Imitare, imparare, migliorare: il genio imprevisto di api e bombi

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Bombo (Bombus terrestris – Ivar Leidus/Wikimedia commons)

Karl von Frisch fu il primo a rendersene conto: gli insetti, in particolare le api, hanno un’intelligenza vivace, flessibile, adattabile. Questa capacità permette alle esploratrici di utilizzare un linguaggio astratto per comunicare alle loro compagne l’ubicazione del cibo che hanno appena individuato. Dando loro le indicazioni esatte su dove raccoglierlo, le compagne potranno dirigersi direttamente alla fonte di approvvigionamento, riducendo al minimo gli sforzi e gli sprechi di energia. Prima delle scoperte dell’etologo austriaco, pochissimi scienziati ritenevano gli insetti capaci di compiere ragionamenti complessi e distanti dal comportamento puramente istintivo. La danza delle api esploratrici, atta a comunicare l’ubicazione del cibo alle compagne nell’alveare, era però un’azione selezionata da milioni di anni di evoluzione. In definitiva, si trattava comunque di una dimostrazione di intelligenza strettamente legata alle necessità pratiche della colonia e, soprattutto, connessa con le loro attività abituali.

In questi giorni, invece, una ricerca pubblicata su Science ha dimostrato che i bombi (Bombus terrestris), parenti stretti delle api, sono in grado di fare ancora di più: possono apprendere comportamenti ben distanti dalla loro quotidianità. Nello specifico, agli imenotteri è stato insegnato a “fare gol”, ossia spingere dentro ad un buco una piccola pallina di legno per ottenere in cambio una ricompensa di acqua zuccherata. Già questo è un comportamento del tutto inedito tra gli insetti, ma la parte più sorprendente dell’esperimento riguarda proprio la loro fase di apprendimento. Gli autori dello studio, gli scienziati Olli Loukola e Clint Perry della Queen Mary University di Londra, hanno proceduto per fasi: prima hanno fatto scoprire agli insetti che al centro della piattaforma, ogni tanto, poteva apparire del nettare zuccherino; poi hanno fatto vedere che la sua comparsa era direttamente collegata alla caduta della pallina dentro al buco al centro del piano di studio; inizialmente, la pallina veniva spostata tramite un magnete posto sotto alla piattaforma o tramite un bombo di plastica che “insegnava” agli osservatori come ottenere la ricompensa; infine, dopo che alcuni insetti hanno imparato la procedura e hanno iniziato ad utilizzarla, altri bombi hanno osservato e appreso dai loro simili.

Anche il livello di apprendimento degli insetti ha rivelato quanto fossero importanti i metodi di insegnamento: quasi tutti i bombi (il 99%) sono riusciti a realizzare la procedura al primo tentativo dopo aver visto i loro simili effettuarla, circa tre quarti (78%) hanno imparato dopo aver visto in azione il magnete, mentre una percentuale molto più bassa (34 %) ci è riuscita dopo aver visto la pallina già nel buco. E non è tutto: i bombi hanno ottimizzato la procedura, prendendo l’abitudine di scegliere la pallina più vicina al foro per risparmiare fatica. E questo nonostante i ricercatori avessero obbligato alcuni bombi “istruttori” a scegliere la pallina più lontana, incollando le altre alla piattaforma. Gli allievi hanno comunque ottimizzato il lavoro, scegliendo la pallina più vicina al foro che, nel loro caso, non era incollata. Questo ha dimostrato che il problema era stato da loro elaborato e non si trattava di pedissequa imitazione. In un altro studio pubblicato recentemente, si erano viste delle api raccogliere del cibo legato ad un cordino tirandolo fino ad essere in grado di raccoglierlo, ma si trattava, tutto sommato, di un risultato meno sorprendente, dato che agli insetti venivano presentate condizioni che potevano in qualche modo essere incontrate in natura.

Il dover “fare gol” per ottenere una ricompensa, per contro, è qualcosa di assolutamente inedito nel mondo dei bombi e, più in generale, nella classe degli insetti (qui è possibile vedere il video dell’esperimento).

Gli scienziati sono tuttora in cerca delle spiegazioni per questo comportamento. La risposta più credibile è che i bombi, e più in generale questo tipo di insetti, abbia una capacità di elaborare le informazioni e di risolvere i problemi che potrebbe aiutarli in caso di ricerca del cibo e di risposte alle modifiche ambientali, ma quello che è certo è che si tratta di animali molto più intelligenti di quanto siamo abituati a pensare. Nel 2016 un altro studio, pubblicato da Andrew B. Barron e Colin Klein su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha scombussolato la nostra tradizionale visione degli insetti, ipotizzando che le api abbiano un certo grado di autoconsapevolezza. Anche se si tratta di pure ipotesi, si tratta comunque di una visione molto innovativa sulle capacità mentali degli insetti. Ora bisognerà riconsiderare gli studi in questo campo, per capire fino a che livello l’intelligenza degli animali a sei zampe si possa spingere. Difficile stabilirlo, finché non sarà ben chiaro che cosa intendiamo per “intelligenza”. Di certo, però, sarà ben difficile mantenere i nostri vecchi pregiudizi su questi animali e sulle loro capacità.

Parlare la stessa lingua

Indicatore golanera

Indicatore golanera (Wilferd Duckitt/Wikimedia commons)

Da millenni la popolazione degli Yao, in Mozambico, si dedica alla ricerca e alla raccolta del miele delle api selvatiche. Per trovare il dolce bottino, però, i raccoglitori si affidano al talento di un insolito aiutante, un uccellino. L’indicatore golanera (Indicator indicator), infatti, è ben più bravo dell’uomo nel trovare i nidi degli insetti e nel condurlo fino alla loro ubicazione. Spesso, infatti, gli alveari sono costruiti sui rami più alti degli alberi e trovarli non è così facile per chi non è in grado di volare. Gli uomini, per contro, sono molto più abili nel recupero del bottino: staccano l’alveare dal ramo su cui è costruito e lo affumicano per far scappare le api.

E così, seguendo una tradizione che si perpetua ormai da tantissime generazioni, i cercatori si affidano alle indicazioni del volatile, che dalla collaborazione potrà ottenere il vantaggio di nutrirsi, grazie a dei potenti enzimi digestivi, della cera dell’alveare (di scarso interesse per gli umani) una volta che questo sarà abbandonato dalle sue abitanti. Questo rapporto di collaborazione non è però esclusivo: anche i tassi del miele sfruttano le indicazioni degli uccellini per recuperare il prezioso bottino.

Questo tipo di interazione tra specie viene chiamato mutualismo: entrambe le parti in gioco ottengono un vantaggio dalla reciproca collaborazione, senza entrare in competizione diretta per le risorse (agli uomini interessa il miele, agli indicatori la cera). Questa collaborazione tra uomini e uccelli per trovare il miele è comunque conosciuta da secoli. Tra l’altro, lo stesso sistema di raccolta del miele è stato osservato in altre popolazioni africane, in Kenya e Tanzania, mentre è risaputo che i delfini sono in grado di aiutare i pescatori nella loro ricerca di pesce, ben consci che potranno trarre un vantaggio da questa collaborazione.

La novità assoluta riguardante questo comportamento è stata presentata in un articolo pubblicato su Science pochi giorni fa: i cercatori di miele Yao e gli uccellini, nella riserva nazionale di Niassa in Mozambico, comunicano tra di loro utilizzando un linguaggio comune. Nello specifico, il richiamo emesso e interpretato allo stesso modo da uomini e volatili è un particolare tipo di fischio vagamente tremolante, indicato dai ricercatori come “brrr-hm”. Il segnale sembra, dati alla mano, una sorta di comando che gli uomini impartiscono agli uccellini, qualcosa del tipo: “sono qui, dimmi dove si trova l’alveare e al resto penso io”. Per i più curiosi, qui potete ascoltare il particolare richiamo:

Ma cosa ci sarà mai di nuovo in tutto ciò, direte voi: c’è chi dirà che ogni mattina qualcuno fa un fischio al cane e questo viene dal padrone e magari gli porta pure le pantofole. In questo caso, però, la grande novità consiste nel fatto che il richiamo emesso è lo stesso per uomini e uccelli e che, soprattutto, questi ultimi sono animali selvatici. Fino ad ora, infatti, non si avevano prove di un livello di comunicazione condiviso tra uomini e animali selvatici.

Queste osservazioni personalmente mi spingono a riflettere su un argomento ben più ampio: è davvero così necessario imporre tutte queste distinzioni tra i comportamenti degli animali in natura e in cattività? Mi spiego meglio. È vero, indubbiamente, che lo stato di prigionia influisca sul modo in cui gli animali si relazionano con l’uomo e con l’ambiente circostante; nondimeno è stato fondamentale, per la conoscenza del comportamento animale, il passaggio allo studio dell’etologia degli animali in libertà, a cominciare soprattutto da Konrad Lorenz e dai suoi contemporanei: un conto è se un animale in uno zoo, per vincere un premio in cibo, impara a utilizzare un attrezzo, un’altra cosa è osservare l’utilizzo di questo utensile in natura. Detto questo, però, se osserviamo un animale comunicare con l’uomo con un linguaggio comune, come abbiamo visto per tanti primati in cattività, non dovrebbe venirci il dubbio che, almeno potenzialmente, questi possano avere questo talento anche in natura? Ovviamente ci vogliono anni e anni di insegnamento per raggiungere i livelli di Koko o Kanzi, però se guardiamo a come opera l’evoluzione, e quindi su più generazioni, una scoperta come quella che riguarda i cercatori di miele mozambicani non dovrebbe stupirci più di tanto. Ora però, come giustamente spiegato in questo articolo di National Geographic, bisogna affrettarsi a studiare a fondo il fenomeno: sempre meno africani si dedicano alla tradizionali ricerca degli alveari, e i segreti di questa antica pratica e della parlata comune di uomini e uccelli rischiano di andare perduti per sempre.

Anche gli scimpanzé hanno una religione?

Uno scimpanzé intento a compiere l'insolito "rituale"

Uno scimpanzé intento a compiere l’insolito “rituale”

È stato recentemente pubblicato un articolo firmato da una lunga lista di primatologi sulla rivista Scientific reports che descrive un comportamento insolito da parte di alcuni gruppi di scimpanzé dell’Africa occidentale: gli animali lanciano o battono con forza delle pietre contro i tronchi di alcuni alberi, al punto da creare accumuli di sassi alla loro base o all’interno di quelli cavi. Questo comportamento sembra legato soltanto ad alcune piante appositamente scelte dalle scimmie. Inoltre, per ora è stato visto soltanto in specifiche popolazioni di animali: ad esempio i celebri scimpanzé di Gombe in Tanzania, studiati originariamente da Jane Goodall, non sembrano conoscerlo.

Il comportamento è stato osservato nei filmati raccolti da una serie di fototrappole posizionate in zone boscose della Repubblica di Guinea. A realizzare le riprese il team di ricercatori autori dello studio, tra cui Laura Kehoe dell’Università di Berlino, che ha parlato della scoperta anche in un articolo su The conversation. I suoi contenuti sono poi stati ripresi da molte testate, tra cui New Scientist e persino il Daily Mail, non esattamente un giornale scientifico.  Gli accumuli di pietre in certi casi sono anche molto ben riconoscibili e il comportamento degli animali, filmato in più occasioni, non sembra essere riconducibile a interessi pratici come la ricerca di cibo.

Un’ipotesi suggerisce che questo modo di agire sia una sorta di esibizione da parte dei maschi come segno di dominanza sugli altri maschi, o anche come metodo per attrarre le femmine. Dal punto di vista puramente pratico l’interpretazione potrebbe essere credibile: un tronco cavo rimbomba bene se colpito con un oggetto di peso adeguato, e produce anche frequenze particolarmente basse e capaci di propagarsi a distanza. L’accumulo di pietre sarebbe in tal caso dovuto al fatto che alcuni alberi si presterebbero meglio all’uso e quindi verrebbero utilizzati con più frequenza. Il comportamento però, sebbene sia stato principalmente osservato in maschi adulti, è stato registrato anche in femmine e giovani, e questo rende tale ipotesi poco plausibile. Inoltre, l’accumulo delle pietre all’interno delle cavità non sarebbe spiegato in maniera esaustiva.

Una raccolta di video di scimpanzé coinvolti nello studio, catturati su pellicola dalle fototrappole.

Un’altra ipotesi afferma che si tratti di un comportamento che anche per la storia umana ha segnato una svolta importante: la creazione di segnali di riferimento per stabilire i confini territoriali e favorire l’orientamento all’interno del bosco. Di certo un accumulo di pietre alla base di un albero costituirebbe un segnale inconfondibile, ma non spiegherebbe il comportamento associato alla sua creazione: basterebbe appoggiare le rocce, senza bisogno di lanciarle contro i tronchi, soprattutto con la notevole forza impiegata dalle scimmie nei filmati studiati.

E a questo punto l’ipotesi più fantasiosa, ma anche la più affascinante, si fa strada: e se si trattasse di comportamenti irrazionali? Potrebbe essere una sorta di atto rituale, simbolico o, perché no, religioso? E se gli alberi cavi fossero una sorta di luogo sacro creato dalle scimmie per motivi a noi non chiari? Un punto di riferimento a cui approcciarsi per comunicare con la natura e chiederle favori di vario genere? In fondo, sappiamo già che gli scimpanzé hanno comportamenti quantomeno insoliti e affascinanti (come le incredibili danze della pioggia osservate per la prima volta da Jane Goodall in Tanzania).

Di certo si tratta di un’interpretazione molto fantasiosa di un comportamento che per ora è soltanto di difficile comprensione e potrebbe avere una spiegazione molto più razionale. Gli stessi ricercatori sembrano comunque voler lasciare aperta la “finestrella” che ci fa vedere gli scimpanzé come animali irrazionali e interessati all’ultraterreno. Ed è facile capire perché: se dimostrata, una teoria del genere rappresenterebbe una sorta di rivoluzione nel modo con cui noi ci approcciamo al mondo animale. Le implicazioni, anche per l’interpretazione antropologica della religione, sarebbero enormi: forse il credere in qualche sorta di realtà spirituale o ultraterrena sono una necessità non solo di gran parte delle popolazioni umane ma anche di altri animali particolarmente complessi come le scimmie antropomorfe?

Si tratta di teorie affascinanti e ancora ben lontane dall’essere dimostrate o dimostrabili. Il caso degli scimpanzé della repubblica di Guinea si rivela comunque un evento di estremo interesse e di cui sarà bene seguire gli sviluppi anche in futuro. Anche perché nella letteratura scientifica possiamo trovare un piccolo precedente che ci dimostra che anche del mondo animale un po’ di irrazionalità esiste: in un celebre esperimento del 1947 infatti, lo psicologo americano Burrhus Frederic Skinner dimostrò che anche i piccioni sono superstiziosi e compiono riti scaramantici. E forse presto scopriremo che non sono gli unici.

Ma come parli? – Festival della Scienza 2013

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Ma come parli?

Comunicazione bestiale: come gli animali parlano, ascoltano e si fanno belli
Cosa canta una megattera quando vuole sedurre una papabile compagna? Che passo di danza esegue l’uccello del paradiso che vuole farsi bello per la femmina che ha scelto? E come mai le piante sembrano agghindarsi civettuole di fiori così belli? Come la specie umana comunica in ogni modo per poter sedurre l’altro sesso e perpetrare i propri geni, anche animali e piante possono darci qualche consiglio su come essere seducenti quando cerchiamo la nostra dolce metà. Impariamo come animali e piante non si limitino a usare suoni e colori per mettersi in mostra, ma sfruttino per fare colpo anche movenze e odori. Attraverso quiz e giochi scopriamo un messaggio preciso da dover comunicare, ma senza parlare: sfidiamoci a spiegarlo imitando animali e piante, per poter comprendere meglio quanto la comunicazione tra specie viventi sia essenziale nella costruzione di rapporti personali e di società complesse e funzionanti. Una capacità senza la quale non vi sarebbe ne evoluzione ne prosecuzione della specie e che accomuna tanto le metropoli delle formiche quanto quelle degli uomini.

A cura di

Chiara Segré, Debora Serra, Paolo Degiovanni, Alfonso Lucifredi
Acquario di Genova – Galleria Atlantide, dal 24 ottobre al 3 novembre 2013.
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Pennuti sapienti

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In alcune regioni della Cina, per secoli, i pescatori hanno addestrato i cormorani a tuffarsi, pescare e ritornare alla barca per riconsegnare il pesce al loro padrone. Un anello al collo sufficientemente stretto impediva loro di ingoiare le prede, ma ogni otto pesci uno era concesso agli uccelli tuffatori, a cui veniva allentato il blocco. Quando questo non accadeva, non era raro che i cormorani si ribellassero, rifiutando di tuffarsi e schiamazzando fino a ottenere la loro meritata ricompensa. Questo dimostra due cose: che i cormorani sanno contare fino a otto, e che soprattutto sono sufficientemente intelligenti da comprendere un concetto complesso come giustizia o ingiustizia.

Tra scimpanzé e gorilla che comunicano con il linguaggio dei segni, scimmie cappuccine che hanno scoperto l’utilizzo di attrezzi, delfini, cani e specie domestiche dotate di talenti di ogni genere, la classe dei Mammiferi, a cui noi stessi apparteniamo, sembra detenere senza dubbio lo scettro di gruppo animale più intelligente. Eppure non siamo gli unici in grado di risolvere enigmi complessi e dimostrare pura capacità discernitiva e una fervida immaginazione: di sicuro ci fanno compagnia almeno alcune specie dei nostri cugini alati.

In effetti gli esempi non sono pochi. E la cosa non dovrebbe stupire: ai tempi dell’università, studiando anatomia e fisiologia animale, mi era stato fatto notare da più di un professore come gli uccelli avessero mediamente un cervello di dimensioni ampiamente superiori alla media dei vertebrati, mammiferi esclusi. Certo, la coordinazione necessaria per dedicarsi a un’attività impegnativa come il volo ha favorito lo sviluppo di determinate aree encefaliche come il cervelletto, che difatti negli uccelli è molto accresciuto, ma è possibile che il particolare stile di vita che essi conducono abbia portato allo sviluppo dell’intelligenza e di un sistema di ragionamento complesso?

Non è facile stabilirlo, per vari motivi. In primis perché il termine “intelligenza” non è considerato da tutti gli studiosi allo stesso modo: per alcuni è la semplice predisposizione a risolvere enigmi, anche di tipo pratico, per altri è una caratteristica molto più vicina alla fantasia e all’immaginazione, e per altri ancora corrisponde alla capacità di fare propri concetti complessi come la coscienza di sé, l’empatia e la comprensione. Insomma, è difficile trovare un punto di vista comune su cosa sia e su come si possa definire più o meno “intelligente” un essere vivente.

In secondo luogo non va dimenticata la difficoltà pratica di studiare il comportamento degli animali selvatici nel loro ambiente, ancora di più quando questi possono involarsi al primo sospetto di essere osservati. Prima di cominciare a intuire anche piccole parti del comportamento di una specie occorrono migliaia e migliaia di ore di osservazione diretta sul campo e i risultati non sono mai garantiti, né tantomeno certi o definitivi.

Eppure alcuni esempi indubitabili ci fanno vedere come il detto comune bird’s brain, utilizzato dagli anglosassoni in termini dispregiativi, sia decisamente campato in aria; gli uccelli sono sicuramente molto più intelligenti di quanto venga loro dato credito. Vediamo alcuni esempi.

Nella cultura popolare corvi e gazze sono notoriamente riconosciuti come gli uccelli più astuti. Lo stesso Konrad Lorenz, nel suo celeberrimo L’anello di Re Salomone, ha parlato diffusamente delle taccole, descrivendole come animali curiosi, oltreché estremamente sensibili ed empatici. E in generale molti rappresentanti della famiglia dei corvidi, a cui corvi, gazze e taccole appartengono, dimostrano una spiccata intelligenza.

In certi casi per osservare queste dimostrazioni di perspicacia non bisogna avventurarsi nei boschi. Ecco un esempio celebre: un corvo comprende come utilizzare le automobili passanti come schiaccianoci, scoprendo anche il modo più adatto per non rischiare la pellaccia scendendo in strada.

Gli studi compiuti dagli scienziati Bernd Heinrich e Thomas Bugnyar sul corvo imperiale hanno dimostrato come questo animale sia in grado di compiere scelte consapevoli tra più alternative possibili, utilizzando la logica e l’esperienza pregressa: ad esempio, tirando e tenendo ferma una corda a cui era legata una ricompensa, o nascondendo il cibo alla vista dei rivali, allontanando solo quei rivali che conoscevano il nascondiglio e ignorando gli altri. Talvolta il livello di complessità di ragionamento era paragonabile a quello delle scimmie antropomorfe.

I corvi sono inoltre tra i pochi uccelli in cui è stato osservato in natura l’utilizzo di strumenti. L’esempio più lampante è dato da quello che per molti è il volatile più intelligente in assoluto, il corvo della Nuova Caledonia, di cui ha parlato anche National Geographic.

L’utilizzo di rametti per raccogliere il cibo dall’interno dei tronchi non è però esclusivo dei corvidi ma si può incontrare in altre specie come il fringuello picchio delle Galapagos (Camarhynchus pallidus), uno dei celebri Darwin’s finches che, con la loro incredibile varietà di soluzioni adattative, hanno aiutato lo scienziato inglese a dare vita alla sua teoria dell’evoluzione.

Molte di queste specie dotate di spiccata intelligenza vivono sulle isole, dove la pressione adattativa data da un ambiente particolarmente esigente e con poche risorse le spinge a trovare soluzioni immediate per procurarsi il cibo e in cui caratteristiche come fantasia e curiosità possono rivelarsi un’arma in più nella lotta per la sopravvivenza.

Tra le specie di uccelli particolarmente sapienti non si può dimenticare il neozelandese kea, degno rappresentante di un altro gruppo di uccelli dalla spiccata intelligenza come i pappagalli. In questo documentario della BBC, la voce di sir David Attenborough ci guida alla scoperta delle straordinarie capacità di questo pennuto, ormai diventato una sorta di mascotte nazionale.

E infine, per i più curiosi, ecco un simpatico confronto “testa a testa” nel risolvere alcuni rompicapi, in cui i contendenti sono il kea e il corvo della Nuova Caledonia, forse i due più meritevoli di ambire al titolo di “uccello più intelligente”. A voi stabilire il vincitore, a me basta la meraviglia nell’osservare cosa sono in grado di fare questi due splendidi animali.

Konrad Lorenz – Evoluzione e modificazione del comportamento (1965)

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Lo studio del comportamento animale o etologia ha avuto una storia estremamente complessa e travagliata, con innumerevoli correnti e sottocorrenti di pensiero che hanno sfaccettato l’interpretazione delle conoscenze preesistenti e delle osservazioni sperimentali fornite dalla zoologia nel campo dello studio del comportamento animale.

In poco più di un secolo, da quando cioè l’etologia ha potuto definire i propri campi di indagine approfonditamente, distaccandosi dalle altre discipline naturalistiche per diventare scienza a sé stante, il dibattito sul comportamento animale ha cercato di stabilire quali siano le componenti fondamentali che danno origine al comportamento stesso.

Gli elementi basilari sono due: da un lato c’è un patrimonio genetico, ereditato da millenni di evoluzione e perciò selezionato e adattato all’ambiente, che dovrebbe fornire la matrice ‘innata’ del comportamento, dall’altra vi è l’influenza, tutt’altro che trascurabile, dell’ambiente stesso sulla crescita e la formazione dell’animale stesso e del suo comportamento (‘appreso’).

Konrad Lorenz, considerato il padre della moderna etologia (‘moderna’ in quanto una scuola di pensiero già piuttosto evoluta aveva posto le radici alla cosiddetta ‘psicologia comparata’ a cavallo tra XIX e XX secolo, e tra gli scienziati che la componevano vi era lo stesso maestro di Lorenz, Oskar Heinroth), al tempo della pubblicazione di questo libro cercò di fare il punto sulla situazione della disciplina, chiarendo gli aspetti fondamentali del suo pensiero e criticando la visione di alcune nuove scuole di pensiero.

Va detto difatti che ai tempi era ancora imperante tra gli etologi di scuola americana la corrente del ‘Behaviorismo’, che eliminava completamente dal piano comportamentale degli animali la sua componente innata, sottolineando il peso delle influenze ambientali nell’ontogenesi (sviluppo dell’individuo) dell’animale adulto, ponendo oltretutto l’accento sul fatto che una componente genetica, qualora presente, non fosse identificabile sperimentalmente e quindi dimostrabile, e su come in certi casi lo stesso sviluppo prenatale potesse influire sul comportamento dell’individuo.

Per molti altri etologi di lingua inglese invece il concetto di ‘innato’ non solo era inutile, ma anche sbagliato, poichè essi ritenevano che il comportamento fosse determinato in qualunque sua forma da due componenti, quella appresa e quella ereditata filogeneticamente e geneticamente, in livelli differenti a seconda dei casi, ma che comunque né l’una né l’altra parte fossero distinguibili e identificabili sperimentalmente in ogni singolo comportamento.

La primissima scuola di etologi europei, a cui faceva capo Heinroth e a cui si ascrive lo stesso Lorenz, aveva invece il difetto di ritenere che i due concetti di innato e appreso si escludessero a vicenda, e che ciascun comportamento potesse essere identificabile sperimentalmente come appartenente all’una o all’altra categoria. In questo senso lo stesso Lorenz confessa il proprio errore.

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Konrad Lorenz (1903-1989)

Lo scopo principale del presente volume è quello di evitare che sia screditato un concetto che, anche se a volte è stato utilizzato in modo impreciso, è tuttavia indispensabile per affrontare in modo etologico lo studio degli animali. Il concetto è quello di “innato”, scrive Lorenz. Per perseguire questo scopo lo scienziato austriaco controbatte punto per punto le posizioni delle scuole sopraccitate, sottolineando come uno studio etologico debba essere compiuto, senza dimenticare una componente come quella dell’osservazione diretta in natura delle specie e l’approfondita conoscenza di tutti gli schemi di comportamento prefissati e preesistenti in esse (etogramma), e come, specie nella scuola Behavioristica, fosse stato dato un peso addirittura eccessivo allo studio sperimentale in laboratorio, che comunque forniva una fotografia deformata del comportamento reale dell’animale in natura, e spesso eccessivamente condizionato (ai limiti del patologico) per far sì che una componente innata fosse identificabile in esso. Lorenz inoltre sottolinea come sia fondamentale la funzione dei processi selettivi ereditati geneticamente, e già preformati per rispondere alle esigenze ambientali a cui la specie è adattata; l’influenza ambientale è sì importante, ma in molti casi fa da ‘fattore scatenante’ a determinati comportamenti ereditati geneticamente e quindi istintivi.

Infine, Lorenz sottolinea quelli che devono essere gli aspetti fondamentali del cosiddetto ‘esperimento di privazione’, ovvero verificare se l’animale, in assenza del fenomeno scatenante presente in natura, presenti ugualmente un determinato comportamento che in tal caso sarebbe innato, nel caso contrario appreso; l’esempio più classico è dato dal maschio di Spinarello Gasterosteus aculeatus, che in fase riproduttiva assume una colorazione rossastra sul ventre. Uno spinarello nel periodo degli amori attaccherà qualunque altro maschio rosso se invaderà il suo territorio, pur non avendone mai visto un altro nel corso della propria esistenza.

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Maschio di spinarello (Gasterosteus aculeatus) nel periodo degli amori

Lorenz identifica gli aspetti fondamentali dell’esperimento di privazione in 5 punti fondamentali:

1)Un esperimento di privazione può dare informazioni certe solo sulla componente innata di un comportamento, non su quella appresa;

2)Chi compie questo tipo di studi deve conoscere nei minimi dettagli ogni singolo aspetto di tutta la catena di comportamenti che caratterizza la specie (ad es. tutta la fase di corteggiamento-riproduzione dello Spinarello) in modo da avere un buon ‘occhio clinico’ e verificare ogni minimo cambiamento in essa;

3)Ogni animale deve essere utilizzato per un solo esperimento, oppure per ogni soggetto deve essere stabilita una determinata sequenza di studi, in modo che in ciascuno di essi l’acquisizione di dati sia sotto controllo e permetta la verifica in esperimenti successivi; inoltre bisogna compiere un’approfondita distinzione tra i meccanismi motori e attivatori, e tra le sperimentazioni volte a identificarli;

4)L’ambiente artificiale in cui viene effettuato l’esperimento deve contenere anche l’azione-stimolo necessaria a scatenare lo schema di comportamento studiato;

5)I risultati di tali esperimenti potranno dare uno schema comportamentale affidabile solo se effettuati su animali con patrimonio genetico estremamente simile.

Per quanto ovvi, tali presupposti sperimentali non erano stati quasi mai rispettati in passato, e Lorenz fornisce a tal proposito numerosi esempi, sottolineando l’approssimazione e l’incertezza data da studi etologici ancora acerbi e incompleti. Un esempio su tutti viene esposto da Lorenz in conclusione del suo saggio, ovvero delle ‘confutazioni’ sperimentali effettuate su studi compiuti del suo allievo Tinbergen su tacchini, fagiani e oche selvatiche, effettuati in laboratorio su galline bianche livornesi(!).

In conclusione mi sento di sottolineare l’importanza di questo trattato, sia perché riassume il ‘Lorenz-pensiero’ su tutte le principali tematiche storiche dell’etologia, sia per l’appassionata ed estremamente interessante difesa alla componente istintiva del comportamento, spesso trascurata o di scarso interesse per gli studiosi del comportamento ‘in erba’, nonostante la sua fondamentale importanza. Ovviamente non bisogna aspettarsi una narrazione leggera e scorrevole come quella di un’opera divulgativa come può essere ad esempio L’anello di Re Salomone, anche se Lorenz si dimostra un eccellente narratore anche impegnandosi nel rigido e formale trattato scientifico, che risulta comunque ‘digeribile’ anche da chi non è solitamente abituato a questo tipo di lettura; ciononostante mi sento comunque di consigliarne la lettura a tutti gli appassionati di psicologia ed etologia, data la sua importanza storica e i temi trattati, tuttora fonte di dibattito presso la comunità scientifica.

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Biografia di Konrad Lorenz

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Konrad Lorenz nasce a Vienna il 7 novembre 1903, secondogenito di una famiglia di medici, figlio di Adolf Lorenz, celebre ortopedico, e Emma Lechter, presidente di una società letteraria. Il fratello Albert, maggiore di ben 18 anni rispetto a Konrad, segue la vocazione medica di famiglia, e si dimostra molto affettuoso e protettivo, così come tutta la famiglia, nei confronti dell’ultimo arrivato, nato da una gravidanza tardiva e, sostanzialmente, inaspettata. Konrad Lorenz dimostra notevole vivacità e intelligenza sin dai primi anni di vita, oltre a un grande amore per la natura sviluppatosi soprattutto nelle frequenti visite alla tenuta estiva della famiglia, ad Altenberg in Austria. Viene mandato nelle migliori scuole private della città, dove si rivela un eccellente allievo, rivelando grandi capacità comunicative e un’intelligenza vivace e curiosa. Il padre Adolf, figura affettuosa ma anche autoritaria e patriarcale, impone al figlio Konrad gli studi universitari in Medicina, sebbene l’interesse principale del giovane Lorenz sia già il mondo animale.

Nel 1922 parte per un tirocinio presso la Columbia University a New York, a cui però rinuncia quasi subito, ritornando presto in Austria e stupendo la propria famiglia per tale decisione. Ricomincia comunque gli studi in Medicina, e consegue la laurea in tale disciplina nel 1928, per diventare poi assistente del professore di Anatomia dell’Ateneo. L’anno precedente aveva sposato l’amica dei tempi d’infanzia Margarethe “Gretl” Gebhardt, medico ginecologo, più grande di lui di un anno, da cui avrà le due figlie Agnes e Dagmar e un figlio maschio, Thomas.

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Konrad Lorenz e la moglie Margarethe in una foto d’epoca

Nonostante gli studi in Medicina, Konrad dedica gran parte del suo tempo libero all’osservazione degli animali in natura; fra i suoi primi studi è celebre un diario sulle osservazioni a Jock, un uccellino di cui lo scienziato studia e descrive minuziosamente il comportamento e le abitudini di vita. Un giornale di ornitologia pubblica le osservazioni del diario, dando a Lorenz una discreta notorietà nel campo che lo aiuterà in futuro. Un’altra passione che lo coinvolge fortemente è la motoristica: in questo periodo partecipa a numerose competizioni motociclistiche. Libero finalmente dalle imposizioni familiari, Lorenz può dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione; si iscrive alla facoltà di Zoologia di Vienna, scienza in cui si laureerà nel 1933. Nel periodo immediatamente successivo svilupperà gran parte degli studi sperimentali per i quali è celebre, in particolare lo studio sulle oche selvatiche ad Altenberg, e le taccole; unitamente a questi svilupperà e approfondirà le sue teorie sul comportamento animale, rivalutando in particolare la componente “innata” di questo, in contrapposizione con quanto sostenuto dalla scuola americana dei Behavioristi, secondo la quale tutti i suoi aspetti principali sono riconducibili a conoscenze apprese nel corso dell’esistenza dell’animale, e quindi tralasciando in gran parte quanto ereditato geneticamente. Buona parte di questa “rivalutazione” dell’innato è riassunta da Lorenz in Evoluzione e modificazione del comportamento, che pubblicherà molto più in là.

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In particolare, dallo studio sulle oche selvatiche, Lorenz approfondisce minuziosamente il comportamento dell’imprinting, il fenomeno che determina un attaccamento affettivo profondo del pulcino al primo vivente che vede dopo la schiusa dell’uovo, anche se non appartenente alla propria specie, che da quel momento viene riconosciuto come propria madre. Lo stesso Lorenz viene riconosciuto come genitore naturale da svariate oche, che lo seguono fino al completo svezzamento. A dare ulteriore celebrità allo studioso austriaco sono numerose sue immagini che lo immortalano in compagnia di schiere di giovani oche che lo segono in fila indiana, o nuotano con la propria ‘madre’ umana. Questi studi riguardano direttamente anche la celebre oca Martina, protagonista del suo saggio sul comportamento Io sono qui, tu dove sei?. Lorenz sviluppa inoltre la teoria secondo la quale per determinati comportamenti animali occorre un ‘evento scatenante’ che renda questi attivi per la prima volta nel corso dell’esistenza dell’animale.

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Questa teoria viene sviluppata in collaborazione con l’amico e collega Nikolas Tinbergen, che verrà in seguito insignito del premio Nobel proprio insieme a Lorenz. Dal 1937 in poi Lorenz insegna psicologia animale e anatomia comparativa all’Università di Vienna, e nel 1940 diventa anche professore di psicologia all’Università di Konigsberg. Nel 1941, in piena II Guerra Mondiale, Lorenz si arruola nell’esercito della Germania nazista, viene fatto prigioniero dall’esercito russo nel 1944, e tenuto in un campo di prigionia a Everan, in prossimità del monte Ararat (dove, secondo la tradizione, attraccò l’Arca di Noè) fino al 1948; durante questo periodo esercita la professione di medico e si fa ben volere da tutti, grazie alla sua simpatia irrefrenabile e a un carattere allegro e gioviale. Una volta liberato e ritornato ad Altenberg, torna all’Università di Vienna e inizia a collaborare con la Max Planck Society for the Advancement of Science. Nel 1949 viene pubblicato il suo libro più celebre, l’Anello di Re Salomone, conosciuto e rinomato dagli appassionati di tutto il mondo, in cui Lorenz, utilizzando un linguaggio schietto e distante dal rigore accademico tipico dei trattati scientifici, racconta e trasmette tutto il suo amore per il mondo animale e la propria esperienza personale di un ambiente familiare ormai tramutatosi in un autentico zoo popolato da cani, gatti, oche, acquari e mille altre specie, il tutto immerso nel piccolo paradiso naturale di Altenberg. Il libro è celeberrimo tuttora, ed è una delle opere letterarie trattanti tematiche naturalistiche più lette e diffuse nel mondo.

Nel 1955, grazie alla collaborazione della Max Planck Society, Lorenz fonda e dirige l’Istituto di fisiologia comportamentale di Seewiesen in Baviera, insieme all’etologo Gustav Kramer e al fisiologo Erich von Holst. Dopo la morte di questi, Lorenz resterà l’unico direttore dell’istituto. Durante questo periodo Lorenz evolve le sue teorie, approfondisce gli studi sulle analogie tra comportamento umano e animale, e sviluppa un’attenta analisi della storia e dell’evoluzione dell’Umanità. Parte di queste riflessioni verranno riassunte in altri bestsellers, come Il cosiddetto male e Il declino dell’uomo. Altra opera fondamentale per la definizione delle sue teorie sul comportamento è L’altra faccia dello specchio, in parte sviluppata da alcuni suoi manoscritti del periodo di prigionia in Russia.

Altri studi di Lorenz riguardano alcune particolari forme comportamentali come l’aggressività, a cui verrà dedicato un altro saggio di successo, e il cui studio verrà in parte applicato anche alla storia dell’uomo in un parallelismo con le guerre proprio ne Il cosiddetto male. Nel 1973, insieme ai colleghi e amici Nikolas Tinbergen e Karl Von Frisch, Konrad Lorenz viene insignito del premio Nobel per la Medicina per gli studi e le scoperte sul compotamento animale. Lo stesso anno Lorenz si ritira dal Seewiesen Institute e ritorna nella sua Altenberg, dove continua a scrivere e dirige il dipartimento di sociologia animale all’Accademia Austriaca delle Scienze. La Max Planck Society inoltre costruisce un laboratorio per le sue ricerche scientifiche nella sua stessa abitazione. Negli ultimi anni di vita Lorenz continua la sua opera di divulgatore e si schiera in numerose campagne per la tutela dell’ambiente e degli animali. In particolare è celebre la sua partecipazione a una contestazione nei confronti di un progetto di centrale idroelettrica sul suo amato Danubio. Un anno dopo la dolorosa scomparsa della moglie Gretl, Konrad Lorenz muore il 27 febbraio 1989, all’età di 85 anni, ormai unanimemente considerato come il padre dell’etologia moderna.

Gli approfondimenti disponibili in rete sulla figura di Konrad Lorenz sono innumerevoli. Tra i tanti, segnalo il sito ufficiale del Konrad Lorenz Institute for Evolution & Cognition Research (KLI):

http://www.kli.ac.at/

Un’altra associazione direttamente legata alla figura di Lorenz è il Konrad Lorenz Institute for Ethology, il cui sito ufficiale è raggiungibile all’URL:

http://www.oeaw.ac.at/klivv/

Danilo Mainardi – L’animale culturale (1975)

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Numerosissimi scienziati, psicologi ed etologi in particolare, hanno cercato, soprattutto nel corso del secolo passato, di stabilire dei limiti ‘culturali’ entro cui separare gli animali dall’uomo. Le scienze naturali ci hanno insegnato, soprattutto in tempi recenti, che tale limite non è stabilito né dalle capacità di apprendimento o di astrazione del linguaggio, né dall’utilizzo di arnesi, o dal riuscire a comunicare con forme di comunicazione complesse (ne sono un classico esempio le scimmie antropomorfe a cui sono stati insegnate forme di linguaggio umano, come Koko o Washoe); dove risiederebbe tale distinzione allora? Cos’è che rende l’uomo distinguibile dal resto del regno animale, qual è la chiave di volta che lo ha portato all’incredibile successo evolutivo delle ultime migliaia di anni?

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Il celebre scimpanzé femmina Washoe, a cui è stato insegnato il linguaggio dei segni.

La risposta sembra risiedere in un solo termine, ovvero cultura. Il grande etologo italiano Danilo Mainardi cerca con questo suo celebre saggio di stabilire e definire appieno gli aspetti che differenziano la capacità di produrre e trasmettere cultura degli animali in contrapposizione con quella che contraddistingue l’umanità.

Va innanzitutto sottolineato che il concetto di ‘cultura’, inteso come insieme di concetti appresi e trasmessi ai propri simili, non va assolutamente in contrapposizione o antitesi col mondo animale, anzi. Mainardi, come è tipico delle sue opere (un altro classico esempio è L’etologia caso per caso), esamina i vari aspetti del concetto di apprendimento e trasmissione della conoscenza punto per punto, fornendo numerosi esempi tratti dall’osservazione diretta del mondo animale a tutti i livelli.

Gli animali non solo possono approfondire e affinare le proprie conoscenze oltre i basilari comportamenti dettati dall’istinto, ma sono anche in grado di diffondere tale conoscenza all’interno delle comunità di cui fanno parte. Un classico esempio riguarda i Macachi del Giappone (Macaca fuscata): un gruppo di questa specie abitante l’isola di Koshima in Giappone, in condizioni di stretto contatto con l’uomo, ha preso l’abitudine nei primi anni ‘50 di accettare cibo offerto dagli uomini, in particolare patate dolci.

La scoperta che ha cambiato il comportamento di gran parte della comunità è stata compiuta da una giovane femmina di circa un anno di età, chiamata Imo, che per prima ha preso l’abitudine di portare la patata nell’acqua di un ruscello per ripulirla della sabbia. Tale comportamento si è diffuso largamente nella colonia, e in giro di pochi anni è diventata un’abitudine di gran parte del gruppo. Questa attività si è inoltre affinata con gli anni: la stessa Imo, difatti, ha scoperto che lavando la patata nell’acqua marina piuttosto che nell’acqua dolce, essa assumeva un sapore evidentemente più gradevole per i primati. Tale modifica nel comportamento si è sviluppata anch’essa nella colonia, ed è curioso notare anche come siano stati quasi sempre le fasce d’età più giovani del gruppo di scimmie a imparare e utilizzare per prime tali novità.
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Un macaco dell’isola di Koshima, in Giappone, intento a lavare una patata dolce; questo è un tipico esempio di comportamento appreso e culturalmente trasmesso all’interno di un gruppo animale.

Dunque il punto a favore dell’umanità nel confronto culturale con gli animali non è l’apprendere o il diffondere una nuova conoscenza. Mainardi esamina a questo punto un altro tipico concetto che secondo un classico modo di fare scienza distinguerebbe l’uomo dall’animale, ovvero l’utilizzo di attrezzi. Inutile sottolineare come gli esempi di utilizzo di strumenti nel regno animale per vari scopi (nutrimento, difesa, avvertimento, aggressività) siano molteplici. L’interesse è però quello di stabilire qual è il nesso tra l’utilizzo di arnesi e la cultura nel regno animale.

L’utilizzo di oggetti semplici, generalmente non modificati, per raggiungere un determinato scopo da parte dell’animale è piuttosto diffuso, si va dalle scimmie che si servono di bastoni e armi rudimentali per attaccare un potenziale nemico (un leopardo impagliato in un celebre esperimento dell’etologo danese Kortlandt), all’avvoltoio Capovaccaio che utilizza delle pietre per rompere i robusti gusci delle uova di cui si nutre, alle lontre marine che aprono bivalvi e crostacei utilizzando pietre come scalpelli, fino alle scimmie che si servono di fili d’erba per raccogliere le termiti dal termitaio. Ciò che però permea di ‘cultura’ tali comportamenti è la capacità di modificare e affinare questi tramite l’esperienza diretta, ad esempio modificando l’arnese a seconda delle necessità, oppure sostituendolo con un altro più efficace, al variare del contesto.

Un esempio classico è dato dagli studi effettuati sullo scimpanzé Sultan da parte dello studioso tedesco Wolfgang Köhler nel dopoguerra. Questa scimmia, difatti, aveva sviluppato in laboratorio una straordinaria capacità discernitiva che le permetteva di risolvere problemi di difficoltà sempre crescente. A Sultan veniva infatti offerto un premio gustoso all’interno di un tubo, non raggiungibile direttamente con le mani. Il primo passo compiuto dallo scimpanzé fu utilizzare il bastone che gli venne fornito per raccogliere il cibo dal tubo. Il successivo evolversi del problema fu privare l’animale del bastone, in modo da renderlo capace di ricavare uno strumento adatto da altri oggetti, al fine di ottenere ugualmente il premio. Sultan fu in grado di ricavare un palo di forma adatta da blocchi di legno di svariata forma anche se, almeno apparentemente, non permettevano in alcun modo di immaginare un futuro utilizzo per lo scopo, come ad esempio da un pezzo di legno di forma circolare. Il limite delle capacità di Sultan venne raggiunto quando gli fu offerto un disco di quercia, inattaccabile da unghie e denti, insieme a una rudimentale ascia di pietra. La scimmia non riuscì mai a capire il nesso tra il secondo oggetto e il suo arnese potenziale, si intestardì, si arrabbiò, provò in tutti i modi, ma non ne venne a capo, neanche quando le venne mostrata direttamente la ‘soluzione’ del problema. Sultan, insomma, sembrava non arrivare al concetto dell’utilizzo di un arnese per creare il proprio arnese. Forse è proprio questo la differenza fondamentale nella cultura delle scimmie antropomorfe rispetto all’uomo? Difficile stabilirlo, in fondo si trattava comunque di un unico esemplare di un’unica specie, forse il limite di Sultan non è il limite di un altro scimpanzé  o di un’altra scimmia, o di un altro animale. Rimane il fatto di un dato oggettivo comunque estremamente interessante, condiviso anche dal grande paleoantropologo Tobias, che ha supposto che un nostro stesso progenitore, l’Australopiteco, si sia fermato al livello di fare l’arnese per fare l’arnese, e non sia riuscito a spingersi oltre.

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Lo scimpanzé Sultan intento a risolvere un problema che richiede l’utilizzo di uno strumento, in questo caso un bastone.

Mainardi sviluppa il suo discorso sull’importanza dell’apprendimento di un comportamento creato da altri individui. Gli esempi sono molteplici, come i topi da laboratorio, che dimostrano un’enorme flessibilità nell’adottare i comportamenti di altri individui quando questi sanno risolvere un problema: i topi tenuti in compagnia di individui ‘maestri’, già in grado di risolvere semplici problemi come aprire delle porticine per sfuggire dalla gabbia, dimostrano risultati enormemente maggiori rispetto ad altri individui che non hanno una traccia guida a cui rifarsi. La massima prerogativa di questi roditori è difatti la capacità di colonizzare nuovi ambienti specializzandosi sul momento alle nuove condizioni, pur dovendo sacrificare tantissimi individui della propria specie, elemento questo che spiega la loro altissima prolificità. Allo stesso modo i gatti, che, se non vengono correttamente educati, non attaccheranno mai topi o ratti, ma anzi prenderanno l’abitudine a convivere con loro, e in certi casi ad affezionarsi ad essi e mostrare sentimenti protettivi se cresciuti assieme a loro.

Un altro tipico esempio di comportamento appreso e trasmesso dall’osservazione diretta è quello dei cosiddetti ‘fringuelli vampiri’ che popolano alcune delle isole Galapagos. Questi passeriformi, appartenenti al genere Geospiza, hanno l’abitudine di salire sul dorso di uccelli marini più grandi come le sule, per ripulirli di alcuni parassiti di cui si nutrono. La casuale rottura di una penna avrà portato alcuni individui a scoprire che era per loro possibile nutrirsi del sangue dei loro ospiti, senza che questi si accorgessero di nulla, e ora tale comportamento ha preso piede e si è diffuso in numerose colonie di uccelli marini. Si tratta, in questo caso, di cultura trasmessa non tramite l’insegnamento, ma attraverso la semplice osservazione di altri individui.

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I ‘fringuelli vampiri’ delle Galapagos.

L’apprendimento necessita forzatamente che ci sia una capacità comunicativa alta per permettere all’individuo di comprendere i concetti fondamentali del nuovo comportamento, sia che questo venga insegnato dai genitori (è tipico l’esempio di mamma gatta che porta ai gattini dei topi, prima morti e poi vivi, per insegnare loro la caccia), sia che sia semplicemente osservato su altri individui che effettuano per conto loro tali comportamenti.

Mainardi focalizza la sua attenzione sia sull’utilizzo di forme di comunicazione estremamente evolute e variabili come il canto degli uccelli e l’apprendimento vocale (con riferimenti anche alle specie con capacità imitatorie, come gracule e pappagalli), sia sulla creazione di un substrato sufficientemente ricettivo affinché l’insegnamento possa essere efficace: un tipico esempio è l’imprinting che lega i giovani uccelli al primo essere visto dalla nascita, che generalmente coincide con la figura materna.

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Il celebre etologo Konrad Lorenz nuota con la sua ‘nidiata’ di giovani oche: è un tipico esempio di imprinting.

Oltre alle capacità comunicative e di apprendimento, ciò che ha realmente fatto la differenza nella linea filetica degli Ominidi, che ha condotto all’uomo moderno, è forse proprio lo sviluppo di una forma di comunicazione vocale particolarmente evoluta e completa, che ha permesso una capacità di trasmissione delle informazioni e della conoscenza pratica ed estremamente rapida, che ha dato il via a una serie di reazioni a catena che hanno portato alla sua immensa evoluzione culturale.

La comunicazione animale esiste, ed è anche in certi casi particolarmente sviluppata (un tipico esempio è il canto degli uccelli), e laddove non c’è naturalmente può essere insegnata: oltre a Washoe e Koko, un altro classico esempio è Sarah, scimpanzé in grado di comunicare e creare frasi grammaticalmente complete e strutturate in ogni parte (!) tramite l’utilizzo di simboli magnetici apposti su una lavagna; la differenza rispetto all’uomo risiede però nel fatto che la comunicazione vocale umana è un mezzo immediato, funzionale, e sviluppatosi tramite l’evoluzione del proprio organismo, e questo è un limite, insormontabile in quanto fisico, per le scimmie antropomorfe, che hanno sempre dato risultati scarsi e deludenti quando si è provato a insegnarla loro.

Mainardi conclude il suo saggio con un confronto tra la cultura umana e quella animale delineando gli aspetti fondamentali che hanno portato l’uomo a essere l’animale culturale per eccellenza: straordinarie doti discernitive e di apprendimento, capacità di imparare dai propri errori e di risolvere i problemi, un’eccellente manualità nel creare e utilizzare arnesi, un linguaggio vocale immediato e completo, e, soprattutto, una forte socialità e una capacità di condividere e diffondere la conoscenza, aspetto questo che ha posto le basi per la creazione e l’accrescimento della cultura di ogni individuo e di ogni civiltà umana.

L’uomo, secondo Mainardi, ha evoluto e sviluppato la capacità di andare oltre quanto imposto dalle necessità immediate imposte dall’ambiente, utilizzando doti di immaginazione e progettazione straordinarie, riuscendo a superare i limiti del gruppo o della piccola comunità, per svilupparsi sia culturalmente che – soprattutto – demograficamente. Così facendo si è evoluto in una direzione diversa da quella imposta dalla natura, in cui a un eccessivo aumento di una popolazione si alterna sempre un drastico calo a compensare tale squilibrio, e questo sviluppando di continuo, di generazione in generazione, le sue straordinarie doti comunicative e discernitive.

Ciò che il grande etologo si augura, in conclusione di questo splendido e avvincente libro, è che l’umanità utilizzi ancora queste capacità quando compie danni contro la natura o i suoi stessi simili, rendendosi conto dei propri errori, e che talora si ricordi delle sue origini ‘animalesche’ e le utilizzi per ricordarsi di sentimenti forse più istintivi, ma assolutamente necessari, come la pietà, l’altruismo o la pacifica convivenza.

Karl von Frisch – Il linguaggio delle api (1950)

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Nel campo dell’etologia o “scienza del comportamento”, un ruolo fondamentale nella ricerca è ricoperto dagli studi sulle forme di comunicazione che gli animali compiono per interagire tra loro, denominato da alcuni autori con l’insolito termine di zoosemiotica. In tal senso gran parte dei progressi nel settore sono andati di pari passo con quelli compiuti dall’etologia stessa, e non è difatti un caso che in questo campo di studi un peso fondamentale lo abbiano avuto gli studi sul linguaggio delle api compiuti dall’etologo Karl von Frisch.

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Karl Von Frisch(1886-1982)

Lo zoologo austriaco, insignito nel 1973 insieme a Konrad Lorenz e Nikolas Tinbergen del Premio Nobel “per le scoperte sull’organizzazione e l’evocazione delle forme di comportamento individuale e sociale”, è principalmente conosciuto al grande pubblico per gli studi sul linguaggio delle api che ha portato avanti con dedizione sin dal 1910, scoprendo i meccanismi fondamentali che consentono a questi insetti di comunicare ai propri compagni la direzione verso le fonti di cibo appena scoperte. Tali ricerche, riassunte in un breve ciclo di lezioni tenute alla Cornell University, al Museo Americano di Storia Naturale di New York e all’Università del Minnesota nel 1950 e di cui questo libro riporta i passaggi fondamentali, hanno chiarificato le funzioni fondamentali della comunicazione di questi insetti, ma anche le loro capacità sensoriali e percettive.

Va fatta una premessa importante: le api hanno differenti meccanismi di percezione del mondo che le circonda rispetto ai normali parametri dell’uomo, dispongono di organi sensoriali strutturati in maniera completamente differente dai nostri, occhi composti costituiti da singoli elementi denominati ommatidi, e organi di percezione degli odori posti su alcuni segmenti delle antenne, e questi elementi vanno conosciuti e studiati con attenzione, per evitare che determinati esperimenti risultino sfalsati a causa di parametri basati sulla sensibilità umana piuttosto che su quella degli insetti.

La percezione dei colori delle api, a cui è dedicato il primo capitolo del libro, è infatti differente da quella umana: le api dimostrano di avere un’ottima capacità di percepire l’ultravioletto che è invece invisibile all’uomo, ma di distinguere a malapena tra loro altri colori per noi estremamente brillanti come il verde e il giallo, e di non riconoscere del tutto il rosso. Gran parte degli studi sul riconoscimento dei fiori da parte delle api, e della loro capacità di distinguere determinate postazioni (ad esempio l’ingresso del proprio alveare) hanno dovuto tener presente questi aspetti, in maniera da utilizzare soltanto quei colori perfettamente riconoscibili dagli insetti. Lo stesso von Frisch, studiando il comportamento delle api e la loro capacità di riconoscere e distinguere determinate zone di approvvigionamento alimentare appositamente preparate, o anche modificando i colori delle arnie, ha avuto un peso fondamentale in questo campo di studi.

Le api inoltre, così come gran parte dei crostacei e degli altri insetti, grazie alla particolare struttura del proprio occhio, si sono rivelate in grado di distinguere la luce polarizzata, orientata cioè su determinati piani di oscillazione, e questo è un elemento di particolare interesse, dato che in determinate condizioni atmosferiche la luce del sole, fondamentale per l’orientamento degli insetti, viene in parte polarizzata.

La seconda sezione del libro è dedicata agli studi compiuti da von Frisch e da altri ricercatori sulla percezione chimica delle api, e quindi sui sensi dell’olfatto e del gusto, presenti sulle antenne e sugli apparati boccali degli insetti. La loro importanza è fondamentale, perchè già da semplici esperimenti si può osservare come l’olfatto influenzi fortemente l’orientamento delle api in volo per ritrovare una determinata posizione una volta giunti nelle sue vicinanze, soppiantando la vista come senso principale preposto alle funzioni di ricerca.

Inoltre l’olfatto ha rivelato di avere anche importanti funzioni sociali nel comportamento di svariate specie di insetti coloniali; un esempio è dato dalle api stesse, che, quando tornano all’alveare dopo aver scoperto zone ricche di cibo, hanno una ghiandola estroflessa sull’addome che emette un odore particolarmente attrattivo per le compagne e permette loro di ricevere informazioni sull’esatta posizione del luogo di approvvigionamento.

Ma come avviene la comunicazione tra gli individui riguardo la posizione del nutrimento? La terza sezione del libro ci descrive minuziosamente le ‘danze‘ che le esploratrici compiono all’interno dell’alveare per comunicare alle proprie sorelle il tragitto da percorrere per ritrovare la fonte di cibo. Von Frisch ha identificato due tipi di danza ben distinti: la danza circolare e la danza dell’addome.

Nel primo caso l’esploratrice compie semplici movimenti circolari, più o meno frenetici e ripetuti in numero sempre ben definito, modificando talvolta la direzione di rotazione.

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La danza circolare. Tre api seguono la danzatrice e ricevono le informazioni che sta comunicando.

Von Frisch ha dimostrato con numerosi studi sperimentali che questo tipo di danza è legato alla scoperta di cibo presente a brevi distanze dall’alveare (entro i 100 metri), e genera nelle compagne una ricerca in tutte le direzioni attorno ad esso, a una distanza però sempre ben definita, e proporzionale al numero e alla durata di movimenti circolari compiuti dalla danzatrice. Apparentemente anche la freneticità di questo comportamento sarebbe in stretta correlazione con la ricchezza di cibo presente: più vivace è la danza, più ricca è la fonte.

Il secondo tipo di danza, denominata ‘danza dell’addome’, è più complessa: le esploratrici si muovono lungo un breve tragitto in linea retta agitando l’addome, quindi compiono un’evoluzione circolare di 360° a sinistra, poi ripercorrono la stessa linea retta, ed effettuano un’altra rotazione completa verso destra, e tutto questo schema complesso viene ripetuto più e più volte.

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La danza dell’addome. Nella figura quattro api stanno ricevendo informazioni dalla danzatrice.

È emerso dagli studi dell’etologo austriaco che tale comportamento ha la funzione di segnalare con precisione la posizione del cibo quando questo è presente a grande distanza dall’alveare. In tal caso è necessario comunicare alle compagne la direzione esatta da seguire, dato che uno ‘sparpagliamento’ delle esploratrici avrebbe successo solo per fonti di approvvigionamento a breve distanza.

Tale informazione viene fornita dall’orientamento della parte lineare della danza rispetto alla verticale, che corrisponde all’angolo che la direzione verso la fonte di approvvigionamento crea con il sole.

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L’intensità e la durata della danza hanno un’importanza fondamentale, poiché sono direttamente proporzionali alla ricchezza di cibo e alla distanza di questo dall’alveare. Altri studi di Von Frisch hanno dimostrato che queste comunicazioni tra compagne tengono presenti altri elementi che potrebbero sfavorire il loro orientamento, come la presenza di ostacoli lungo il tragitto, o la polarizzazione della luce atmosferica.

Gli studi di von Frisch sulla comunicazione delle api hanno creato una sorta di rivoluzione in campo etologico, dato che mai, prima delle sue scoperte, era stato identificata in natura una forma di linguaggio in grado non solo di rappresentare simbolicamente un messaggio complesso, ma di fornire anche informazioni così precise e dettagliate, tra l’altro in forme di vita non complesse come delfini o scimmie, ma particolarmente semplici come gli insetti.

Oltretutto la danza dell’addome rappresenterebbe un notevole passaggio evolutivo non compiuto da tutte le api sociali: pare difatti che altre specie di api indiane, come l’ape nana (Apis florea), compirebbero sì questo tipo di danza, ma unicamente su piani orizzontali, prendendo come unico riferimento la direzione del sole: queste specie difatti creano generalmente piccoli alveari disposti in piano nelle parti più alte degli alberi; il passaggio verso una danza verticale, orientata secondo la gravità, avrebbe segnato un passo evolutivo importantissimo per l’ape europea (Apis mellifera), poiché le avrebbe permesso la creazione di alveari più ampi e protetti.

Tutti questi studi vengono riassunti dal loro artefice in un libro piacevole e di facile lettura, in un linguaggio semplice e immediato, adatto anche ai non addetti ai lavori e che comunica al lettore tutto l’entusiasmo dello scienziato per la scoperta di una delle più sorprendenti forme di linguaggio presenti in natura.