo nuovo insegnante di trovarsi di fronte a una creatura di enorme conoscenza e saggezza, di oltre sessant’anni di età, che, dopo avergli narrato la storia della sua lunga esistenza, passata tra serragli e zoo fino all’arrivo del suo illuminato padrone di nome Walter Sokolow, a cui deve gran parte delle sue conoscenze e il suo stesso nome, comincia a riversare parte di questa saggezza al suo allievo, affinché narri la storia dell’Umanità sotto una nuova ottica, per rendere chiunque sia disposto ad ascoltarla in grado di salvare il pianeta dalla follia distruttiva dell’uomo. Comincia la narrazione. Il ‘maestro’ richiede da subito al suo nuovo allievo di utilizzare le proprie capacità discernitive e il ragionamento, poiché non desidera dispensare realtà assolute ma vuole convincerlo del proprio credo facendolo arrivare ad esso per brevi tappe, smontando poco per volta le convinzioni che la società moderna, che lui chiama ‘Madre Cultura’, ha inculcato in tutti gli uomini che appartengono ad essa. L’Umanità intera viene divisa in due categorie, i Prendi e i Lascia; i primi appartengono a tutte le culture di stampo moderno, basate sullo sviluppo, il progresso, l’accrescimento e lo sfruttamento della natura e del territorio, mentre i secondi sono costituiti dalle poche società tribali di cacciatori/raccoglitori ancora rimaste sul pianeta. La comparsa nella storia dei ‘Prendi’ viene fissata intorno a 10.000 anni fa, con la comparsa dei primi coltivatori nella ‘Mezzaluna fertile’ della Mesopotamia, compresa tra i due fiumi Tigri ed Eufrate, da cui si svilupparono le prime cività moderne.

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L’edizione in lingua originale di Ishmael

Uno degli aspetti più interessanti della narrazione di Ishmael è la rilettura delle Sacre Scritture, e in particolare delle figure di Caino e Abele: questi altri non sarebbero che le metafore con cui vengono raffigurati due popoli, i coltivatori mesopotamici del Nord a cui si rifà la figura di Caino, e i pacifici pastori Semiti del Sud, progenitori del popolo Ebraico, nel ruolo di Abele.

E’ interessare notare come i primi sin dalla loro comparsa avessero presentato le caratteristiche tipiche del mondo moderno, con lo sfruttamento e la conquista incontrollata di territori sempre più ampi per far fronte a una popolazione in costante accrescimento, aggressivi e noncuranti di tutto ciò che non fosse di utilità alla loro sopravvivenza, rei di aver sterminato i propri ‘fratelli minori’ Semiti pur di accrescere il proprio dominio. Il discorso di fondo di Ishmael in realtà può essere descritto in poche righe: con la comparsa dei ‘Prendi’ la visione del mondo da parte degli uomini è cambiata: la natura non è più come un qualcosa di cui far parte e convivere in armonia, ma soltanto un insieme di elementi da controllare e sfruttare.

La nuova condizione dell’Umanità è divenuta pertanto quella di dominatori assoluti del pianeta e delle altre creature, in quanto specie prescelta dagli Dei per operare il controllo sulla natura al fine di ottenere i propri scopi e accrescere costantemente la propria potenza e ricchezza, e non più farne solamente parte, come nel caso dei pochi gruppi di ‘Lascia’ ancora sopravvissuti sulla Terra. In tal senso è significativa la visione della Genesi fornita da ‘Madre Cultura’ per tutti i popoli di ‘Prendi’, anche con origini e tradizioni differenti: prima sono apparsi gli organismi unicellulari, poi si sono evoluti in pluricellulari, poi sono apparse le meduse, i Molluschi, gli Insetti, i Vertebrati, le Scimmie, le Scimmie Antropomorfe, poi gli Australopitechi, che si sono evoluti in seguito in Homo habilis, poi erectus, poi sapiens, per divenire infine sapiens sapiens, ovvero l’uomo moderno, che sostanzialmente appare in cima all’evoluzione di tutte le creature, come una sorta di essere perfetto e superiore, destinato per sua stessa natura a controllare tutti gli altri viventi con le sue straordinarie capacità. Inutile sottolineare che in realtà questa convinzione, secondo Ishmael, è sbagliata di partenza, perché presuppone un accrescimento e uno sviluppo incontrollato delle aree controllate dall’uomo e un continuo aumento della sua popolazione, ben oltre i limiti sopportabili dalla ‘capacità di carico’ del pianeta. La convinzione di poter ovviare a questo problema con i propri mezzi tecnologici è sbagliata in partenza poiché le risorse disponibili per gestire questi non sono sufficienti per tutti, e in questo caso l’ottimismo è equivalente all’impressione che ha una persona che si lancia da un palazzo di dieci piani, e, dopo un volo di nove, afferma “bé, fin qui tutto bene”.

La filosofia di Ishmael è piuttosto semplice, ovvero un ritorno alla mentalità di equilibrio con la natura tipica delle società tribali, consistente nel convivere con essa, rinunciando al dominio e allo sviluppo incontrollato, in modo da ottenere una stabilità che sin dall’arrivo dei ‘Prendi’ è andata perduta. Il romanzo dal punto di vista strettamente letterario è scritto in un linguaggio semplice e diretto, e le convinzioni del suo autore, espresse tramite la voce di Ishmael, sono descritte e motivate con chiarezza e in maniera estremamente appassionante, permettendo al libro di essere di piacevole e di rapida lettura. Non tutti i punti della visione dell’autore, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione pratica di questa ipotetica presa di coscienza generale da parte dell’Umanità sono sviluppate a fondo, e alcuni passaggi un po’ troppo idealisti e buonisti rendono parti del romanzo un po’ stucchevoli, sebbene le opere successive di Quinn sempre sull’argomento abbiano fornito ulteriori spunti di approfondimento. In ogni caso un romanzo azzeccato e coinvolgente, che vale la pena di essere letto per liberare la mente da alcune convinzioni di troppo che ‘Madre Cultura’ ci ha silenziosamente imposto per millenni.

Sito ufficiale di Ishmael

www.ishmael.com

Danilo Mainardi – L’animale culturale (1975)

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Numerosissimi scienziati, psicologi ed etologi in particolare, hanno cercato, soprattutto nel corso del secolo passato, di stabilire dei limiti ‘culturali’ entro cui separare gli animali dall’uomo. Le scienze naturali ci hanno insegnato, soprattutto in tempi recenti, che tale limite non è stabilito né dalle capacità di apprendimento o di astrazione del linguaggio, né dall’utilizzo di arnesi, o dal riuscire a comunicare con forme di comunicazione complesse (ne sono un classico esempio le scimmie antropomorfe a cui sono stati insegnate forme di linguaggio umano, come Koko o Washoe); dove risiederebbe tale distinzione allora? Cos’è che rende l’uomo distinguibile dal resto del regno animale, qual è la chiave di volta che lo ha portato all’incredibile successo evolutivo delle ultime migliaia di anni?

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Il celebre scimpanzé femmina Washoe, a cui è stato insegnato il linguaggio dei segni.

La risposta sembra risiedere in un solo termine, ovvero cultura. Il grande etologo italiano Danilo Mainardi cerca con questo suo celebre saggio di stabilire e definire appieno gli aspetti che differenziano la capacità di produrre e trasmettere cultura degli animali in contrapposizione con quella che contraddistingue l’umanità.

Va innanzitutto sottolineato che il concetto di ‘cultura’, inteso come insieme di concetti appresi e trasmessi ai propri simili, non va assolutamente in contrapposizione o antitesi col mondo animale, anzi. Mainardi, come è tipico delle sue opere (un altro classico esempio è L’etologia caso per caso), esamina i vari aspetti del concetto di apprendimento e trasmissione della conoscenza punto per punto, fornendo numerosi esempi tratti dall’osservazione diretta del mondo animale a tutti i livelli.

Gli animali non solo possono approfondire e affinare le proprie conoscenze oltre i basilari comportamenti dettati dall’istinto, ma sono anche in grado di diffondere tale conoscenza all’interno delle comunità di cui fanno parte. Un classico esempio riguarda i Macachi del Giappone (Macaca fuscata): un gruppo di questa specie abitante l’isola di Koshima in Giappone, in condizioni di stretto contatto con l’uomo, ha preso l’abitudine nei primi anni ‘50 di accettare cibo offerto dagli uomini, in particolare patate dolci.

La scoperta che ha cambiato il comportamento di gran parte della comunità è stata compiuta da una giovane femmina di circa un anno di età, chiamata Imo, che per prima ha preso l’abitudine di portare la patata nell’acqua di un ruscello per ripulirla della sabbia. Tale comportamento si è diffuso largamente nella colonia, e in giro di pochi anni è diventata un’abitudine di gran parte del gruppo. Questa attività si è inoltre affinata con gli anni: la stessa Imo, difatti, ha scoperto che lavando la patata nell’acqua marina piuttosto che nell’acqua dolce, essa assumeva un sapore evidentemente più gradevole per i primati. Tale modifica nel comportamento si è sviluppata anch’essa nella colonia, ed è curioso notare anche come siano stati quasi sempre le fasce d’età più giovani del gruppo di scimmie a imparare e utilizzare per prime tali novità.
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Un macaco dell’isola di Koshima, in Giappone, intento a lavare una patata dolce; questo è un tipico esempio di comportamento appreso e culturalmente trasmesso all’interno di un gruppo animale.

Dunque il punto a favore dell’umanità nel confronto culturale con gli animali non è l’apprendere o il diffondere una nuova conoscenza. Mainardi esamina a questo punto un altro tipico concetto che secondo un classico modo di fare scienza distinguerebbe l’uomo dall’animale, ovvero l’utilizzo di attrezzi. Inutile sottolineare come gli esempi di utilizzo di strumenti nel regno animale per vari scopi (nutrimento, difesa, avvertimento, aggressività) siano molteplici. L’interesse è però quello di stabilire qual è il nesso tra l’utilizzo di arnesi e la cultura nel regno animale.

L’utilizzo di oggetti semplici, generalmente non modificati, per raggiungere un determinato scopo da parte dell’animale è piuttosto diffuso, si va dalle scimmie che si servono di bastoni e armi rudimentali per attaccare un potenziale nemico (un leopardo impagliato in un celebre esperimento dell’etologo danese Kortlandt), all’avvoltoio Capovaccaio che utilizza delle pietre per rompere i robusti gusci delle uova di cui si nutre, alle lontre marine che aprono bivalvi e crostacei utilizzando pietre come scalpelli, fino alle scimmie che si servono di fili d’erba per raccogliere le termiti dal termitaio. Ciò che però permea di ‘cultura’ tali comportamenti è la capacità di modificare e affinare questi tramite l’esperienza diretta, ad esempio modificando l’arnese a seconda delle necessità, oppure sostituendolo con un altro più efficace, al variare del contesto.

Un esempio classico è dato dagli studi effettuati sullo scimpanzé Sultan da parte dello studioso tedesco Wolfgang Köhler nel dopoguerra. Questa scimmia, difatti, aveva sviluppato in laboratorio una straordinaria capacità discernitiva che le permetteva di risolvere problemi di difficoltà sempre crescente. A Sultan veniva infatti offerto un premio gustoso all’interno di un tubo, non raggiungibile direttamente con le mani. Il primo passo compiuto dallo scimpanzé fu utilizzare il bastone che gli venne fornito per raccogliere il cibo dal tubo. Il successivo evolversi del problema fu privare l’animale del bastone, in modo da renderlo capace di ricavare uno strumento adatto da altri oggetti, al fine di ottenere ugualmente il premio. Sultan fu in grado di ricavare un palo di forma adatta da blocchi di legno di svariata forma anche se, almeno apparentemente, non permettevano in alcun modo di immaginare un futuro utilizzo per lo scopo, come ad esempio da un pezzo di legno di forma circolare. Il limite delle capacità di Sultan venne raggiunto quando gli fu offerto un disco di quercia, inattaccabile da unghie e denti, insieme a una rudimentale ascia di pietra. La scimmia non riuscì mai a capire il nesso tra il secondo oggetto e il suo arnese potenziale, si intestardì, si arrabbiò, provò in tutti i modi, ma non ne venne a capo, neanche quando le venne mostrata direttamente la ‘soluzione’ del problema. Sultan, insomma, sembrava non arrivare al concetto dell’utilizzo di un arnese per creare il proprio arnese. Forse è proprio questo la differenza fondamentale nella cultura delle scimmie antropomorfe rispetto all’uomo? Difficile stabilirlo, in fondo si trattava comunque di un unico esemplare di un’unica specie, forse il limite di Sultan non è il limite di un altro scimpanzé  o di un’altra scimmia, o di un altro animale. Rimane il fatto di un dato oggettivo comunque estremamente interessante, condiviso anche dal grande paleoantropologo Tobias, che ha supposto che un nostro stesso progenitore, l’Australopiteco, si sia fermato al livello di fare l’arnese per fare l’arnese, e non sia riuscito a spingersi oltre.

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Lo scimpanzé Sultan intento a risolvere un problema che richiede l’utilizzo di uno strumento, in questo caso un bastone.

Mainardi sviluppa il suo discorso sull’importanza dell’apprendimento di un comportamento creato da altri individui. Gli esempi sono molteplici, come i topi da laboratorio, che dimostrano un’enorme flessibilità nell’adottare i comportamenti di altri individui quando questi sanno risolvere un problema: i topi tenuti in compagnia di individui ‘maestri’, già in grado di risolvere semplici problemi come aprire delle porticine per sfuggire dalla gabbia, dimostrano risultati enormemente maggiori rispetto ad altri individui che non hanno una traccia guida a cui rifarsi. La massima prerogativa di questi roditori è difatti la capacità di colonizzare nuovi ambienti specializzandosi sul momento alle nuove condizioni, pur dovendo sacrificare tantissimi individui della propria specie, elemento questo che spiega la loro altissima prolificità. Allo stesso modo i gatti, che, se non vengono correttamente educati, non attaccheranno mai topi o ratti, ma anzi prenderanno l’abitudine a convivere con loro, e in certi casi ad affezionarsi ad essi e mostrare sentimenti protettivi se cresciuti assieme a loro.

Un altro tipico esempio di comportamento appreso e trasmesso dall’osservazione diretta è quello dei cosiddetti ‘fringuelli vampiri’ che popolano alcune delle isole Galapagos. Questi passeriformi, appartenenti al genere Geospiza, hanno l’abitudine di salire sul dorso di uccelli marini più grandi come le sule, per ripulirli di alcuni parassiti di cui si nutrono. La casuale rottura di una penna avrà portato alcuni individui a scoprire che era per loro possibile nutrirsi del sangue dei loro ospiti, senza che questi si accorgessero di nulla, e ora tale comportamento ha preso piede e si è diffuso in numerose colonie di uccelli marini. Si tratta, in questo caso, di cultura trasmessa non tramite l’insegnamento, ma attraverso la semplice osservazione di altri individui.

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I ‘fringuelli vampiri’ delle Galapagos.

L’apprendimento necessita forzatamente che ci sia una capacità comunicativa alta per permettere all’individuo di comprendere i concetti fondamentali del nuovo comportamento, sia che questo venga insegnato dai genitori (è tipico l’esempio di mamma gatta che porta ai gattini dei topi, prima morti e poi vivi, per insegnare loro la caccia), sia che sia semplicemente osservato su altri individui che effettuano per conto loro tali comportamenti.

Mainardi focalizza la sua attenzione sia sull’utilizzo di forme di comunicazione estremamente evolute e variabili come il canto degli uccelli e l’apprendimento vocale (con riferimenti anche alle specie con capacità imitatorie, come gracule e pappagalli), sia sulla creazione di un substrato sufficientemente ricettivo affinché l’insegnamento possa essere efficace: un tipico esempio è l’imprinting che lega i giovani uccelli al primo essere visto dalla nascita, che generalmente coincide con la figura materna.

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Il celebre etologo Konrad Lorenz nuota con la sua ‘nidiata’ di giovani oche: è un tipico esempio di imprinting.

Oltre alle capacità comunicative e di apprendimento, ciò che ha realmente fatto la differenza nella linea filetica degli Ominidi, che ha condotto all’uomo moderno, è forse proprio lo sviluppo di una forma di comunicazione vocale particolarmente evoluta e completa, che ha permesso una capacità di trasmissione delle informazioni e della conoscenza pratica ed estremamente rapida, che ha dato il via a una serie di reazioni a catena che hanno portato alla sua immensa evoluzione culturale.

La comunicazione animale esiste, ed è anche in certi casi particolarmente sviluppata (un tipico esempio è il canto degli uccelli), e laddove non c’è naturalmente può essere insegnata: oltre a Washoe e Koko, un altro classico esempio è Sarah, scimpanzé in grado di comunicare e creare frasi grammaticalmente complete e strutturate in ogni parte (!) tramite l’utilizzo di simboli magnetici apposti su una lavagna; la differenza rispetto all’uomo risiede però nel fatto che la comunicazione vocale umana è un mezzo immediato, funzionale, e sviluppatosi tramite l’evoluzione del proprio organismo, e questo è un limite, insormontabile in quanto fisico, per le scimmie antropomorfe, che hanno sempre dato risultati scarsi e deludenti quando si è provato a insegnarla loro.

Mainardi conclude il suo saggio con un confronto tra la cultura umana e quella animale delineando gli aspetti fondamentali che hanno portato l’uomo a essere l’animale culturale per eccellenza: straordinarie doti discernitive e di apprendimento, capacità di imparare dai propri errori e di risolvere i problemi, un’eccellente manualità nel creare e utilizzare arnesi, un linguaggio vocale immediato e completo, e, soprattutto, una forte socialità e una capacità di condividere e diffondere la conoscenza, aspetto questo che ha posto le basi per la creazione e l’accrescimento della cultura di ogni individuo e di ogni civiltà umana.

L’uomo, secondo Mainardi, ha evoluto e sviluppato la capacità di andare oltre quanto imposto dalle necessità immediate imposte dall’ambiente, utilizzando doti di immaginazione e progettazione straordinarie, riuscendo a superare i limiti del gruppo o della piccola comunità, per svilupparsi sia culturalmente che – soprattutto – demograficamente. Così facendo si è evoluto in una direzione diversa da quella imposta dalla natura, in cui a un eccessivo aumento di una popolazione si alterna sempre un drastico calo a compensare tale squilibrio, e questo sviluppando di continuo, di generazione in generazione, le sue straordinarie doti comunicative e discernitive.

Ciò che il grande etologo si augura, in conclusione di questo splendido e avvincente libro, è che l’umanità utilizzi ancora queste capacità quando compie danni contro la natura o i suoi stessi simili, rendendosi conto dei propri errori, e che talora si ricordi delle sue origini ‘animalesche’ e le utilizzi per ricordarsi di sentimenti forse più istintivi, ma assolutamente necessari, come la pietà, l’altruismo o la pacifica convivenza.